Da qualche tempo la politica italiana si confronta, e si divide, sul fenomeno “no-vax”. Nella costante semplificazione dicotomica del nostro discorso politico pubblico, la vaccinazione anti-Covid è divenuta una specie di spartiacque. Anche politico.
Sinistra vax e destra no-vax?
Da un lato, le forze di sinistra o di centrodestra moderato, che si sono chiaramente schierate a favore della vaccinazione di massa. (Persino Berlusconi si è fatto riprendere a braccio scoperto, con l’ago infilato). Dall’altro, le forze di destra populista, che hanno strizzato l’occhio ai movimenti no-vax, pur senza volere o poter prendere le distanze chiaramente dalla vaccinazione, impostando piuttosto il discorso sul piano delle libertà, della contrarietà all’obbligo, di una erronea strategia del Governo, perché troppo impositiva e non sufficientemente “persuasiva”.
E, da ultimo, le forze di estrema destra, su tutte Forza Nuova, che hanno invece chiaramente sposato, probabilmente sostenuto, sicuramente sfruttato le manifestazioni di piazza anti-vax, fino al punto drammatico – per la democrazia – dell’assalto alla CGIL e degli sventati assalti – spesso per poco – a varie sedi istituzionali, in numerose città.
Perché alcune forze politiche hanno deciso di guardare o strizzare l’occhio alla protesta no-vax? Si tratta di puro cinismo e calcolo elettorale, o c’è anche qualche fondamento, qualche dimensione culturale e antropologica da esplorare e comprendere?
Oltre la strumentalità politica, un fatto culturale
Il primo elemento curioso è questo schieramento delle destre sul fronte delle libertà individuali, tradizionalmente campo di gioco delle sinistre radicali o dell’area liberal. La destra è sempre stata paladina dell’ordine e della superiorità dello Stato sull’individuo. Ma questa volta sta dalla parte di chi rivendica l’autonomia individuale, contro l’obbligo statale.
Certo, può avere inciso la circostanza del momento, che fa della Meloni l’unica forza di opposizione al governo Draghi. Logico quindi che Fratelli d’Italia “cavalchi” un movimento di opposizione più o meno spontaneo. Ma l’impressione è che ci sia anche dell’altro, su un piano più profondo.
L’impressione è che l’individualità radicale abbia ormai invaso ed eroso lo spazio comune, sociale e politico, orfano da decenni di grandi ideologie collettive. Non è discorso di oggi e non è discorso da banalizzare, sposando luoghi comuni.
Il fenomeno tuttavia è marcato, e appare del resto anche a sinistra, dove i temi legati ai diritti sociali sono assai meno forti di un tempo, mentre crescono le battaglie per i “diritti civili” legati alla libertà individuale. Una svolta “liberal-radicale” della sinistra che negli anni ’60 avrebbe fatto storcere il naso a ben più di un dirigente del PCI…
Difficile pensare che lo stesso “tarlo” non si insinui nelle destre, pure un tempo paladine di “ordine e disciplina” e oggi inevitabilmente costrette a fare i conti con una società in cui ogni dovere sociale deve essere attentamente e profondamente motivato (fortunatamente, vorremmo aggiungere) e soprattutto introiettato e accolto sul piano individuale.
Una società di mezzi “superuomini”?
Senza avventurarci in campi filosofici che non ci competono, si potrebbe leggere questo fenomeno come una specie di avvento dell’Übermensch nietzschiano nella quotidianità socio-politica. Ciò che cent’anni fa sembrava un concetto estremo, oggi è una categoria interpretativa che può aiutare a comprendere la quotidianità politica ai tempi della pandemia. Ancor più se enfatizzata dall’era mediatica digitale.
L’autonomia e la libertà informativa “da tastiera” ci rende “superuomini”? È certamente una forzatura, ma nemmeno troppo se pensiamo che il “superuomo”, o meglio l’oltreuomo nietzschiano, non era affatto un essere straordinario o che facesse «della sua vita un’opera d’arte». Non era un eroe, come spesso si equivoca in senso d’annunziano o fascista.
Era piuttosto l’uomo che abbandonava nelle sue scelte quotidiane ogni assoluto (religioso come ideologico), lasciava cadere ogni illusorio “velo di Maya” e poneva serenamente sopra alla morale comune e al dovere imposto i propri convincimenti, la libertà assoluta dei propri valori individuali. Un uomo che rifugge dall’apollineo della razionalità e della pietà etico-religiosa comune. E dà enorme importanza al proprio corpo, perché tutto è ormai inevitabilmente terreno e contingente.
Insomma, Nietzsche potrebbe aver intuito per tempo un’evoluzione antropologica che oggi vediamo operante nella pretesa di ogni singolo cittadino di crearsi da zero la propria verità sulle origini del virus, sull’affidabilità dei vaccini, sugli interessi che ci sarebbero dietro, senza volersi fidare di nessuna apollinea verità razionale comune.
È sicuramente un’interpretazione ardita e – espressa in così poche righe – semplificatoria. Tuttavia, nei movimenti no-vax si potrebbe leggere anche l’emersione definitiva di categorie di questo tipo. Definitiva proprio perché quotidiana e – soprattutto – semplice: cioè, non espressa da una riflessione filosofica consapevole, ma spontanea, quasi scontata e culturalmente diffusa.
Il rifiuto della scienza “apollinea”
La comunicazione dei media “ufficiali” ha probabilmente alimentato questa babele di verità individuali, tutte di (pretesa) pari dignità. Senza seguire l’infelice espressione del senatore Monti sulla necessità di una «comunicazione di guerra», appare però evidente che una comunicazione in cui ogni opinione – anche la più assurda e infondata – ha cittadinanza, richiede la capacità del singolo di selezionare l’informazione, di possedere categorie culturali, storiche, epistemologiche con cui rielaborare l’informazione.
Questi frames culturali, ci dicono da anni le indagini OCSE e INVALSI, in Italia sono debolissimi, dal momento che il Paese da molti decenni è in coda alle graduatorie di cultura scientifica e il 30% degli studenti superiori (non parliamo quindi delle vecchiette con la 2° elementare…) non è in grado di estrarre il contenuto di un testo di difficoltà-base, come un articolo di giornale.
Forse l’informazione di questi mesi ci ha tutti sopravvalutati, quando ha pensato di fornire ogni giorno dati su dati, con tassi e grafici che gran parte delle persone in realtà non comprende, restando così sospesa in un senso di confusione, di complessità, che genera pausa o disorientamento.
Nei dibattiti televisivi, gli scienziati e i medici sono stati sicuramente dal lato dell’apollineo. Hanno espresso certezza nella razionalità e nella scienza positiva (talora, ci si consenta, anche troppa, lo diciamo su un piano puramente epistemologico). In ogni caso hanno, e giustamente, orientato al “dovere sociale” le proprie scoperte, fungendo da consulenti diretti del decisore politico.
Cosa che ci ha portato ad apprezzare, almeno a tratti, una politica finalmente razionale, conseguente, basata sulle evidenze e sui dati, come non si vedeva da anni. Ma che ha anche suscitato la reazione avversa di chi rifugge l’apollineo della razionalità comune, o perché lo avverte come una pretesa superiorità, oppure perché pensa che tocca a lui e solo a lui crearsi i propri convincimenti, sostenuti del resto –oggi più che mai – dalla facilità di accesso diretto alle informazioni.
Se a questo clima antropologico si aggiunge il clima di costante (e spesso non immeritato) discredito della politica – che in Italia domina da almeno 30 anni – il gioco è fatto: la possibilità che le persone si “fidino” di direttive esogene, dettate da “politica” e “razionalità comune”, specie quando in ballo c’è la fisicità del loro corpo, diviene molto bassa.
Contro questa lettura c’è l’evidenza – di cui si parla troppo poco – che, a fronte di una rumorosa minoranza no-vax, c’è un’amplissima maggioranza silenziosa, costituita dal 90% di popolazione vaccinata. È sicuramente così: c’è ancora tanta gente portatrice di una razionalità comune, di un senso della socialità e della fiducia. E in Italia – tutto sommato – più che altrove: siamo il Paese del volontariato sociale diffuso, ad esempio.
Sarebbe interessante sapere, tuttavia, anche tra i vaccinati, quanti non siano stati toccati dal dubbio, dalla paura, e quanti magari abbiano più ceduto alla necessità di proteggersi che alla piena fiducia nel dato scientifico. Anche tra i vaccinati, insomma, può convivere tranquillamente la cultura dell’autonomia e della sfiducia nel “sistema”, che però viene estremizzata in modo abnorme solo dall’universo no-vax.
Uno spazio per il rafforzamento dei populismi?
Si spiega così, forse, la presenza di forze politiche che – pur senza mai dichiararsi contrarie alla vaccinazione – hanno strizzato l’occhio ai movimenti no-vax, o che – quanto meno – hanno sollevato varie perplessità sulle campagne vaccinali, sui green pass e su ogni genere di obbligo sociale. Salvini e Meloni hanno spesso espresso pronunciamenti di questo tenore ambiguo o altalenante.
Le elezioni, del resto, non sono lontane. E non si deve pensare che il 10-15% di no-vax siano un segmento elettorale di poco conto. Fidelizzare un gruppo sociale fortemente compattato dalle polemiche può garantire un successo elettorale, nell’attuale equilibrio. Anche perché, come detto, pure nel fronte dei vaccinati non mancano spaventati e titubanti verso l’“evidenza scientifica”.
Tanto Meloni che Salvini, come tutti i leaders populisti, sono politici di grande fiuto verso le paure diffuse (oltre ad avere alle spalle “bestie mediatiche” che fotografano attentamente questi sentimenti popolari, a cui poi si adeguano con grande rapidità e freddezza).
Così la vicenda no-vax sembra riproporre, in termini nuovi e su nuovi temi, la sfida tra democrazia e populismo: come difendere la democrazia dei cittadini razionalmente consapevoli nella società popolata di singoli ultrauomini (in senso etico e comportamentale), sfiduciati verso il “sistema”, monadi non più legate da vincoli ideologici o religiosi e perciò perfettamente “liquide”.
Uscire dalle dicotomie comunicative, ripensare i dibattiti confusivi di questi mesi, migliorare la divulgazione dei dati, fare giornalismo di qualità: non sono solo ricette per combattere la pandemia, ma per evitare che su di essa si ricostruisca la forza dei populismi, che proprio l’emergenza pandemica – con l’esigenza di “larghe intese” – sembrava per un attimo avere allontanato.