Il 26 gennaio è morto, nella sua casa di Varese, Giuseppe Zamberletti – la cui opera politica può essere raccolta nelle parole dell’omelia di mons. Delpini, arcivescovo di Milano: «Questo si può fare: prendersene cura fino a soffrirne, chinarsi sulle ferite per farne principio di vita, di nuova vita, di un convivere riconciliato. Noi siamo qui a tributare il nostro omaggio, a esprimere la nostra gratitudine, a condividere una preghiera per un uomo che questo ha fatto: si è curato delle ferite dell’umanità». Zamberletti comprese che un paese è il suo territorio e la cura su di esso, figura singolare nel panorama politico italiano raccontata da chi ebbe l’opportunità di conoscerlo sul campo.
Giuseppe Zamberletti era già un deputato di lungo corso quando, nel lontano 1987, mi accadde di entrare in Parlamento. Veniva spesso in Senato e si tratteneva alla bouvette a conversare con i colleghi. Per me aveva un atteggiamento di considerazione rispettosa che attribuivo al buon nome dell’organizzazione da cui provenivo – le ACLI.
Zamberletti era famoso dal 1976, l’anno del terremoto in Friuli, rimasto imbattuto per la rapidità e l’efficienza della ricostruzione. Ammetteva che molto di quel primato era dovuto alla qualità della gente friulana. Nel 1987 c’era materia per fare paragoni con altre catastrofi naturali, come quella dell’Irpinia (1980), di cui pure Zamberletti si era occupato. Ero in grado anch’io di dare una testimonianza. Ad Avellino e dintorni si litigava per stabilire dove fosse e quanto fosse ampio il perimetro del cratere; a Udine e dintorni i protagonisti della vicenda, tra cui in prima fila le stesse ACLI, avevano risposto così alla domanda di che cosa avessero bisogno: «Mandateci le tegole, tante tegole…».
Nella galassia DC
Lui, Zamberletti, non faceva paragoni ma memorizzava episodi e comportamenti. Ed era inevitabile che su quella lunghezza d’onda, direi di umanesimo pratico o di pratica di umanità, ci si ritrovasse in sintonia, prima di ogni collocazione e polemica politica.
Devo ammettere che, a differenza di quanto accadeva con la maggioranza dei colleghi democristiani, non mi ero mai chiesto a quale corrente appartenesse Zamberletti. Il ruolo di capo-inventore della Protezione civile sovrastava e assorbiva ogni altra dimensione.
Un altro motivo di sintonia era dato dal fatto che, essendomi occupato al CNEL del tema della difesa del suolo e delle manutenzione del territorio, venivo a trovarmi spesso sullo stesso percorso di Zamberletti, soprattutto in materia di prevenzione delle catastrofi prima ancora che dell’apprestamento di soccorsi alle popolazioni.
Quando seppe che avevo presentato un disegno di legge per l’istituzione dei parchi nazionali (poi effettivamente approvato) mi assediò con una miriade di suggerimenti, per dare al provvedimento un carattere di massima efficacia e affrancarlo dall’ipoteca dei tanti interessi di categoria o di territorio che sempre circondano misure di questo genere.
Poi, naturalmente, si parlava di politica. Anche di politica. E l’oggetto del contendere era sempre Francesco Cossiga, di cui Zamberletti era amico fraterno mentre a me era accaduto, da un certo momento in poi, di perderne la benevolenza peraltro del tutto gratuita. «Non preoccuparti, mi diceva. Francesco è fatto così…».
Quali istituzioni per l’Italia?
Ma in materia di istituzioni Zamberletti aveva idee ben precise almeno su un punto. Contrariamente all’opinione dei costituzionalisti che andavano per la maggiore, tutti attestati sull’idea della repubblica parlamentare, egli sosteneva che in Italia i costituenti avevano instaurato una repubblica presidenziale, anche se non se ne doveva parlare.
E a sostegno della sua tesi portava un argomento niente affatto debole anche se poco popolare. Si considerino, ragionava, i poteri del Presidente nel procedimento di formazione della leggi. All’art. 87 è scritto che il Presidente della Repubblica «autorizza la presentazione alle Camere dei disegni di legge di iniziativa del Governo». Autorizza, dunque se manca l’autorizzazione del Presidente il governo è paralizzato.
Per basare la sua convinzione Zamberletti usava citare la risposta che il Presidente Pertini aveva dato alle sue insistenze affinché un disegno di legge che gli stava a cuore fosse autorizzato. Una risposta che, tra l’altro, svincolava il Presidente da qualsiasi condizione legale. «Alla mia domanda sul perché non autorizzasse quella presentazione, ed in particolare se ravvisasse nel provvedimento qualche vizio di costituzionalità, Pertini rispose con un: “semplicemente perché non mi piace”…». Una rivendicazione da sovrano assoluto.
Una tesi, questa, che contrastava con l’atteggiamento dei costituzionalisti, tutti orientati a considerare l’autorizzazione presidenziale come un atto dovuto, comunque aggirabile attraverso la presentazione per via parlamentare della legge non autorizzata dal Presidente. A dire il vero, nel corso della legislatura, il Presidente Cossiga si esercitò nella sua arte di «picconatore», ma non mi sembra che abbia calcato la mano su questo passaggio dell’art. 87, né che Zamberletti abbia insistito sulle sue posizioni in occasione del (mancato) dibattito parlamentare sul noto messaggio presidenziale alle Camere.
Un signore dal volto umano
In me tuttavia è rimasto vivo il ricordo, del tutto privato, di un dibattito su questioni di grande importanza che avrebbero meritato uno sviluppo più impegnativo di quello consentito dal corto respiro di un sistema politico già sull’orlo del collasso di tangentopoli.
Poi, nel 1992, le nostre vie si sono separate: io sono uscito dal Parlamento, Zamberletti vi è rimasto ancora per un po’. Ma anche al di fuori delle Camere il suo prestigio e la sua fama di uomo della concretezza umanitaria continuano ad accompagnarlo.