Angelo Cavagna, il pacifista

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Alle esequie di p. Angelo Cavagna (2.12.1929-28.4.2024), morto nella infermeria dei padri dehoniani a Bolognano (Trento), ha partecipato un folto gruppo di persone assai diverse: volontari e obiettori di coscienza, familiari e confratelli, amici e missionari, giornalisti e ricoverati. La varietà dell’assemblea liturgica esprimeva i molti interessi e le molte sfide che p. Angelo ha attraversato, prima che una lunga malattia invalidante lo portasse alla fine.

Nei suoi 94 anni di vita è stato formatore, prete contadino, animatore del servizio civile internazionale, propugnatore dell’obiezione di coscienza, convinto pacifista. E, non ultimo, collaboratore di Settimana quando era cartacea.

Educatore e innovatore

Come educatore ha ereditato le forme rigide degli anni ‘50 (è prete dal 1956) per poi aprirsi a nuovi metodi che vedevano gli adolescenti misurarsi con spazi di libertà maggiori, con una prima educazione sessuale non colpevolizzante, con sport fino ad allora esclusi come il nuoto.

Passando poi a età più mature (studenti di teologia) si è reso conto dell’insufficienza del modello seminaristico ereditato dal concilio tridentino. Così ha accettato di partecipare a esperimenti di comunità giovanili, non solo per innovare il percorso formativo (automantenimento, lavoro, studio, autogestione), ma per sperimentare un nuovo modo di introdursi all’esercizio pastorale e al ministero presbiterale. Il passaggio da comunità “di regola” a “comunità di vita”.

La necessità dell’automantenimento assieme alla scelta dei ceti meno fortunati lo porta a fare il contadino di una azienda agricola di tipo intensivo a Modena. È occupato in una stalla di significative dimensioni. I ritmi esigenti (la mungitura al mattino presto e alla sera), i confronti diretti con gli altri dipendenti, la necessità di combinare l’attività pastorale e presbiterale con quella lavorativa mettono alla prova il suo robusto fisico.

Non partecipa se non per simpatia con l’allora fiorente gruppo dei preti operai. Non solo per la diversità di impegno, per una certa distanza dall’interesse ideologico, ma soprattutto per l’attenzione alla pietà popolare e lo sforzo di una comunicazione evangelica con i colleghi e le loro famiglie.

Il volontariato internazionale

Nel frattempo matura un’attenzione verso il servizio del volontariato internazionale. Assieme all’on. Giovanni Bersani (Bologna), già molto efficiente nell’aiuto ad alcuni paesi africani, fonda il CEFA, un organismo ancora oggi attivo.

Collegando il suo interesse per le missioni, uno dei campi privilegiati dei dehoniani, scommette sulla formazione del laicato da immettere nell’impresa. I progetti, la loro esecuzione, la verifica successiva sono elementi preziosi perché i partecipanti non si esercitino solo nel servizio delle comunità africane, ma rientrando sviluppino un servizio anche nel territorio italiano. Un aiuto di personale e finanziario che accompagna il cambiamento post-conciliare del servizio missionario. Fonda un gruppo, il GAVCI, per dare continuità all’impegno formativo.

L’onda del volontariato giovanile, allora molto nutrito, lo mette a contatto con la scelta della non-violenza e dell’obiezione di coscienza al servizio militare. Sposa la causa con la generosità del suo carattere. È considerato uno dei fondatori in Italia del movimento per l’obiezione di coscienza.

Immediato e cordiale l’avvicinamento alla Caritas di mons. Giovanni Nervo e del suo successore, mons. Giuseppe Pasini. Intuisce le potenzialità del volontariato giovanile e difende il servizio civile, rammaricandosi della scelta del governo presieduto da Massimo D’Alema di azzerare la leva senza contestualmente far partire un servizio civile generalizzato.

A Sarajevo rischia la vita

Nel momento delle guerre balcaniche si schiera con mons. Tonino Bello. Così raccontò il suo viaggio a Sarajevo con i «costruttori di pace».

Siamo partiti in 500 «in piena guerra, contro tutte le previsioni. Ma il generale dei serbi che controllava quella parte della città non ci voleva lasciare entrare. Nel secondo giorno di blocco il generale accettò una delegazione di dieci persone fra cui il sottoscritto per dialogare con lui. Diverse persone fecero delle domande gentili, per non urtarlo, e anche lui rispose gentilmente. Ad una ennesima domanda gentile, scoppiò in un urlo che l’interprete non voleva tradurre. Noi, al contrario, eravamo curiosi di sapere cosa avesse detto. Dopo un po’ fece segno all’interprete di tradurre, che disse “Ma la guerra è sporca”. Come dire “è inutile fare domande gentili sulla guerra: la guerra è guerra: la guerra è sporca!”. Poi però il generale aggiunse “Se ho ben capito vi rimane un giorno solo di permanenza a Sarajevo: cosa pensate di risolvere in un giorno solo?”. Mi venne di botto la risposta: “Noi non abbiamo nessuna velleità o presunzione di risolver i vostri problemi. I vostri problemi ve le risolverete voi. Ma siamo qui a dirvi due cose: non li risolverete con la guerra!”. Dicendo così fui facile profeta: dopo poco tempo i serbi dovettero lasciare Sarajevo e portarono con sé le ossa dei loro morti. Inoltre avevamo portato con noi una proposta di patti di pace preparata con l’aiuto del prof. Antonio Papisca, docente nel dipartimento dei diritti civili dell’Università di Padova, con la proposta di invitare a tali patti anche un premio Nobel per la pace. “Ora le consegno una copia di tale proposta di pace e, se permette a noi di entrare in città, ne consegneremo copia a ognuna delle altre parti in conflitto”».

Il racconto è completato dall’intervento del card. Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna, nella sua testimonianza su p. Angelo:

«Volevano deporre una corona di fiori sul luogo della prima vittima di quella guerra (la giovane Suada Dilberović uccisa nell’aprile del 1992). Desidero ricordare anche Gabriele Moreno Locatelli che, in quel giorno, perse la vita raggiunto dai colpi di un cecchino, quando assieme a p. Angelo e ai suoi compagni stava ritornando sui suoi passi a seguito di alcune mitragliate di avvertimento».

La pace si salva con la pace

Una convinzione pacifista sempre più radicata. Migliaia di volte ha citato assieme il testo dell’art. 11 della Costituzione («L’Italia ripudia la guerra») e il passaggio della Pacem in terris di Giovanni XXIII che considerava la guerra, il bellum, come alienum a ratione (estraneo alla ragione).

Il suo convincimento è espresso in un passaggio dell’articolo che su Settimana ha riservato alla marcia Perugia-Assisi del 2000.

Auspico che «la risoluzione delle controversie internazionali venga assunta non dalla Nato, ma da una ONU riformata e che sia realizzata con veri interventi di polizia internazionale. Per tali motivi sostengo anche l’istituzione di un Corpo civile europeo di pace, mentre si contrasta la nascita di un nuovo esercito europeo in aggiunta agli altri. La marcia è per l’abolizione di tutti gli eserciti, sia di leva che professionali, il che equivale a mercenari, ancora peggiori» (n. 35/2000, p. 5).

In precedenza aveva preso le distanze anche dall’ingerenza umanitaria. La sua coerente e rigorosa posizione pacifista si reggeva sulle pagine del Vangelo e su esempi come don Milani, Gandhi, Martin Luther King, Francesco d’Assisi. Così definiva la non violenza, su cui ha scritto alcuni libri (editi da EDB ed EMI):

«Escludere sempre e in ogni caso l’uso omicida della forza. Ma la non violenza è soprattutto un impegno positivo e fattivo di amore per ogni persona umana. Odio, vendetta, abbandono di chi è nel male e nella miseria non fanno altro che aumentare il male. Non si deve rispondere al male con altro male. Si peggiora soltanto. Il male va combattuto con il bene, con il dialogo fiducioso, con la solidarietà, con la giustizia, con l’amicizia, con la correzione fraterna».

Per quasi due decenni la sua voce si è spenta per l’inarrestabile cammino della malattia. Ma il suo esempio rimane.

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