Ungheria: tra la gente dopo le elezioni

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Sabato 14 aprile una grande manifestazione si è tenuta a Budapest contro Viktor Orbán e il suo partito Fidezs. In migliaia hanno attraversato la capitale del Paese fino al parlamento gridando slogan come “Vik-Tator” e “Sporco Fidesz”, chiedendo il riconto dei voti e, soprattutto, un nuovo sistema elettorale.

Orbán, benché non abbia raggiunto la maggioranza assoluta, si accinge a formare il quarto governo, promettendo “cambiamenti significativi”. Si teme una modifica costituzionale per quanto riguarda le migrazioni, argomento forte e incandescente della sua campagna elettorale.

Corre voce che intenda pubblicare una lista di circa 200 nomi (avvocati, giornalisti, manager) ostili alla sua politica, da lui bollati come “mercenari di Soros”, il magnate americano di origini ungheresi che avrebbe soffiato sulle manifestazioni anti-Orbán.

Si teme, soprattutto, che rafforzi il braccio di ferro con l’Unione Europea. Ma sono molti che difendono la sua attività politica. Colgo una voce autorevole: «Il problema è che in Ungheria non c’è un’alternativa visibile, promettente, affidabile. L’esperienza di ogni giorno non è brutta. Facendo un paragone con il passato, si vede che c’è più tranquillità, più sviluppo economico e, sotto questo aspetto, stiamo meglio». Gli fa eco un’altra personalità: «Orbán è popolare, capisce bene la mentalità del popolo ungherese, conosce a fondo i problemi della gente».

Uscire dall’Unione Europea?

Si ribadisce da più parti che non corrisponde al vero che Orbán e il suo partito vogliano uscire dall’Unione Europea. «Tutti i partiti, governo e opposizione, interpretano la volontà della maggioranza di restare nell’Unione».

Si osserva che l’Ungheria è un paese estremamente vulnerabile: il suo territorio è piccolo, al di sotto di 100 mila kmq, la popolazione non raggiunge i 10 milioni, non ha sbocco sul mare, ha una lingua molto difficile: elementi che la rendono debole. Sarebbe da irresponsabili – si commenta – uscire dall’Unione Europea.

C’è chi critica l’Occidente, il quale, dopo la caduta del muro nel 1989, aveva quasi imposto che i piccoli Paesi coltivassero l’identità nazionale, esprimessero sentimenti nazionali, si riappropriassero delle rispettive confessioni religiose. Dopo cinque anni – si fa notare – l’Occidente fa pressione perché si dimentichino l’identità nazionale e la religione, di cui essa è un fattore importante.

La conclusione – secondo il mio interlocutore – «è che questi Paesi piccoli si sentono perduti. Il tono dei politici di Bruxelles è spesso molto aggressivo e prepotente. Da noi si parlava sempre dell’Europa delle Nazioni. Adesso sembra che Bruxelles abbia altri progetti. Ma lo dica con schiettezza. È inevitabile che si abbia paura di questo corso imposto dai burocrati europei. Nella stampa dei nostri Paesi appare spesso che l’Unione Europea viene equiparata all’ex Unione Sovietica. Ci vorrebbe molta più prudenza da parte dei responsabili dell’Unione Europea».

Visegrád

Sulla spinosa questione dell’immigrazione, mi viene detto che bisognerebbe tener conto anche dell’altra faccia della medaglia: l’emigrazione. «Tutti questi Paesi hanno perso una parte notevole della popolazione. Alcuni, come la Lituania, più del 30%. Crollato il sistema comunista, gli ex capi comunisti hanno svenduto il patrimonio nazionale, nato a seguito delle nazionalizzazioni violente degli anni ’50, che è stato acquistato dalle società internazionali a basso prezzo. La gente giustamente ha sentimenti di ribellione perché si è trattato di furti. Dopo tanti anni dalla caduta del regime comunista, il livello di vita non si è avvicinato a quello occidentale, e la gente emigra, profondamente delusa e arrabbiata».

Viene spesso nelle conversazioni fatto riferimento al Gruppo di Visegrád, bellissima posizione sul Danubio ungherese, costituitosi a seguito di un vertice dei capi di stato e di governo della Cecoslovacchia, Ungheria e Polonia, che si tenne il 15 febbraio 1991.

L’incontro mirava a rafforzare la cooperazione fra questi tre stati – divenuti quattro quando la Slovacchia il 1° gennaio 1993 si staccò consensualmente dalla Cecoslovacchia – e intendeva promuovere l’integrazione del Gruppo nell’Unione Europea. Non ebbe successo e i quattro scelsero di entrare separatamente nell’Unione Europea il 1° maggio 1994 e, tranne la Slovacchia, non aderirono all’euro. Il Gruppo, comunque, continuò nella cooperazione soprattutto nei campi della cultura, dell’educazione, della scienza e dell’economia.

Nel 1991 si scelse la città di Visegrád perché, nel 1335, avvenne l’incontro tra i sovrani Carlo I di Ungheria, Casimiro III di Polonia e Giovanni I di Boemia. Un secondo incontro si svolse sempre a Visegrád nel 1339.

Attualmente il Gruppo si estende su una superficie di 533.616 kmq e ha una popolazione di 64.007.048 abitanti.

Orbán e il suo partito vengono accusati di islamofobia. La reazione dei simpatizzanti è forte: «Il popolo ungherese non vuole l’islam. Vogliamo mantenere la nostra cultura e la nostra fede». «Non direi che vi sia islamofobia nel vero senso della parola – sostiene un’altra voce autorevole –, perché la maggioranza della gente non conosce la religione musulmana, solo pochi la conoscono. Neppure si conosce il modo di vivere dei musulmani perché in Ungheria sono pochissimi. Possono comunque emergere paure storiche, ricordando i tempi in cui il Paese era sotto il dominio dei turchi musulmani, quando tutte le chiese furono confiscate e trasformate in moschee».

L’azione della Chiesa

Ritornando ancora sull’argomento immigrazione, mi viene fatto osservare che la Chiesa è impegnata in tre campi:

  • l’aiuto immediato a chi arriva e se ne fanno carico la Caritas, ordini religiosi, parrocchie, che mettono a disposizione appartamenti;
  • l’aiuto prestato sul luogo dove c’è il problema, soprattutto in Iraq, Siria… Sono state organizzate collette nazionali in collaborazione con gli episcopati del Gruppo di Visegrád e della Croazia, ed è stata inviata una consistente somma alla Caritas libanese per i profughi. Aiuti sono stati dati alla diocesi di Erbil in Iraq per la ricostruzione dei villaggi;
  • il terzo campo riguarda l’accoglienza, soprattutto di giovani studenti che provengono da zone di guerra e da persecuzioni. Non sono pochi quelli che provengono dall’Africa. Per loro è stata organizzata un’accoglienza “pastorale” con due cappellani che operano nell’università. Ogni domenica nella basilica di Santo Stefano al centro di Budapest, alle cinque del pomeriggio, viene celebrata la messa e sono sorte varie attività.

E il muro eretto al confine con la Serbia per impedire l’afflusso degli immigrati? «Non ci sono muri. Soltanto un filo spinato. Noi sappiamo cos’era il muro di Berlino».

E la massiccia dimostrazione di sabato 14 aprile? «Una manifestazione contro il governo, contro il risultato delle elezioni. Una piccola minoranza, che non accetta la sconfitta. È comprensibile: non è facile accettare la sconfitta. Società, gruppi, movimenti pagati da Soros vogliono creare un clima negativo nel Paese, forse anche un po’ di caos. L’opposizione non ha capi carismatici, non ha nessun programma serio, vuole soltanto attaccare Orbán. Negli ultimi otto anni, il governo Orbán ha fatto molto, ci sono i risultati concreti che lo testimoniano».

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