André Neher (1914-1988) fu a suo modo un mistico e il suo capolavoro – L’esilio della parola. Dal silenzio biblico al silenzio di Auschwitz – è un testo mistico. Eppure, come notava Sergio Quinzio, la sua mistica non è orientata verso l’immediata esperienza del divino nell’intimo dell’anima umana, bensì verso l’esperienza della lontananza di Dio e dell’autonomia degli umani nella storia.
Egli quasi rivive la tragedia della Shoah il 6 ottobre 1973, quando, mentre è in sinagoga a Gerusalemme, sente suonare l’allarme: è la guerra di Kippur, con l’attacco allo Stato di Israele delle truppe egiziane e siriane. In quell’occasione, come racconta in Hanno ritrovato la loro anima. Percorsi di teshuvah, coglie che non si tratta solo di una guerra “orizzontale” e si chiede: non “è una guerra le cui risonanze meta-fisiche, meta-umane non cessano di scuotere ancora la storia?”.
Ecco, l’attacco subito da Israele il 7 ottobre scorso si inscrive lungo quel solco e presenta quelle risonanze, come Auschwitz, come Kippur. E la rappresaglia delle truppe israeliane amplifica quelle risonanze, coinvolge centinaia di migliaia di palestinesi e li rende partecipi della stessa tragedia. Un dramma con due volti: quello della bambina di Gaza e quello della bambina del kibbutz.
Del resto, proprio con la Shoah centinaia di migliaia di non ebrei – folli, cristiani, criminali, omosessuali, comunisti e altri – morivano della morte degli ebrei, ne erano partecipi, conferendole un respiro universale. Così oggi tanti musulmani e cristiani partecipano della morte e del dolore degli ebrei, fin quasi al genocidio dei palestinesi di Gaza, conferendo a quel dolore e a quella morte un valore universale. È lo scacco dell’umanità degli umani.
Dinanzi a vicende del genere, si pone la domanda cruciale dell’ebreo rispetto alla questione dell’identità di Dio. Non “chi è Dio?”, ma “dove è Dio?”. Più esattamente, ricorda Neher, la domanda sull’identità di Dio si pone per l’ebreo all’intersezione del “chi” e del “dove”. E ancora oggi la bambina o il bambino palestinese, ebreo o beduino paiono chiedersi soprattutto, e chiedere, rivolti a Dio: “Dove sei?”. “Perché Ti nascondi?”. Domande delle quali tutte e tutti ci sentiamo partecipi, quando il Signore ci sembra lontano, o indifferente; come distratto.
Questa è la mistica di Neher e, forse, dell’uomo e della donna di oggi. Il pensatore alsaziano giungeva a evocare un’affermazione di uno dei cabalisti ebrei del XIII secolo, Eleazaro Rokeah di Worms: “Dio è Silenzio”. Silenzio, non indifferenza.
Alcuni autori tardo-medioevali provarono addirittura a cristianizzare la tradizione cabalistica, credendo di trovarvi conferma al valore messianico di Gesù e confidando di poter convertire, su quella base, gli ebrei. Invece per altri, fra i quali Giovanni Pico della Mirandola, uno dei maggiori interpreti dell’Umanesimo e del XV secolo, si trattava di estendere le conoscenze e la capacità di influire sulle forze nascoste che condizionano la nostra vita.
E oggi guardiamo a quella tradizione ebraica come a una fonte inesauribile di suggestioni che gettano un po’ di luce su aspetti della vicenda umana altrimenti confinati nelle tenebre, senza con ciò dimenticare le differenze delle prospettive, delle credenze e delle esperienze di fede.