L’8 giugno, sarà reso omaggio a Bilbao ad Antonio Álvarez-Solís (1929-2020). All’evento parteciperanno, tra gli altri, il lehendakari (il Presidente del Governo della comunità autonoma dei Paesi Baschi) Juan José Ibarretxe, lo scrittore Bernardo Atxaga, oltre a diversi politici e parenti di questo noto giornalista e grande comunicatore.
Mi unisco all’evento presentando un profilo meno conosciuto di questo «ribelle convinto». Ho avuto la fortuna di parlare con Antonio in diverse occasioni negli ultimi anni della sua vita, in particolare della sua militanza comunista e della sua convinzione di fede cristiana.
Nelle conversazioni e negli incontri avuti, mi diceva che la sua esistenza è stata presieduta da questa doppia e insieme inseparabile fedeltà: io sono «un cristiano comunista» o «un comunista cristiano», che ha coltivato un costante dialogo interiore, senza autocompiacimento, con entrambe le fedeltà nel corso degli anni.
Riguardo alla prima fedeltà, quella comunista, diceva di averla abbracciata considerando che ampi strati della società vivevano nell’abbandono, mentre ad altri piaceva stabilirsi in quelle che egli chiamava «le periferie morali» del potere e della ricchezza.
«Sono – confessava – un eterno comunista» che «ha sprecato tutta una vita alla ricerca della verità».
Ma non sono mancate occasioni in cui rendeva conto di questa fedeltà al comunismo, puntualizzando di non aver mai smesso di essere critico verso alcuni gruppi di questa opzione politica, perché incapaci di conciliare la centralità della solidarietà con l’enorme dono della libertà, portato anche dalla modernità.
Confesso che non mi sorprendeva quando, addentrandosi in questo territorio, parlava di «rivoluzione attiva». Come non mi sorprendeva che egli si ribellasse – per usare le sue parole – contro «l’odio dei poveri» o che criticasse «la disumanizzazione del prossimo». Ma ha impressionato – e molto – che, nel calore di questa appassionata e focosa dialettica, non trascurasse – sempre usando le sue parole – «la devozione alla tenerezza».
Riguardo alla seconda fedeltà, quella cristiano-cattolica, affermava di aderirvi perché si riconosceva seguace del Crocifisso, condotto ingiustamente al Calvario. E perché, grazie a ciò che è stato detto e fatto dal Nazareno, non solo riconosceva nel rapporto con i paria del nostro tempo l’attualizzazione di tale ingiustizia, ma si sentiva anche loro fratello e al loro fianco. Pochi mesi prima di morire, ricordava nell’ultimo dei suoi numerosi libri (Un Dio per tutti): «In uno dei miei incontri con l’anima, allo scopo di fare della mia vita qualcosa di valido, la voce interiore con cui ho sempre dialogato, ben oltre ogni quiete mistica, mi ha interpellato francescanamente come una “Stele di Rosetta” per comprendere la mia esistenza umana». Riconosco che, essendo questa la musica di fondo della sua esistenza, non mi sorprendeva che fosse un comunista tra i cristiani, impregnato di francescanesimo, né che abbia dedicato un libro del genere a papa Bergoglio e «a tutti coloro che soffrono».
Ma, oltre a questi due grandi riferimenti, ho potuto apprezzare anche un altro interesse dell’ultima ora: amava parlare – quando mi chiedeva cosa stavo scrivendo in quel momento – dei motivi delle conversioni al deismo e al teismo di alcuni personaggi singolari della seconda metà del XX secolo e dell’inizio del XXI: tra gli altri, il caso del filosofo antiteista Antony Flew, del protobiologo Francis S. Collins o dello scrittore e professore universitario Clive Staples Lewis.
Ricordo l’atteggiamento di sorpresa sul suo volto e i complici silenzi che manteneva (soprattutto quando parlavamo al telefono) nell’esporgli i motivi delle rispettive “conversioni”: tutti costoro erano passati da una cosmovisione atea, antiteista e persino agnostica e indifferente del mondo ad una visione credente, perché la spiegazione deista o teista sembrava loro più coerente di quella atea e antiteista in cui avevano militato, fondata su un grossolano materialismo o sul caso o casualismo, che ho osato descrivere come oziosi dal punto di vista razionale .
E ricordo anche la curiosità e l’ammirazione che gli provocava sapere che, dopo il passaggio del famoso autobus ateo per le vie di Londra (2008) – sostenuto ideologicamente e finanziariamente, tra gli altri, da R. Dawkins –, si era messo in marcia un sorprendente movimento di opinione che rivendicava il cristianesimo e che, ai nostri giorni, è riconosciuto come gli «atei per il cristianesimo».
La brevità del mio rapporto con Antonio non mi ha impedito di comprendere l’importanza e la «ragionevolezza» della sua pretesa di gettare ponti tra la sequela di Gesù di Nazareth e gli ultimi del nostro tempo. Procedendo così, credo che abbia iscritto la sua esistenza in una tradizione e in una spiritualità bimillenaria, ricca di mirabili testimonianze, anche ai nostri giorni.
Questo è il contesto nel quale ha speso la sua vita questo comunista cristiano o, se preferite, questo cristiano comunista, chiamato Antonio Álvarez-Solís. Lo ricordo con affetto e vicinanza, non solo personalmente, anche spiritualmente e teologicamente.
Cristiano comunista o comunista cristiano, sempre un ossimoro resta. Certo, ognuno di noi è, tra le altre cose, anche un cumulo si contraddizioni. Spero, e a quanto leggo sembra di si, che nel caso di specie le contraddizioni abbiano portato frutti di bene.