L’arcivescovo di Catanzaro-Squillace, Vincenzo Bertolone, è intervenuto sul tema della sanità in Calabria. Le sue proposte per uscire dalla crisi.
«La credibilità di un sistema sanitario non si misura solo per l’efficienza, ma soprattutto per l’attenzione e l’amore verso le persone». C’è da domandarsi, rileggendo le parole di papa Francesco, quanta – e soprattutto quale – credibilità sia rimasta alla sanità calabrese dopo le vicende, affatto edificanti, delle ultime settimane. Non ci sono più né alibi né veli. La sanità, in Calabria, ha il volto dei tanti che, nei paesi come negli ospedali, intendono il loro lavoro come missione: medici, infermieri, personale sanitario. Tuttavia manca – da 20 anni almeno – un sistema organizzato e dignitoso che garantisca il diritto alla salute.
Si dirà: cose calabresi, colpa della ’ndrangheta, frutto degli appetiti della politica, e tanto altro ancora. Vero, ma limitare cause e responsabilità solo a questi fattori significherebbe perpetuare lo status quo. La questione va affrontata in maniera articolata.
La pandemia ha messo in risalto due criticità. La prima: tra il 2010 e il 2019 la sanità pubblica è stata sottoposta, in Italia, ad un corposo definanziamento, pari a quasi 37 miliardi euro. È pur vero che nello stesso periodo il fabbisogno nazionale è lievitato di 8,8 miliardi, ma altrettanto lo è il dato per cui questo aumento si è rivelato inferiore alla crescita dell’inflazione, non riuscendo dunque a garantire l’invarianza del potere d’acquisto. A farne le spese anzitutto il personale, sottoposto in fase di formazione alla regola del numero chiuso e poi falcidiato dal blocco del turn over e da quello dei contratti, con il risultato che molti professionisti hanno scelto di optare per il privato. Così il sistema pubblico si è indebolito e costa ancor di più alla finanza pubblica.
A degenerare, poi, anche la relazione tra Stato e Regioni: quello che dovrebbe essere un rapporto di collaborazione sul piano della legislazione concorrente tra Stato e Regioni è diventato un continuo terreno di scontro tra le parti.
Questa situazione nelle terre calabresi ha toccato punte drammatiche, in qualche caso grottesche. Come se ne esce?
Se fatti e misfatti qualcosa hanno insegnato, è che dalla palude si può venir fuori solo in un modo: rimettendo la salute al centro degli obiettivi pubblici (quelli che gli inglesi chiamano commons).
«La persona, il malato – ricorda proprio il Santo Padre – hanno l’esigenza di essere capiti, ascoltati e accompagnati, tanto quanto hanno bisogno di una corretta diagnosi e di una cura efficace». Per far ciò, servono cambiamenti radicali: rinnovamento della selezione per l’ammissione all’Università, riduzione degli sprechi, chiarezza e regole nuove nel rapporto tra pubblico e privato, investimenti sul personale, soprattutto in direzione dell’etica e della bioetica.
Questa ricetta vale per l’Italia, ma in modo particolare in Calabria: per quanto importante, non basta qualche miliardo in più per rimettere in piedi la baracca. Nulla si rivelerà sufficiente se non si sceglierà di intervenire, col coraggio necessario, su criteri di organizzazione, informatizzazione, monitoraggio, investimento. E per far questo un sol uomo non basta.
Insomma, l’uscita dall’emergenza non può e non deve essere un ritorno al pregresso, bensì occasione per aprire una fase nuova, volta a promuovere le condizioni per una sanità equa e di qualità, che abbia finalmente anche un’anima e un cuore.