«Lo stesso prodotto a un prezzo più basso»: mentre la partita Italia-Europa si conclude più o meno con il risultato testé descritto nella sintesi del presidente del Consiglio Conte; e mentre in Italia ferve la contesa tra i due noti galli del pollaio per stabilire chi abbia salvato più penne in un confronto che, comunque, ha decurtato le pretese di entrambi; mentre tutto questo accade, c’è il rischio che resti in ombra un tema che pure nelle ultime settimane era stato sollevato con qualche seguito interessante nel dibattito politico.
Il tema è quello delle sorti e delle prospettive della democrazia in presenza di tensioni e torsioni che la semplificazione del linguaggio registra sotto la voce del “populismo” ma che, in realtà, rappresentano un attacco al cuore del sistema democratico-rappresentativo che regge ancora un gran numero di paesi di quello che una volta era chiamato il “mondo libero”.
Un fascismo strutturale
Un costituzionalista di chiara fama e di altrettanto chiare lettere, Gustavo Zagrebelsky, ci ha ricordato con una citazione di Umberto Eco (Repubblica, 24 novembre) che esiste un fascismo strutturale al quale occorre richiamarsi prima di denunciare le manifestazioni formali e superficiali del fenomeno; e ha fatto appello ad una «resistenza civile» che opponga la mitezza alla forza e la solidarietà alla violenza, come valori di contrasto da far circolare nella società per contrastare le tendenze semplificatrici che spingono all’omologazione sociale in una direzione illiberale.
Un contributo alla rilevazione della minaccia viene da un articolo di Damiano Palano (Avvenire, 5 dicembre) il quale ipotizzava la fine della democrazia non attraverso una presa del potere con il vecchio metodo del putsch: «Più probabile sarebbe invece una sorta di invisibile golpe incrementale che conti sull’apatia di quella che un politologo inglese David Runciman chiama “zombie democracy”, realizzata attraverso una riduzione graduale e indolore delle libertà e delle garanzie».
Attacchi alla libertà
Se questi segnali d’allarme sono attendibili, non si può rimanere indifferenti di fronte ai propositi messi in circolazione in Italia dal momento dell’avvio del “governo gialloverde”. Si tratta di misure semplificatrici, alcune delle quali ricalcano progetti di riforma del passato (come la riduzione del numero dei parlamentari). Ma si tratta anche d’altro.
La proposta di decurtare fino all’azzeramento i fondi per il sostegno all’editoria minore allarma di per sé in quanto colpisce alcune fonti del pluralismo sociale e politico che hanno un ruolo vitale nel paese. Ma ancora di più inquietano le motivazioni escogitate per sostenerla, tra le quali quella per cui gli organi di informazione interessati meriterebbero di essere penalizzati in quanto “fanno politica”, materia che, secondo i nuovi architetti dello Stato, dovrebbe essere riservata al parlamento, anch’esso peraltro soggetto alla supremazia di organismi esterni e da rinnovate cinghie di trasmissione.
Vedi, nel caso, le forme spurie di democrazia “diretta” governate da piattaforme informatiche private e da una falange parlamentare fidelizzata con il riesumato “vincolo di mandato”.
Il disegno di aprire il parlamento come una scatola di tonno si delinea così concretamente e non può essere più classificato tra i progetti visionari di strateghi di complemento.
Indifferenza e apatia
Ma se si tratta – come sembra evidente – di prospettive fondate e attuali, non si può immaginare che ad esse faccia riscontro la sostanziale indifferenza di quanti hanno il diritto-dovere di esercitare le prerogative della cittadinanza, che è poi la fonte della sovranità popolare.
Indifferenza e apatia sono stati, del resto, i coefficienti decisivi dell’affermarsi, in passato, di esperienze di semplificazione politica sfociate in forme di unitarismo totalitario.
Per questo – come ha recentemente sottolineato il presidente Mattarella – è necessario liberarsi dal luogo comune per cui «non è saggio occuparsi di politica e occorre invece reagire a quell’apatia dei cittadini che già ai suoi tempi Montesquieu definiva “più grave della tirannia del principe”».
“Governata, governante, consenziente”…
Il passaggio susseguente è l’esaltazione del ruolo della cultura come vaccino per non restare «catturati da un presente immutabile senza passato e senza orizzonte».
Ed è anche la riscoperta del ruolo dei corpi intermedi non come agenzie di rappresentanza corporativa ma come centri di elaborazione e di proposta di carattere politico, cioè attinenti al bene dell’intera società.
L’idea è quella che vede nella società civile non il deposito di tutte le disordinate pulsioni connesse agli interessi particolari, ma la base per una riforma della politica che induca non meno ma più democrazia a tutti i livelli.
Il tema non è nuovo. Nel lontano 1966 il politologo francese Georges Burdeau descriveva tre fasi della democrazia. Dalla “democrazia governata”, in cui il popolo abbandonava la sua sovranità ai suoi rappresentanti, alla “democrazia governante” (di moda a quei tempi), in cui la partecipazione dei cittadini si estende, con uno sviluppo ipotizzato come conseguenza della personalizzazione del potere verso una “democrazia consenziente”, modulata con ogni evidenza, sull’esperienza francese di De Gaulle.
Ripasso dei principi
Le vicende in cui siamo immersi in Europa rivelano che è in corso una fase ulteriore, quella della “democrazia illiberale” o della “democratura” come quella che, in nome dell’esigenza della decisione pronta ed efficace, mette in secondo piano il metodo con cui alla decisione si arriva. Da questo punto di vista la stessa risorsa informatica si presenta non solo come un’opportunità ma anche come un rischio da governare con saggezza.
Com’è evidente, la confusione è grande sotto il cielo; e non v’è certezza che funzionino bene tutti gli strumenti di orientamento per una corretta navigazione. Per questo è giusto convenire sull’esigenza di un ripasso dei principi che sono inclusi nelle costituzioni democratiche del secondo dopoguerra e, più in generale, nella carta dei diritti umani delle Nazioni Unite. Qui denunciando come una grave omissione l’aver sottratto il Governo italiano al confronto previsto a Marrakesh in occasione del 70° anniversario della sua approvazione.
Società rigenerata
Ma è necessario pure che si sviluppi, a partire dai livelli di base della società, un lavoro di recupero di quella coscienza democratica che è fatta di impegno e di responsabilità sui problemi di ogni giorno come premessa di partecipazione attiva e di capacità di controllo su ogni ambito di esercizio del potere.
È da una società così rigenerata (più che da estemporanee sortite di stampo partitico) che può venire l’impulso decisivo per una riforma delle istituzioni che sia utile e vitale, nel senso di produrre più democrazia anche nei mutati contesti economici e sociali. Sapendo che qui non si può ottenere lo stesso risultato con il prezzo più basso ma che occorre una mobilitazione straordinaria di virtù civiche, tale da determinare anche un mutamento degli attuali equilibri politici.