Ormai è questione di poco: sabato 14 settembre, nella cattedrale di Forlì, si svolgerà la beatificazione di Benedetta Bianchi Porro. Un nome che a molti parla di amicizia, dolore, serenità e abbandono in Dio. Dalla sua morte, avvenuta il 23 gennaio 1964 a ventisette anni, la sua vicenda ha appassionato uomini e donne di ogni stato di vita e di età anagrafica, anche a diverse latitudini.
Molte sono state le pubblicazioni su di lei, dai profili più snelli all’edizione degli scritti completi. Tra queste, Oggi è la mia festa – Benedetta Bianchi Porro nel ricordo della madre, libro edito per la prima volta nel 1994, ora ripubblicato dalle Edizioni Dehoniane di Bologna.
Secondo quanto afferma nella presentazione il postulatore della sua causa, il saveriano padre Guglielmo Camera, costituisce «un vero dono per intuire la bellezza e la grandezza della vita di Benedetta».
L’autrice, Carmela Gaini Rebora, conobbe Elsa Giammarchi, madre della prossima beata, nel 1944, quando le rispettive famiglie erano sfollate a Casticciano, un paesino romagnolo; all’epoca, Benedetta aveva otto anni.
Il suo racconto prende le mosse dal ventottesimo anniversario di quello che oggi può davvero essere definito il dies natalis, il giorno della nascita al Cielo, di Benedetta.
La signora Elsa, ospite nella casa bolognese dell’autrice, aveva da poco partecipato con lei alla messa nella basilica di San Domenico. Prima ancora di dare fondo ai propri ricordi, le fece leggere la lettera che sua figlia volle inviare a Natalino Diolaiti, un giovane colpito da una malattia alla spina dorsale, di cui aveva appreso tramite il settimanale Epoca.
Da tempo Benedetta era sorda, cieca e paralizzata: l’unica parte sensibile del suo corpo era il dorso della mano destra. In una sorta di testamento spirituale, gli comunicò la scoperta che dava senso ai suoi giorni: «Ho trovato che Dio esiste ed è amore, fedeltà, gioia, certezza, fino alla consumazione dei secoli».
Dopo la lettura di quello scritto, annota Carmela, la sua mente era piena di domande, che non riusciva però a esprimere: «Cosa si prova a essere la madre di una “santa”? Cosa ha significato per Elsa la sua vita di madre accanto a quella creatura segnata da un destino eccezionale?». In effetti, sono le stesse domande che giornalisti e scrittori pongono ai familiari dei candidati agli altari, a volte violando la ritrosia di quelle persone. In Elsa, però, la sua amica ha visto un volto sereno, pronto a descrivere gli anni vissuti, come confidente privilegiata, accanto a Benedetta.
Ecco quindi ampi estratti dal diario che lei stessa aveva imposto alla figlia. Per il suo quinto compleanno, infatti, le regalò un quaderno, in cui le disse di annotare tutto quello che le succedeva. «È un esercizio che insegna a esprimersi correttamente. Inoltre, impone uno studio introspettivo, un inquadramento del carattere, aiuta a raggiungere l’equilibrio», afferma. In effetti, così è stato: se da piccolissima (sapeva già scrivere) Benedetta descriveva le immagini della natura, i fiori, gli animali e il paesaggio che la circondava, con il passare del tempo cominciò a riflettere sulla precarietà della vita.
Ne è prova una “favoletta” che volle dedicare a una rosa appena colta:
«Sì, nell’immenso verde della natura ho pensato alla vita dei fiori: la fanciullezza comincia in primavera; sono boccioli; poi all’estate diventano dei vispi ragazzi e maturano; in autunno cominciano a sfogliare e questi sono anziani già, poi arriva l’inverno ed ecco la vecchiaia e muoiono tutti i fiori. Così, come l’uomo nasce muore. Anche la nostra superiorità di animali sopravanza già di molto. Questa piccola riflessione mi ha fatto già un po’ più giudiziosa: la povera rosa che io tenevo in mano non era che una disgraziata essendo stata colta nella sua giovinezza».
«Disgraziata» è un aggettivo che chissà quante persone hanno rivolto a Benedetta, non solo per la sua fine terrena avvenuta, come detto, a ventisette anni. Aveva pochi mesi quando si era ammalata di poliomielite, per cui una gamba rimase più corta dell’altra. «Non l’ho mai sentita lamentarsi per la sua menomazione», continua a raccontare sua madre. «A me si stringeva il cuore quando la vedevo correre zoppicando e trascinando la gamba malata». La bambina soffriva molto di più se doveva stare lontana dai suoi cari, perché costretta a letto da mal di testa sempre più frequenti.
«Un vero dono per intuire la bellezza e la grandezza della vita di Benedetta» (Guglielmo Camera).
Elsa prosegue delineando il rapporto di Benedetta con i fratelli: Leonida, intelligente ma «piuttosto egoista», che però «con lei riusciva a cambiare carattere, a diventare generoso»; Gabriele, più vicino a lei d’età, di carattere scherzoso; Corrado che, secondo la madre, è quello che «nello spirito» assomigliava di più alla sorella; Carmen, la cui nascita accolse con gioia (come anche quelle degli altri fratelli minori); Emanuela, con la quale andò a vivere a Milano all’epoca degli studi universitari.
Elsa non nasconde la severità con cui ha educato i figli e neppure il fatto che, quando le raccontavano i loro successi scolastici, non li premiava né li incoraggiava.
Benedetta, invece, amava mostrare il suo affetto, ad esempio quando festeggiava i compleanni di tutti. Nel tempo dell’adolescenza, anche Benedetta fu presa dagli sbalzi d’umore, tanto più che suo padre si era trasferito a Sirmione, ma lei aveva cominciato a frequentare le medie a Brescia, tornando a Forlì per la seconda media. La prima e forte consapevolezza del suo stato avvenne quando cominciò a portare il busto: è allora che le viene da parlare di «disgrazia». Eppure, ha un’aspirazione profonda: «Ma nella vita voglio essere come gli altri, forse più, vorrei poter diventare qualche cosa di grande…».
Gli anni del liceo, sempre nel racconto della madre, sono il periodo in cui Benedetta comincia a manifestare «l’umiltà di chi vuole nascondere i propri meriti per non creare confronti penosi» e, allo stesso tempo, la coscienza che Dio abita nel suo animo.
Intanto il suo udito peggiora, tanto che, all’università, viene respinta a un esame, solo perché, secondo il professore esaminatore, non si è mai visto un medico sordo. I banchi dell’Università degli Studi di Milano, dove si era iscritta prima a Fisica (per far piacere al padre), poi a Medicina, sono anche il luogo dove incontrò i primi veri amici: giovani come Maria Grazia o Nicoletta, appartenenti a Gioventù Studentesca, il nucleo del movimento di Comunione e Liberazione.
La madre non racconta solo l’avanzare della malattia, a partire dall’attimo preciso in cui Benedetta lesse in un manuale i sintomi che avvertiva nel corpo. Presenta anche aspetti più ordinari e sereni, come l’amore per la musica, il fatto che le piacesse essere sempre in ordine, che avesse tantissimi orecchini – che furono peraltro il mezzo con cui l’amica Maria Grazia entrò in contatto con lei – o che cucinasse un dolce per i familiari, nei giorni di festa, ovviamente finché ne fu in grado.
Riferisce anche, nel dettaglio, i due pellegrinaggi a Lourdes, nei quali Benedetta cementò la propria relazione con la Vergine Maria: nel secondo si dispose a pregare non per la propria guarigione, ma per quella, effettivamente avvenuta, di una compagna di viaggio.
Le pagine sugli ultimi giorni di vita trasmettono tutta la commozione e la difficoltà, da parte di Elsa, di ringraziare il Signore con la figlia per tutto quello che le aveva dato, proprio per tutto. La partecipazione emotiva tocca il culmine col «dolce segno»: una rosa bianca, fiorita nel giardino di casa, che Benedetta aveva visto in sogno. Fu colta solo dopo il suo ultimo «Grazie», rivolto a quanti la stavano assistendo. «Quando Benedetta morì», confida Elsa nell’ultimo capitolo, mi sembrò di rimanere orfana. Ero io la figlia che aveva perduto la mamma. Perché lei era la nostra guida. Mi sentii improvvisamente priva di quella guida, priva del suo aiuto, della sua mano.
Nella prefazione alla nuova edizione, Carmela si pone una nuova domanda: «Come si spiega questo alone di santità intorno a una studentessa apparentemente simile a tante altre ragazze, la cui fede non si manifestava in particolari pratiche religiose?». Rileggendo il libro, trova risposta a questo e agli interrogativi di ventisei anni fa: «L’amore è stato veramente la guida di Benedetta nel breve ma intenso cammino della sua vita. L’amore che diffondeva non poteva che generare altro amore».
Recensione ripresa dalla versione per abbonati a www.lacrocequotidiano.it dell’11 settembre 2019.