Christos Yannaras (1935-2024), in memoria

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Sintetizzare il pensiero di Christos Yannaras (Χρήστος Γιανναράς), scomparso lo scorso 24 agosto all’età di 89 anni, è un’impresa pressoché impossibile. Per prima cosa, bisogna dire che non si tratta di un autore sconosciuto al pubblico italiano, giacché buona parte del suo corpus letterario è stato tradotto e ha suscitato, sin dagli anni Settanta del secolo scorso, l’interesse degli studiosi dell’Ortodossia contemporanea.

Autore prolifico, la cui produzione conta oltre 80 titoli, tra opere di carattere scientifico e collezioni di saggi, e rubricista dagli anni Sessanta fino alla sua morte in prestigiosi quotidiani greci, Yannaras ha inciso come pochi altri nel profilo della teologia ortodossa e ha dato inizio a un modo nuovo di fare teologia che ha letteralmente sconvolto la comunità teologica greca.

Teologo, docente di filosofia all’Università «Panteion» di Atene e politologo, uomo dalle grandi vedute intellettuali e attento alle vicende socioculturali, Yannaras ha saputo guidare molti studiosi a interrogarsi sulle implicazioni antropologiche, sociali e culturali della fede, confermandosi un intellettuale di spessore e di ampio respiro. Temi come l’apofatismo, il personalismo teologico, la centralità dell’eucaristia per la fede, la teologia mistica, la teologia politica hanno trovato nella sua opera un vasto sviluppo.

Esperienza giovanile

Durante la sua gioventù frequentò per un periodo la confraternita Zoé (Ζωή), influente organizzazione religiosa che nel primo dopoguerra contava centinaia di militanti e migliaia di associati. Zoé era riuscita a portare un certo rinnovamento nell’ambito della catechesi e attraverso la divulgazione di opuscoli di informazione religiosa, attirando nel suo organico laici, chierici e persino docenti universitari.

L’organizzazione soffriva però di un certo formalismo religioso, di conservatorismo ideologico (non a caso Ieronymos Kotsonis, membro della Zoé, docente di diritto canonico che sarà poi arcivescovo di Atene, era cappellano presso la residenza reale), e di una rigidità morale che veniva imposta ai suoi membri. Così, dopo circa dieci anni di militanza, sul finire degli anni Cinquanta, Yannaras decise di uscire da questi circoli. Questo percorso drammatico quanto soffocante lo ha raccontato, con grande partecipazione emotiva, nella sua autobiografia «Rifugio di Idee» (Καταφύγιο Ιδεών) – testo che rimane un riferimento assoluto per ogni studente di teologia.

Paradossalmente, fu per mezzo della confraternita che Yannaras ebbe modo di conoscere le opere dei russi della diaspora e frequentare Dimitris Koutroubis (Δημήτρης Κουτρουμπής), un teologo non di professione il cui itinerario spirituale l’aveva portato inizialmente verso il Cattolicesimo e la Compagnia di Gesù e in seguito all’Ortodossia e alla teologia russa del XX secolo. Koutroubis sarebbe stato decisivo nella svolta intellettuale di Yannaras, che dalle forme del pietismo protestantizzante di Zoé si orientò a nuove ricerche che lo portarono da Atene in Germania e poi in Francia.

Non ci è voluto molto perché Yannaras mostrasse il suo valore e si affermasse come intellettuale di rara qualità e dal grande talento intuitivo, capace di interloquire con diversi campi del sapere (teologia, filosofia, letteratura, scienze politiche, fisica). Il teologo ateniese è riuscito a elaborare una teologia realmente originale non solo per i contenuti, ma anche per lo stile letterario, uno stile diretto ed elegante (nei suoi scritti ha sempre utilizzato la forma demotica e non l’arcaizzante katharevousa), distante dal formalismo linguistico che fino ad allora aveva caratterizzato la comunità accademica.

Se grazie all’incontro con Koutroubis − e al suo successivo soggiorno a Parigi − Yannaras aveva potuto confrontarsi e recepire il pensiero russo (in particolare attraverso Vladimir Losskij, Nikolaj Berdjaev e George Florovskij) e le istanze del movimento slavofilo Ottocentesco (il ritratto di Fyodor Dostoevskij è stato presente fino all’ultimo nello studio privato del teologo ateniese), fu in Germania che fece i conti con l’esistenzialismo e la critica all’ontologia occidentale di Martin Heidegger. Il confronto con Heidegger, e più tardi quello con Jean-Paul Sartre, determinò irreversibilmente la sua posizione in merito a ciò che avrebbe in seguito designato con la parola «Occidente».

Confessava lui stesso:

«Heidegger e Sartre nella veste di profeti – così li vedevo. Tutto l’edificio della nostra civiltà “moderna”, fondato sul respingimento della questione ontologica [veniva] sfidato, con onestà e coerenza, da Heidegger e Sartre».

Alienazione e critica dell’Occidente

Yannaras si convinse che per affrontare la crisi nichilista dell’Occidente occorreva ritornare alla problematica antropologica. Fu questa ricerca che lo guidò verso le origini della tradizione cristiana «greca» e più precisamente ai Padri della Chiesa e all’apofatismo teologico dell’Oriente cristiano. Una tale scelta, però, richiedeva un percorso di «de-occidentalizzazione», vale a dire di purificazione della spiritualità ortodossa dagli elementi e dalle influenze che le erano estranei. Per questo Yannaras si impegnò in un’aspra critica alla teologia agostiniana (non fu il solo tra gli ortodossi a farlo), alla scolastica e alla «franchità», ossia alla forma occidentale-latina del cristianesimo.

La teologia occidentale moderna, seppur non del tutto assente, ha decisamente avuto un posto marginale nell’opera di Yannaras. «L’Europa è nata dallo scisma», sarà il titolo di un suo volume del 2015, dove dichiarerà:

«L’oggi viene dal giorno di ieri, il futuro emerge dal passato. Dal giorno di ieri sono emersi due “paradigmi” culturali che definiscono la storia umana: il “paradigma” sociocentrico greco e quello dell’Europa occidentale (post-romano) centrato sull’individuo. Il contrasto tra i due “paradigmi” è asintotico, perché la realizzazione dell’uno presuppone la negazione-rifiuto dell’altro. L’odierna civiltà globalizzata dell’“Occidente” è il capovolgimento dei termini della civiltà greca».

Così, sulla scia di Florovsky − che negli anni Trenta aveva denunciato la «pseudomorfosi» occidentale (falsa formazione) del pensiero russo −, Yannaras propose un pensiero in netta contrapposizione con l’Occidente (l’Europa). Rimane insuperato il suo celebre volume «Ortodossia e Occidente nella Grecia moderna», uscito nel 1992, che riepilogava alcune sue ricerche abbozzate vent’anni prima. Per Yannaras, l’origine della «alienazione» greca dalle proprie radici non andava cercata nelle vicende greche seguite alla caduta dell’Impero bizantino nel 1453, ma nel 1354, anno della traduzione in greco della Summa Theologiae di Tommaso d’Aquino.

Altro tema indagato da Yannaras fu la ricerca della grecità «universale», anch’esso proveniente dallo slavofilismo russo. Il teologo ateniese si impegnò a chiarire il nesso tra la filosofia precristiana e la teologia patristica, tra l’agorà di Atene e la ekklesia cristiana, arrivando a sostenere che persino una piccola cappella sperduta in un’isola qualsiasi del mar Egeo, o costruita su una montagna rocciosa, poteva esprimere la totalità della fede ecclesiale meglio di quanto potesse farlo un’imponente cattedrale europea.

«La parola [ekklesia] – commentava – rinvia all’esperienza storica della Chiesa antica, ove i cittadini della polis si riunivano nella ekklesia del demos per realizzare e manifestare la polis, cioè quel modo di coesistenza che guarda all’armonia e alla compostezza razionale delle relazioni sociali, ovvero alla “comune” ragione del buon ordine universale, cioè una ragione-modo immutabile, incorruttibile, eterno, dunque “esempio” di “quel che realmente esiste”, dell’esistenza “secondo verità”».

Sullo sfondo di tali affermazioni vi era forte in Yannaras l’idea della continuità culturale della grecità, dall’antichità a Bisanzio, una continuità che era stata bruscamente interrotta con l’assimilazione acritica dell’Occidente. Yannaras spiegava così la sua tesi:

«Quando critico la teologia occidentale non significa che contrappongo il corretto all’erroneo che si trova fuori da me, di fronte a me. Io stesso sono il corretto e l’erroneo; io, un greco-ortodosso contemporaneo, una strana sopravvivenza storica dell’Ortodossia in un mondo radicalmente occidentalizzato. La mia posizione critica nei confronti dell’Occidente (nei confronti del mio “io” occidentale) non mira ad altro che a rivelare la mia convinzione che la verità e la vita della Chiesa indivisa dei primi otto secoli possa anche oggi essere il lievito salvifico che fa lievitare l’impasto morto del mondo».

Un pensatore originale

Sarebbe tuttavia riduttivo sostenere che l’importanza dell’opera di Yannaras stia solo nella sua critica all’Occidente. La qualità del suo lavoro si è espressa soprattutto nell’elaborazione di un paradigma teologico originale. Il suo percorso intellettuale si è incrociato con le ricerche di altri teologi importanti, come Ioannis Zizioulas (1931-2023): sebbene percorrendo cammini diversi, i due sono diventati gli esponenti più alti del personalismo teologico e hanno offerto il contributo di pensiero più rilevante di tutta l’Ortodossia contemporanea in tema di antropologia.

Secondo Yannaras, la fede del popolo è la vera sorgente della teologia. Il pensiero teologico non sarebbe, infatti, il prodotto di un accademismo speculativo: la teologia non nasce nelle aule, ma nel convenire comunionale che è l’«evento ecclesiale» per eccellenza: la celebrazione eucaristica. È l’evento stesso dell’essere radunati a confermare la verità della fede, una fede che, poiché vissuta come esperienza e relazione diretta con Dio, trova proprio nel rapporto liturgico con Lui la sua verifica.

La relazione Dio-uomo si attua nel campo dell’amore e della spinta a comunicare con il Creatore. Questo è un tema centrale nel pensiero del teologo greco, esposto con grande maestria alla fine degli anni Settanta nel volume La Libertà dell’ethos (tr.it. Qiqajon, Magnago 2015, 339 pp.) – per molti il suo magnum opus. In questo saggio, Yannaras fonda la tesi sull’uomo come prosopon (persona), come un essere che esiste dinanzi-a-qualcuno. Questo comporta che l’esistenza umana si imposti in modo da superare i limiti biologici (la corruzione, la morte), entrando in una prospettiva di eternità. La dialettica tra esistenza biologica e prosopon ecclesiale è, nel pensiero di Yannaras, la risposta cristiana al discorso «ontologico» sul senso della vita.

È nell’esistere in relazione con Dio e con gli altri, e non nell’esistere sul dettato degli impulsi della natura, che sta il senso profondo dell’antropologia cristiana: il fatto stesso che Dio si fa chiamare «Padre» mette in uno stato di figliolanza l’intera creazione, e l’uomo in modo particolare.

Il fedele assapora e vive nell’eucaristia ciò che la Chiesa ha sempre visto con i propri occhi, udito con le proprie orecchie e toccato con le proprie mani: un Dio vivente e personale, presente nella storia, interlocutore dell’uomo. Siccome, poi, è con i sensi – e non con i concetti o le idee – che si rapporta con gli altri, l’uomo scopre se stesso come persona, che non è un individuo ma un essere che realizza lo scopo della sua esistenza nel vivere in relazione con Dio prima che nel pensare di Lui. «La verità si identifica con l’esperienza diretta e la Teologia con la visione di Dio», sostiene il teologo ateniese. Tale impostazione dell’esistenza umana è «ecclesiale», dato che non si attua sul piano della conferma dell’io individuale né su quello delle idee o degli insegnamenti di un magistero ecclesiastico, ma è l’espressione viva della fede dei credenti, celebrata nella liturgia eucaristica, che è incontro con Dio, dove tutti i dogmi e dottrine sono soggetti alla loro verifica.

La Chiesa è «l’attuazione concreta della “nuova” natura del Verbo incarnato, la realtà ontologica di un modo di esistenza nuovo in confronto al modo di esistenza della natura frammentata in individualità». L’essenza del vangelo è la chiamata a esistere in un modo di «essere in relazione» (amorosa), che libera l’uomo da una condizione di separazione che lo conduce alla morte. È ciò che contraddistingue il messaggio cristiano da ogni altra proposta religiosa o da una ideologia.

La sintesi più nobile dell’urgenza umana a interrogarsi sulla vita oltre la morte è venuta dall’incontro tra il pensiero greco e il cristianesimo nella sua dimensione liturgica e apofatica: ogni tentativo di proporre una fede razionalizzata e moralizzata ha allontanato l’uomo dalla vitalità del rapporto con Dio e conduce al nichilismo.

Limiti e critiche

La comunità scientifica, specie quella greca, ha anche criticato il pensiero di Yannaras. Indubbiamente, la sua critica all’Occidente presenta problemi metodologici che non vanno sottovalutati, come l’assenza di riferimenti alla teologia ecumenica moderna, la lettura semplificata della scolastica medievale, l’idealizzazione del paradigma cristiano «greco» ecc.

È vero, tuttavia, che Yannaras si è sempre interessato alle cause profonde dei problemi etici della società moderna. La sua era una preoccupazione sincera che ha portato, come abbiamo visto, a compiere la grande sintesi personalista e a valorizzare gli scritti dei Padri e la ricca tradizione liturgica e mistica del cristianesimo orientale.

Altrettanto interessante è stato il suo tentativo di riflettere intorno all’«enigma» dell’esistenza del male attestato in un volume del 2009. Disponibile in italiano è anche il testo Caduta, Giudizio, Inferno, ovvero il sabotaggio giudiziario dell’ontologia (Lipa, Roma 2022), che studia tematiche simili. Tutto ciò ci obbliga di dire che il corpus di Yannaras ha una ricchezza contenutistica e una complessità concettuale che richiede un’interpretazione seria, oltre ogni approccio unilaterale e semplicistico.

La scomparsa di Christos Yannaras simboleggia la fine di una generazione teologica che ha rinnovato con entusiasmo e coraggio il modo di vivere la fede. La opera di Yannaras merita di essere letta e approfondita e sarà certamente oggetto di ulteriori studi e, senza alcun dubbio, di recezioni costruttive.

Chiudiamo il nostro ricordo citando un passaggio del teologo ateniese che è una vera confessione:

«Per migliaia di anni alcune migliaia di persone sono morte sulla terra, e il mio sarà un altro granello nella sabbia di innumerevoli morti che sostengono l’infinita clessidra. In questo flusso che trascina la mia vita sempre più vicino all’inevitabile fine, nessuna ideologia e nessuna conoscenza o scienza mi dà un sostegno a cui aggrapparmi, a non tuffarmi a capofitto nel vortice dell’assurdo – come fanno i programmi di trasformazione sociale e il processo dialettico della storia – per questi combatto senza rimorso, l’uomo morente. Dove mi fermo io è solo un nome; non un’idea o un concetto, ma solo un nome-“segno” di vita personale, eponimo e allo stesso tempo universale: il nome Cristo Gesù. Nei limiti del riferimento personale che mi indica, le idee si degradano, i concetti diventano inutili, l’enigma dell’amore e della morte cessa di attendermi come una Sfinge al bivio. Qualsiasi ragione al di là di questo Nome sembra inutile».

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