Nell’ottobre del 1948 l’editrice di New York Harcourt Brace diede alle stampe l’autobiografia di un giovane che, dopo gli anni irrequieti della giovinezza, trovò la via che lo condusse alla Chiesa cattolica e in monastero.
Il libro di Thomas Merton, La Montagna dalle sette balze, fece subito colpo. Ma non poté figurare nella lista dei best seller del New York Times per il suo contenuto religioso.
Merton (1915-1968) che, col nome di Louis, come trappista, aveva rinunciato al mondo, per vent’anni visse una vita sotto i riflettori dell’opinione pubblica. Oggi è considerato uno dei più significativi scrittori spirituali del 20° secolo.
Negli Stati Uniti dell’immediato dopoguerra, l’opera di Merton aveva toccato un punto nevralgico. Il New York Times scrisse: «Sette libri, dopo il 1945, hanno cambiato l’atteggiamento dell’America verso la religione. Thomas Merton ne ha scritto uno di questi. La storia della sua conversione si legge come la prima di tutte la autobiografie, Le Confessioni di sant’Agostino».
Un “long seller”
Dopo che l’editrice ebbe pubblicato un annuncio a piena pagina e avere notato che il New York Times aveva deciso di non inserirlo nella lista dei best seller, il giornale si ricredette – e il libro vi rimase per un altro anno in seguito all’elevato numero di vendite.
Tradotto in 15 lingue, il libro è stampato fino ad oggi stampe come un long seller. Avendo fatto voto di povertà, non fu lui a godere dei diritti d’autore ma l’abbazia del Gethsemani situata nello Stato federale del Kentucky. Dopo la sua morte, avvenuta accidentalmente nel dicembre 1968, i diritti delle sue opere furono ereditati dal monastero.
Molti giovani, attraverso Merton, si sentirono spinti, dopo la sua morte avvenuta nel dicembre 1968, ad entrare nella vita religiosa, tenendo spesso in valigia una copia della Montagna dalle sette balze.
Merton, o meglio p. Louis, non fu molto contento di questo sviluppo. «Per un libro che ho scritto, sono diventato una specie di figura modello dei contemplativi disprezzati dal mondo – l’uomo che ha disdegnato New York, sputato su Chicago e calpestato Louisville. Di questo modello di contemplativo probabilmente sono colpevole io stesso. Devo cercare l’occasione di distruggerlo», scrisse autocriticamente in seguito.
È esattamente ciò che ha fatto. Padre Louis rimase la figura modello di contemplativo per coloro che condivisero la sua successiva tendenza a militante della pace e il suo orientamento al buddismo Zen. Altri rimasero sconcertati sapendo che il loro idolo era diventato un ribelle. Ora era “l’eremita hippy”, il fautore di un impegno sociale della Chiesa cattolica, un combattente contro il crasso materialismo e la guerra del Vietnam.
Egli valorizzò gli impulsi spirituali del buddismo per la vita religiosa.
Un ribelle che ha dato coraggio a tante persone di Chiesa
La sua profonda spiritualità gli conferì un’alta autorità morale quando parlava dei pressanti problemi attuali.
Padre Louis si considerava un testimone del suo tempo. «Il fatto che io sia nato nel 1915, che dovessi essere contemporaneo di Auschwitz, Hiroshima, il Vietnam e dei disordini razziali di Watts sono tutte cose di cui non sono stato prima interpellato. E tuttavia sono avvenimenti in cui anch’io, mi piaccia o no, sono profondamente coinvolto di persona».
Da qui derivò la sua responsabilità a prendere parte attivamente agli avvenimenti del tempo. Per quale ragione? Scrisse di avere «una profonda diffidenza verso tutte le risposte vincolanti». «Il grande problema non sono le risposte vincolanti a domande teoriche ben formulate. Il grande problema è la lotta contro l’alienazione autodistruttiva dell’uomo in una società che, in teoria, si sente impegnata a favore dei valori umani ma che, nella prassi, è alla ricerca del potere per se stesso».
La cantante Joan Baez che, nel 1967, gli fece visita in monastero, dichiarò più tardi: «Era un ribelle. E quest’uomo, appartato in monastero, ha dato ai preti, ai religiosi e ad altre persone di Chiesa il coraggio di compiere dei passi che altrimenti non avrebbero mai osato».