Per i migranti in Italia «è finita la pacchia». Per cercare di capire la performance politica del Vicepresidente del Consiglio, Matteo Salvini, bisogna partire dal linguaggio. Cioè dal dubbio che una scarna dimestichezza col vocabolario porti ad usare parole insensate, come quelle di cui non si conosce il significato.
Alla voce “pacchia” nel Dizionario Treccani si legge: «Condizione di vita o di lavoro, facile e spensierata, senza preoccupazioni materiali». Una definizione che fa pensare allo status del borghese benestante o, letterariamente, al “giovin signore” di professione parassita immortalato dal Parini.
L’unico accostamento che ripugna alla ragione è quello con la condizione dell’immigrato, l’uomo o la donna o il bambino sradicati dalla propria terra e in cerca di un rifugio in cui ritrovare un minimo di ambientazione umana.
I luoghi della… pacchia.
Se poi ci si guarda intorno e ci si mette in compagnia degli immigrati in Italia, si può scegliere tra i luoghi di attesa e di… contenzione, le bidonvilles delle zone agricole dominate dai “caporali”, le periferie urbane esposte al contagio con una malavita che induce sfruttamento e corruzione.
Ci vuole dunque – è il caso di dirlo – un bel coraggio a parlare di “pacchia” riguardo a situazioni del genere.
Vero è che il lessico leghista non ha aspettato Salvini per esporsi sulle vertigini della contraffazione. Anni or sono fu un ministro della giustizia di quel colore a sentenziare che i carcerati vivevano come gli ospiti di «alberghi a cinque stelle». Un’iperbole squallida che suscitò riprovazione ma non dette seguito ad un qualche ravvedimento.
Parole e fatti
Lo stesso Salvini, del resto, in più circostanze si era identificato come l’«uomo della ruspa», in tale macchina indicando lo strumento da adoperare per sgombrare i campi nomadi. Non c’era dunque da meravigliarsi se, una volta asceso ai luoghi del potere, il leader leghista abbia inteso proseguire nella sua rumorosa e virulenta esibizione verbale.
Le cose però sono cambiate quando, facendo uso del potere, il nostro ha creduto di poter passare dalle parole ai fatti senza farsi carico delle conseguenze dei suoi atti.
Il passaggio ai fatti è avvenuto con la decisione presa come ministro dell’Interno, d’intesa con quello (grillino) delle infrastrutture, di vietare l’accesso in un porto italiano ad una nave salvaprofughi di una Ong tedesca-olandese: che andasse a depositare il suo carico all’approdo più prossimo di Malta.
Il caso Aquarius
Il seguito è noto. Stallo di alcuni giorni con polemiche tra i due stati, risolto alla fine con l’intervento di un deus ex machina sotto le specie del nuovo governo (socialista) spagnolo, che ha offerto all’Aquarius la possibilità di dirigersi, con un viaggio supplementare, al porto iberico di Valencia.
Il quadro s’è aggravato quando nella bagarre ha creduto bene di intervenire il Presidente francese Macron, con espressioni non proprio gentili all’indirizzo di Salvini e del governo italiano. Il quale ha chiesto scuse per via diplomatica ottenendo solo chiarimenti per via telefonica: per giungere a una chiusura del caso con l’andata a Parigi del Presidente italiano Conte.
Un bilancio problematico
Il promotore del tutto, il Vicepresidente Salvini, si è complimentato con se stesso per due risultati ottenuti: in primo luogo, la fine dell’ostracismo dei paesi europei all’accoglienza di migranti raccolti tra Libia e Sicilia e, quindi, l’apertura di un dibattito sul tema che coinvolgesse tutti i paesi dell’Unione. Siccome questi erano due obiettivi finora perseguiti invano dai governi italiani, ecco che ne dovrebbe discendere un sentimento di gratitudine per chi ha determinato la nuova situazione.
Il fine e i mezzi
Ad una simile conclusione non si può tuttavia pervenire se prima non si compie una ponderazione adeguata tra il fine perseguito e i mezzi impiegati per raggiungerlo. Le trasgressioni che sono state segnalate sono più d’una: violato l’Accordo di Dublino, che impone di sbarcare i migranti raccolti in mare nel paese sicuro più vicino; violata la “legge del mare”, che impone di non lasciare senza soccorso chi viene a trovarsi in pericolo di annegamento.
Ma soprattutto è risultato intaccato, o strumentalizzato, quel caposaldo dell’etica della responsabilità che impone di considerare, prima di ogni scelta, le conseguenze che da essa possono derivare.
Agitare non è risolvere
Nel caso, nulla assicurava che esse sarebbero state conformi ai desideri. Se la Spagna non si fosse prestata, che cosa sarebbe accaduto? Si può rischiare la tragedia per vincere una prova di forza? E soprattutto – come si è detto nel dibattito parlamentare – è consentito di usare come ostaggi, o scudi umani, persone inermi e indifese alle quali è dovuta, comunque, accoglienza e protezione?
Quanto all’altro capitolo dei risultati, i dubbi sono ancora più marcati. È ben vero che l’accaduto costringe tutti a venire allo scoperto, ma non è detto che provocare uno stato di agitazione generale aiuti a trovare la soluzione migliore.
L’Italia spiazzata
Il tema, qui, è la revisione dell’Accordo di Dublino che regola l’accoglienza dei rifugiati. L’Unione Europea aveva trovato, a suo tempo, una risoluzione razionale: il paese “sicuro” più vicino accoglie i richiedenti asilo (o la protezione umanitaria) ma poi essi si ripartiscono in quote proporzionali nei diversi paesi dell’Unione.
L’idea delle quote non è stata accettata ed è in corso la ricerca di nuove e diverse ipotesi. L’Italia, perciò, avrebbe non solo l’interesse, ma la necessità, di promuovere l’intesa più larga su una piattaforma che includa le sue esigenze.
Al contrario, l’atteggiamento assunto l’ha portata, da un lato, a confliggere con alcuni dei governi con cui dovrebbe tessere la nuova tela e, dall’altro, ad ottenere il consenso sia dei paesi più ostili al metodo delle quote (il “gruppo di Visegrad”) sia delle componenti politiche più distanti da un progetto plausibile di Unione Europea, a partire dal movimento lepenista di cui Salvini si mostra amico e sodale.
E il governo Italiano?
Come si vede, i grumi di contraddizioni sono molti e intricati e l’idea di tagliarli con un colpo di spada non pare compatibile con la ricerca di un consenso ad una costruzione che stia in piedi.
Ma qui l’attenzione si sposta sul governo italiano, accompagnato fin dalla nascita da dubbi e perplessità circa la sua volontà di concorrere alla nuova fase dell’Europa o, al contrario, di allinearsi con coloro che hanno assunto il patrocinio del ritorno alle frontiere nazionali (e chi… confina con il mare si arrangi).
Al posto del Presidente
Su questo spartiacque torna in primo piano la figura di Salvini. Mi ha fatto impressione, da antico frequentatore di quei luoghi, di vederlo seduto al posto del Presidente del Consiglio in Senato, nel corso della seduta dedicata al caso “Aquarius”.
Di solito, quel posto si lascia vuoto per un riguardo dovuto. Ma ormai da più parti ci si interroga se questo governo abbia un solo presidente o ne abbia due o tre.
Qualcuno si esercita pure nell’elencare gli atti, i gesti, gli annunci, gli atteggiamenti che denoterebbero l’attitudine di Salvini a farsi, indipendentemente dalle denominazioni formali, il vero “capobranco”, ovvero “maschio alfa” della compagine che guida il paese.
Tra cuore e fegato
È giusto attendere, ma non si può restare indifferenti quando il Vicepresidente, dopo aver provocato uno sconquasso, dice pubblicamente al suo presidente che, forse, è meglio che non vada a ripararlo. Da noi, al contrario che negli USA, non si usa la formula per cui «il Vicepresidente è colui che è a un battito di cuore dal Presidente». Ma non si può escludere che il susseguirsi di certi strappi gli arrechi danni al fegato.