Angelo Secchi: gesuita e padre dell’astrofisica

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Ricorrono quest’anno i duecento anni dalla nascita del gesuita padre Angelo Secchi (Reggio Emilia, 28 giugno 1818 – Roma, 26 febbraio 1878), astronomo, geodeta e fondatore della spettroscopia astronomica. Fu direttore dal 1849 dell’Osservatorio del Collegio Romano, che rinnovò costruendo il primo osservatorio astrofisico d’Europa. Viene considerato il fondatore della moderna astrofisica stellare e solare. Il teologo Giuseppe Tanzella Nitti ne ricorda la figura e il contributo nel campo del rapporto tra la teologia e le scienze moderne in un saggio pubblicato sul portale di Documentazione interdisciplinare di scienza e fede (disf.org).

Analogamente ad altri sacerdoti-scienziati che operarono durante il XVIII e il XIX secolo, Angelo Secchi non ci offre un pensiero sistematico sui rapporti fra scienza e fede. La sua visione epistemologica o filosofica per tali rapporti la si evince dalle considerazioni presentate nelle pagine finali di alcune sue opere, in particolare nei capitoli conclusivi de L’unità delle forze fisiche. Saggio di filosofia naturale (1864) e del volume Le stelle. Saggio di astronomia siderale (1877). L’edizione pubblicata postuma delle Lezioni di Fisica terrestre (1879) riporta in Appendice i testi di due conferenze divulgative tenute nel 1876 e 1877 all’Accademia Tiberina che toccano alcune questioni interdisciplinari.

Riferimenti alla fede cristiana sono presenti in altre conferenze non pubblicate o di difficile reperimento e, soprattutto, nell’epistolario. La natura frammentata del materiale a disposizione ha finora impedito una ricostruzione completa del suo pensiero in materia, ma è comunque sufficiente per farsene un’idea.

Risulta naturale, in proposito, accostare Secchi ad altre due importanti figure di sacerdoti-scienziati suoi contemporanei, Antonio Stoppani (1824-1891) e Francesco Faa’ di Bruno (1825-1888). Egli condivide con il geologo Stoppani la persuasione che una migliore conoscenza del pensiero scientifico gioverebbe alla formazione del clero e che una corretta impostazione delle principali questioni bibliche o dogmatiche sarà possibile solo conoscendo in profondità ciò che la scienza dice e come lo dice. Similmente al matematico Faa’ di Bruno, Secchi ha una visione della scienza come servizio, come fattore di promozione umana, vedendo con favore la sua divulgazione presso tutte le classi sociali.

Scienza come servizio

Tutti e tre sono in ogni caso convinti che la ricerca scientifica non vada vista come un ostacolo alla fede bensì come un’avventura di conoscenza capace di favorire una più profonda intelligenza della teologia ed una migliore esegesi biblica. Si tratta di una prospettiva in fondo già presente secoli prima in Tommaso d’Aquino, quando affermava che una migliore conoscenza della natura si traduce in una meno imperfetta conoscenza di Dio,[1] ma rimasta un po’ in ombra a causa dei rapidi progressi delle scienze fra Settecento e Ottocento, che alcuni vedevano erroneamente in contrasto con la visione filosofico-religiosa allora dominante.

Angelo Secchi si muove, in sostanza, nell’alveo della tradizione di una Chiesa cattolica promotrice della scienza, che rappresentava almeno per buona parte del XIX secolo ancora una corrente maggioritaria, frutto del vasto lavoro di istruzione scolare e universitaria che diversi ordini religiosi, gesuiti e barnabiti in particolare, avevano condotto nel tempo. Il clima di familiarità della Chiesa cattolica con le scienze era in quell’epoca abbastanza evidente riguardo l’astronomia – una collaborazione destinata a segnare la nascita e il primo sviluppo di praticamente tutti gli Osservatori astronomici in Italia – e conosceva esempi ugualmente importanti nel campo della matematica, della fisica e della meteorologia, della botanica e della biologia.

Un periodo storico difficile

Non va dimenticato che, all’epoca di Angelo Secchi, il dibattito fra scienze e pensiero teologico risultava certamente influenzato dalle posizioni che vedevano su opposti fronti politici gli Stati pontifici e buona parte della cultura intellettuale italiana ed europea. Tale contrasto, che aveva primariamente come oggetto la missione della Chiesa cattolica e i rapporti di questa con il potere temporale del papato a Roma, veniva spesso trasposto in termini epistemologici e scientifici, allo scopo di leggervi un conflitto fra fede e ragione o fra fede e scienza, temi che possedevano un respiro certamente più ampio di quanto potessero dettare le circostanze politiche di uno specifico Paese.

Ne fu esempio emblematico la lettura ottocentesca del caso Galileo che si colorò in Italia di venature ideologiche, giungendo a radicalizzare l’opposizione fra lo scienziato pisano e le autorità ecclesiastiche. Era in fondo anche questo un modo di rafforzare l’immagine del nuovo Regno d’Italia, che ritrovava in Roma la sua capitale desiderata proprio grazie alla caduta degli Stati Pontifici. Motivazioni politiche stavano anche condizionando, in Francia e in Italia, la vita accademica di alcuni cattolici, come mostrano le vicende legate a Pierre Duhem e le difficoltà incontrate da Francesco Faa’ di Bruno.

Non sola materia ma un Principio

Non sorprende, pertanto, che nelle considerazioni di Secchi su fede e scienza, la critica del materialismo sia vivace e puntuale, facendo da sfondo a quasi tutte le sue riflessioni. Anche il confronto fra creazione ed evoluzione – che metteva in quei decenni i suoi primi passi – viene riportato da Secchi nel dibattito sull’insufficienza della materia per la fenomenologia dei viventi e del pensiero umano, piuttosto che entro il quadro metafisico del rapporto fra Causa prima e cause seconde, come più abituale nell’epoca contemporanea.

«Il supporre che tutto sia effetto di forze cieche – scrive Secchi nelle sue Lezioni di Fisica terrestre – di combinazioni accidentali di materia bruta, che restino poi così per caso permanenti, come per caso si formarono, è stata dai savi sempre riguardata come una stoltezza, anziché una filosofia degna di uomo ragionevole. […] La mente è quella che veramente crea e concepisce, e se questo attributo è nell’uomo in qualunque modo, per partecipazione, non è render Dio pari a noi stessi l’attribuirgli eminentemente questo attributo, non è limitarlo ad una particolare esistenza il concepire che esso vede tutto, conosce tutto, spirito purissimo sostiene tutto, che in esso noi viviamo, ci moviamo ed esistiamo, e che siamo sua fattura».[2]

Non è per proiezione antropomorfa che collochiamo il pensiero e l’intelligenza all’origine di tutte le cose, ma perché conosciamo sperimentalmente la materia e le sue proprietà. Tale “insufficienza” della materia si rivelerebbe per Secchi in modo evidente nella fenomenologia della vita e in quella dell’essere umano, perché soggetto di riflessione razionale: «L’idea delle successive trasformazioni – scrive ancora l’astronomo gesuita nelle sue Lezioni di Fisica terrestre – presa con debita moderazione non è punto inconciliabile colla ragione, né colla religione. Infatti, ove non si voglia tutto eseguito per pure forze innate e proprie della materia bruta, ma si ammetta che queste forze non d’altronde derivassero che dalla Cagione prima che creò la materia, e ad essa diede la potenza di produrre certi effetti, non vi è nessuna intrinseca repugnanza per credere che, fino a tanto che non interviene nessuna forza nuova, possano svilupparsi certi organismi in un modo piuttosto che in un altro, e dar origine così a differenti esseri. Ma quando da una serie di questi esseri si passa ad un’altra che contiene un nuovo principio, la cosa muta aspetto. Dal vegetale senza sensibilità non potrà passarsi all’animale che ha sensazioni, senza un nuovo potere che non può venire dalla sola organizzazione, né dalla sola materia. E molto più dovrà dirsi ciò quando si passa dal bruto animale all’uomo che ragiona, riflette ed ha coscienza. Un nuovo principio deve associarsi allora alle forze fisiche della materia per avere questi risultati».[3]

L’osservazione della materia, e in primis della fenomenologia dell’essere umano, conduce l’astronomo gesuita a concludere che alla base e nel fondamento del mondo vi sia un principio immateriale, ed è a questo principio che egli associa il nome di Dio.[4]

Secchi sostiene che un simile Principio creatore abbia ben potuto abbracciare dall’eternità, con un unico sguardo, l’avvicendarsi delle forme biologiche ed il loro sviluppo dalle più semplici alle più complesse, facendo sì che le leggi fisiche fossero in armonia con quanto la vita avrebbe necessitato. Egli propone il paragone con una funzione parametrica in cui la medesima forma matematica, assimilata qui allo sguardo del Creatore, è capace di dare origine nel tempo a forme gradualmente diverse mediante una variazione dei parametri, producendo così effetti tutti previsti dalla sua forma matematica. Riconoscere che tutta l’evoluzione delle forme è contenuta nella medesima intelligenza creatrice – ovvero nella funzione matematica che trascende l’ordine della natura secondo il paragone proposto – dovrebbe tranquillizzare, afferma ancora Secchi, chi teme che le idee darwiniane rechino conseguenze negative sulla fede.[5] Quando il direttore dell’Osservatorio del Collegio Romano scrive queste idee sono passati solo pochi anni dalla pubblicazione de L’origine delle specie (1859) di Darwin.

Sacra Scrittura e risultati delle scienze

Se ci dirigiamo alla questione biblica, vivace soprattutto dopo che i progressi della geologia avevano datato la terra e l’origine della vita assai indietro nel tempo, le critiche mosse al contenuto della Sacra Scrittura coinvolgevano due fronti. Il primo era rappresentato proprio dagli studi geologici, che rivelavano una storia naturale assai più lunga di quanto una lettura ingenua e letterale dei testi biblici sulla creazione potesse far immaginare. Il secondo riguardava l’origine delle specie animali e dell’essere umano, temi sui quali l’insegnamento biblico veniva frettolosamente posto in conflitto con l’evoluzionismo darwiniano.

Secchi non esitò a difendere la verità della Scrittura e a comporla con i risultati certi delle scienze, senza per questo imbarcarsi in una teologia approssimativa. Non furono infrequenti, proprio in quegli anni, scritti apologetici di alcuni religiosi, impegnati a contrastare il pericolo di ateismo che ritenevano insito nelle nuove teorie scientifiche. Pur elogiando le buone intenzioni di questi autori, Secchi indica anche gli errori di fisica da loro commessi. I punti di partenza per una discussione, secondo l’astronomo gesuita, non dovevano essere tanto le questioni di principio, inevitabilmente soggettive, ma i dati sperimentali.

Troviamo qui un’impostazione assai simile a quella seguita da Antonio Stoppani, che fra le sue «massime per l’apologista cattolico» aveva collocato al primo posto “combattere la scienza con la scienza”, volendo con ciò significare che quando qualche affermazione sorta in contesto scientifico sembrava contrastare con delle verità di fede, allora andava prima di tutto verificato se esistevano delle ragioni scientifiche capaci di chiarire o negare quelle affermazioni. Non era dunque rivolgendosi alla Scrittura o alla teologia che si doveva chiarire il senso e la portata delle affermazioni scientifiche ma, come più logico, alla scienza stessa.[6] Di converso, quando i risultati scientifici fossero chiari e confermati, se abbiamo a che fare con delle pagine della Scrittura, sono queste che devono essere adesso lette in un modo più confacente.

Si muove in questa linea un testo di Secchi tratto da Le stelle. Saggio di astronomia siderale, nel quale egli precisa che la vastità dello spazio accessibile alle prime osservazioni al telescopio non andava negata sulla base di malcomprese interpretazioni bibliche: «La grandezza del creato è una di quelle idee che spaventano la piccola mente umana. Quando si annunziò la prima volta che, rotte allo spazio etereo le barriere di una sfera materiale, le stelle erano tanti Soli, la mente restò sbalordita dalla vastità dell’Universo che gli si veniva logicamente presentando, e dalla copia sterminata de’ corpi che lo costituivano. Essa cercò quasi di sfuggire a queste conseguenze col trincerarsi dietro male interpretate sacre parole! Non ci meravigliamo del passato, perché anche oggidì si rinnova per la estensione nel tempo ciò che allora si fece per la vastità dello spazio, e si stenta a credere alle miriadi di secoli che deve avere attraversato il nostro globo per compiere le formazioni geologiche cui tocchiamo con mano. Ma una cosa aiuterà a comprendere l’altra, e saremo convinti che l’opera del Creatore è solo a lui commensurabile, se non nella infinità e nella eternità assoluta, almeno in tanta immensità di spazio e di durata, che noi saremo sempre incapaci di comprenderla interamente».

La possibilità di vita extraterrestre

A testimonianza dell’apertura mentale di Secchi su temi di cosmologia andrebbe citata anche la sua posizione circa la possibilità di vita nel cosmo. Sebbene suscettibile di diverse vedute religiose e filosofiche, il tema della vita extraterrestre era stato impostato in termini altamente critici per la fede cristiana da Thomas Paine, nella sua opera influente L’età della ragione (1794).

Fra fine Settecento e primi Ottocento la teologia non aveva maturato specifiche posizioni al riguardo. Astronomi di fede religiosa, come William Herschel (1738-1822), si erano tuttavia dichiarati favorevoli all’ipotesi che la vita fosse diffusa nell’universo. Secchi tocca il tema sobriamente ma in modo sufficientemente chiaro, probabilmente influendo su Schiaparelli, anch’egli cattolico, che scriverà qualche anno più tardi in modo più diffuso sull’argomento.[8] Francesco Denza, barnabita e neo-direttore della rifondata Specola Vaticana, condividerà le medesime posizioni.

Scrive Secchi ne Le stelle. Saggio di astronomia siderale: «Il creato, che contempla l’astronomo, non è un semplice ammasso di materia luminosa: è un prodigioso organismo, in cui, dove cessa l’incandescenza della materia, incomincia la vita. Benché questa non sia penetrabile ai suoi telescopii, tuttavia, dall’analogia del nostro globo, possiamo argomentarne la generale esistenza negli altri. La costituzione atmosferica degli altri pianeti, che in alcuni è cotanto simile alla nostra, e la struttura e composizione delle stelle simile a quella del nostro sole, ci persuadono che essi o sono in uno stadio simile al presente del nostro sistema, o percorrono taluno di quei periodi, che esso già percorse, o è destinato a percorrere. Dall’immensa varietà delle creature, che furono già e che sono sul nostro, possiamo argomentare la diversità di quelle che possono esistere colà. Se da noi l’aria, l’acqua e la terra sono popolate da tante varietà di esse, che si cambiarono le tante volte al mutare delle semplici circostanze di clima e di mezzo, quante più se ne devono trovare in quegli sterminati sistemi, ove gli astri secondarii sono rischiarati talora non da uno, ma da più soli alternativamente, e dove le vicende climateriche succedentisi del caldo e del freddo devono essere estreme per le eccentricità delle orbite, e per le varie intensità assolute delle loro radiazioni, da cui neppure il nostro sole è esente!».[9]

È interessante notare come l’astronomo gesuita non manchi di ipotizzare la possibilità di forme di vita anche assai diverse da quanto la chimica e la biologia terrestre ci farebbero immaginare, sposando categorie che paiono anticipare alcune visioni dell’esobiologia contemporanea: «È vero che essa [la vita] da noi non può esistere che entro confini di temperatura assai limitati, ma chi può sapere se questi non sono limiti solo pei nostri organismi? Tuttavia, anche con questi limiti, se essa non potrebbe esistere negli astri infiammati, questi astri maggiori avrebbero sempre nella creazione il grande uffizio di sostenerla regolando il corso dei corpi secondarii, mediante l’attrazione delle loro masse, e di avvivarla colla luce e col calore. […] La vita empie l’universo, e con la vita va associata l’intelligenza, e come abbondano gli esseri a noi inferiori, così possono, in altre condizioni esisterne di quelli immensamente più capaci di noi. Fra il debole lume di questo raggio divino che rifulge nel nostro fragile composto, mercé del quale potemmo pur conoscere tante meraviglie, e la sapienza dell’autore di tutte le cose è un’infinita distanza che può essere intercalata da gradi infiniti delle sue creature, per le quali i teoremi, che per noi sono frutto di ardui studi,  potrebbero essere semplici intuizioni».[10]

Una scienza aperta alla trascendenza

Le riflessioni di Secchi su scienza e fede si collocano nell’alveo della Teologia naturale sviluppatasi principalmente nel Settecento, ma non cedono alle tentazioni del concordismo e della Fisico-Teologia. L’itinerario seguito da Secchi è quello di una filosofia spontanea: dall’osservazione della natura si può dedurre l’esistenza del Creatore come causa che ha tratto dal nulla tutte le cose conferendo loro l’essere, ma anche come Intelligenza responsabile dell’esistenza e del coordinamento delle leggi di natura. Nell’universo – egli afferma come studioso di fisica – tutto dipende dalla materia e dal moto, ma la materia e il moto non sono hanno in sé la propria causa. In particolare, l’azione creatrice di Dio è continua e trascendente, non si esaurisce nel chiamare le cose all’esistenza: creazione e conservazione nell’essere sono un medesimo atto. La causalità di Dio creatore trascende il piano delle cause naturali, ma rende quelle cause possibili, come l’artista trascende il piano delle cause meccaniche che danno origine alla sua opera, il cui piano originario è però presente nella sua mente.[11]

Il lavoro scientifico, per Secchi, conduce all’umiltà e alla contemplazione. Da credente, egli lo associa spesso alla preghiera. Ritroviamo qui una prospettiva già presente in Robert Boyle, come emerge ad esempio dalle pagine del suo The Christian Virtuoso (1690). Lo stupore che la scienza suscita è destinato per Secchi a crescere con il tempo. Scrive nel testo che presenta i risultati dei suoi studi spettroscopici: «né siamo ancora alla fine delle meraviglie: lo saremo soltanto quando cesseremo di studiare».[12] La fede e la scienza, affermava il gesuita in occasione dell’inaugurazione del nuovo Osservatorio del Collegio Romano, «sono raggi di uno stesso Sole diretti ad illuminare le nostre cieche e deboli menti alla via della Verità. Senza quest’alto scopo, tali studi sono una mera curiosità, e spesso solamente fruttiferi di pene o almeno di non remunerate fatiche. Il pensare quanto sia magnifico il manifestare le opere del Creatore è uno stimolo che sprona anche quando viene meno ogni altro eccitamento; questo solleva la mente sopra la materialità delle cifre, e forma di queste fatiche un’opera sublime e divina».[13]

Scienza e fede, infine, sono ancora in stretta relazione nelle attività di divulgazione scientifica che Secchi promosse, soprattutto nella città di Roma. Egli giunse ad ipotizzare, con Faa’ di Bruno a Torino, l’impiego delle Chiese come aule per conferenze scientifiche e perfino come osservatori astronomici ove mostrare al grande pubblico, attraverso un sistema di specchi, immagini della Luna o proiezioni del disco solare. È questa una visione della divulgazione scientifica oggi poco conosciuta, che potrebbe tuttavia prendersi come esempio di una scienza che diviene davvero popolare, perché la conoscenza era vista da questi autori come un diritto davvero di tutti.

Il Beato Francesco Faa’ di Bruno cercò di coinvolgere Secchi in un ciclo di conferenze da tenere nella Chiesa di Santa Maria del Suffragio a Torino. Scriveva Faa’ di Bruno a Secchi il 31 dicembre 1873: «Ove V.S. Rev. non osti, preferirei lezioni di astronomia fisica sul sole o sulla luna, le stelle, ecc., s’intende con le più brillanti esperienze, che abbagliano la moltitudine. Si potrebbe, per es., projettare degli spettri parlando della composizione degli astri; si potrebbe projettare la luna proprio dinanzi all’uditorio. […] Per mezzo della cupola, che ha 16 finestre e con qualche apparecchio parallattico si potrebbe servendosi di specchi a 45° far scendere l’immagine della Luna su un diaframma a vista del pubblico».[14] Di questo entusiasmo gli studi astronomici si sono sempre nutriti. Ed è questo l’entusiasmo che, con il trascorrere dei secoli, non dovranno mai perdere.

Note

[1] Cf. Tommaso d’Aquino, Summa contra gentiles, lib. II, capp. 2-4.
[2] A. Secchi, Lezioni di Fisica Terrestre, Loescher, Torino-Roma 1879, p. 202.
[3] Ibidem, p. 199.
[4] Cf. A. Secchi, L’unità delle forze fisiche, Treves, Milano 1874, vol. 2, pp. 363-364.
[5] Cf. ibidem, pp. 359-360.
[6] Cf. A. Stoppani, Il dogma e le scienze positive ossia la Missione apologetica del clero nel moderno conflitto tra la ragione e la fede, Fratelli Dumolard, Milano 1884, pp. 117-150.
[7] A Secchi, Le stelle. Saggio di astronomia siderale, Fratelli Dumolard, Milano 1877, p. 288.
[8] Si veda la ristampa degli articoli di Schiaparelli raccolti in La vita sul pianeta Marte: tre scritti di Schiaparelli su Marte e i “marziani”, di G.V. Schiaparelli, a cura di P. Tucci, A. Mandrino e A. Testa, Mimesis, Milano 1998.
[9] A. Secchi, Lezioni di Fisica Terrestre, cit., pp. 214-215.
[10] Ibidem, pp. 215-216.
[11] A. Secchi, L’unità delle forze fisiche, cit., vol. 2, pp. 369-380.
[12] A. Secchi, Le stelle. Saggio di astronomia siderale, cit., p. 312.
[13] A. Secchi, Descrizione del nuovo osservatorio del Collegio Romano, Memorie dell’Osservatorio del Collegio Romano (1856), p. 157, cit in S. Maffeo, Il Collegio Romano e l’insegnamento delle scienze, in A. Altamore, S. Maffeo (edd.), Angelo Secchi. L’avventura scientifica del Collegio Romano, Quater, Foligno 2012, pp. 15-41, qui p. 40.
[14] P. Palazzini, Al margine di due centenari: Pio IX e P. Angelo Secchi. Una corrispondenza inedita fra il ven. Francesco Faa’ di Bruno e il P. Angelo Secchi, «Pio IX» 9 (1980), pp. 4-25, qui p. 12.

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