Il 29 luglio 2013 veniva rapito a Raqqa, in Siria, il gesuita padre Paolo Dall’Oglio. Da allora non si hanno di lui più notizie. Riccardo Cristiano – autore del recente volume Una mano da sola non applaude ed. Àncora – ricorda gli interventi di padre Paolo su autodifesa del popolo siriano e non violenza.
Dieci anni dopo il sequestro da parte dell’Isis – preceduto, undici anni fa, dalla espulsione dalla Siria per volere di Assad – sono sempre più convinto che la visione di padre Paolo Dall’Oglio conservi una grandissima attualità, e non solo per quanto ha a che fare direttamente con la Siria.
Posso dire che è attualissima – e da studiare – la sua visione del dialogo islamo-cristiano, posto che padre Paolo è stato, certamente, precursore di fatto del Documento sulla fratellanza umana firmato, insieme, da Francesco e dall’imam dell’Università islamica di al-Azhar, Ahmad al Tayyib, nel 2019 ad Abu Dhabi.
Non è poi eccessivo ritenere che Paolo abbia colto un tratto vivo dell’incontro con i post-credenti, ossia con un mondo che chiede di essere di nuovo preso dall’incanto per una spiritualità che non ha paura delle contaminazioni religiose, purché non si arrivi agli sconcertanti estremi – scriveva – delle statuette della Madonna con le quattro o dieci braccia della dea Kali.
Basti ricordare la sua ammirazione per i gesuiti che in Cina sfidarono tutti affermando che Confucio non era certo all’inferno, oppure la sua capacità di cogliere quanto, sia il cristianesimo che l’islam, abbiano lasciato, in fatto di stima dei popoli, col loro identificarsi col colonialismo occidentale.
Anche le sue idee sulla Chiesa – la sua Chiesa! – hanno, per me, grande importanza in questa stagione sinodale. Andrebbero recuperate.
Padre Paolo e la Siria
Volendo qui scegliere quel che di lui mi sembra più urgente evidenziare per il nostro qui ed ora nel mondo, non posso che recuperare, dai miei più vivi ricordi, la sua capacità di coniugare insieme autodifesa e nonviolenza, quale architrave non astratta di un pensiero su cui appoggiare il grande peso morale dei tanti conflitti che fanno ancora scorrere il sangue a fiotti: in Ucraina, evidentemente, ma non solo.
Mi azzardo a scrivere che padre Paolo aveva previsto tutto quel che sarebbe accaduto in Siria, con le conseguenze per l’Italia, l’Europa e il nostro mare Mediterraneo. Posso farlo perché lui molto ha scritto e detto. Sorprendente è rileggere oggi quanto disse già nel 2012, prevedendo protocolli d’intesa e abbracci di politici occidentali con despoti nordafricani, ovvero l’esodo di migranti e profughi lungo la rotta balcanica.
Lui aveva visto avanti, senza dubbio. Ma l’aspetto più profetico – la lezione maggiore – sta proprio sul punto, delicatissimo, dell’affermazione del diritto di autodifesa dei popoli stretta all’impegno cristiano, religioso, profondamente umano, della nonviolenza.
Solo in seguito – dopo aver ascoltato lui – ho capito, leggendo la Evangelii Gaudium di Francesco, che anche in Paolo c’era quella tensione polare di cui tratta l’enciclica: l’idea che i poli non si possono elidere, ma, se non esprimono contraddizioni, bensì contrapposizioni, possono e devono restare in relazione di opposti, in grado di sprigionare energia umana positiva, vita, facoltà di risolvere il conflitto ad un livello più alto.
Cerco di spiegare al meglio. Parto da uno dei suoi passaggi più controversi sul suo discorso di autodifesa, senza giri di parole, poiché le parole di padre Paolo Dall’Oglio non possono essere mai addomesticate. Chi l’ha conosciuto e letto, lo sa: lui era un sanguigno, un mistico, uno spirituale, ma molto concreto; un intellettuale ma anche un operaio, in senso letterale, un sofisticato e uno spirito quanto mai diretto. Per interpretarlo non si può guardare a un polo della sua personalità senza guardare anche l’altro.
Preparo il lettore: metto un primo punto a cui segue un secondo, che potrà apparire di segno opposto. Alla fine, spero, sarà tutto più chiaro.
Lotta contro il regime di Assad
Padre Paolo riteneva che la lotta contro il regime siriano di Assad fosse una precisa scelta: coraggiosa, anzi eroica, da parte del popolo siriano; un’occasione irripetibile per rifare il bacino geopolitico del Mediterraneo. Aveva visto nascere quella lotta, correttamente, nella nonviolenza, che solo la ferocia del regime aveva trasformato, obbligando il popolo all’autodifesa, necessariamente anche armata.
Se i cristiani, per paura e per autoconservazione, avessero deciso di abbandonare quella lotta di popolo, avrebbero favorito il disegno reazionario, sia dei jihadisti che del regime: due facce della stessa medaglia, per Paolo. E aveva ragione.
Pure i jihadisti, per lui, andavano “capiti”. Troppo facile definirli tutti e soltanto «terroristi»: la definizione, abusata, li avrebbe semplicemente assistiti nel loro progetto totalitario. Così è avvenuto.
L’impegno cristiano nella rivoluzione democratica, dunque, non doveva mancare, perché vitale. Quando papa Benedetto XVI raccomandò alla comunità internazionale di non vendere armi ai siriani in rivolta, lui scrisse su twitter: «sono d’accordo, diamogliele gratis».
Già sapeva che, se l’Esercito Libero Siriano non avesse potuto disporre almeno di armi leggere – di fronte alla disumanità della repressione che il regime stava manifestando senza risparmiare vecchi, donne e bambini – la rabbia sarebbe montata ciecamente e si sarebbe trasferita nelle braccia – come desiderato dal regime di Assad – dei gruppi più estremisti del jihadismo locale e internazionale; il regime, dopo aver favorito quell’abbraccio in tutti i modi, ne avrebbe usato la deriva per presentarsi al mondo come il “male minore”.
A lui era tutto evidente. Non a noi. Il Mediterraneo si sarebbe così spezzato, col suo carico di boat people, a milioni. Ebbene, mi pare che sia andata proprio così, col senno di poi.
Per quel che ne so, padre Paolo stimava Benedetto XVI con la sua scelta di impegnare il Vaticano nel gruppo internazionale denominato “Gli amici della Siria”. Ma quell’appello del papa lui lo denunciò come un errore cruciale per ciò che avrebbe prodotto negli animi di migliaia di giovani siriani. Lo disse, appunto.
È da considerarsi, pertanto, un cantore della lotta armata? Non era forse sempre stato un convinto, persino cocciuto, sostenitore della nonviolenza? Certo che sì: Paolo era un nonviolento, ma le sue posizioni non vivevano in astratto, bensì nella realtà.
Ben ricordo come ci abbia supplicato di comprendere quel che oggi dovrebbe risultare finalmente evidente a tutti, per ciò che è accaduto in Siria, ma anche in Libia o in Egitto, piuttosto che in Libano: la Primavera araba era un’occasione senza ritorno, una chance irripetibile dalla quale dipendeva il futuro: difficilmente si sarebbe presentata una seconda possibilità.
Primavera araba
Eccoci, allora, al secondo punto storico, apparentemente contrastante col primo. L’irripetibilità di quella Primavera stava nella opportunità di superare l’equivoco secolare tra arabi ed europei, quello stesso che aveva reso in contrasto cristianesimo e islam. L’equivoco andava risolto!
Io gli dissi un giorno che i seguaci di Assad erano a noi – cristiani occidentali – irriducibili, per la certezza riposta nel loro “uomo forte”, il dittatore. Lui mi rispose che le cose non stavano propriamente così: il discrimine tra i buoni e i cattivi non era così netto. Mi mandò, in proposito, il testo di un intellettuale vicino al regime – non organico allo stesso – che spiegava cose che avrei potuto capire anch’io e, in gran parte, condividere.
Riporto questo dettaglio perché aiuta a capire che padre Paolo non è affatto uno schematico ed un fazioso – un estremista – come alcuni, tuttora, lo dipingono: assolutamente no. Sapeva bene che anche su alcuni sostenitori di Assad pesavano errori e orrori del passato, forieri di comprensibili rigidità. Quell’intellettuale vicino al regime, dunque, vedeva il bene della Siria in modo diverso dal mio, ma pur sempre un bene scevro da sopraffazione e arbitrio.
L’autodifesa per lui è dunque un diritto umano fondamentale, ma da esercitare dall’interno di una cultura autenticamente nonviolenta che impedisce di sconfinare nella disumanità sullo stesso piano dei regimi. Per Paolo occorreva difendere il diritto all’autodifesa proprio per evitare che si tramutasse in un’azione ingiustificabile contro le altre comunità, cadendo nella provocazione settaria propria del regime di Assad, nella mancanza di rispetto per ogni essere umano.
L’autodifesa resiste all’esercito aggressore, ma non si rivolta contro le comunità che il regime proclama di voler difendere. Serve consapevolezza, ma anche gli strumenti per poter esercitare il proprio diritto di autodifesa.
Parlò di questo con i suoi amici di Libera, come noto, attivi in Italia in zone ad alta infiltrazione mafiosa. Scrisse «Ho interrogato preti e laici che combattono le mafie nel Sud Italia – vera e propria dittatura sulle popolazioni – per sapere se sia possibile fare a meno dell’azione militare della polizia affinché la nonviolenza divenga il vero attore della trasformazione civile.
Hanno riconosciuto che non è possibile: la forma militare è necessaria, così come è necessaria quella nonviolenta degli attori sociali: la criminalità organizzata ha pochi freni simbolici sui quali i ricatti affettivi possano fare presa. […] Le iniziative positive di nonviolenza devono sempre invitarci a cercare una soluzione alternativa, ma non ci autorizzano a rifiutare la solidarietà a un popolo che porta avanti la sua lotta per la libertà e la democrazia con i mezzi che ha a disposizione.
Vi è certamente un problema rispetto all’evoluzione del mondo musulmano. In effetti la società musulmana tradizionale, alquanto folkloristica, mistica, è lacerata tra un monopolio della violenza esercitata da un potere militare centrale e una gestione della società in cui la pietà, il buon vicinato, la pazienza, il ristabilimento della giustizia attraverso la negoziazione familiare costituiscono più la regola che l’eccezione.
Non si discutono le decisioni del sultano: egli ha il monopolio della violenza attraverso la tortura. Parallelamente però la società cerca di respirare in un’altra logica: è una dialettica mai risolta. […] In realtà la società musulmana colonizzata aveva percepito la portata del messaggio di Ghandi (molti bambini erano stati chiamati con questo nome negli anni Trenta). È stato solo con la crisi degli Stati nazionali (crisi degli ideali provocata dalla corruzione, crisi della violenza poliziesca che diviene arcaica) che si è fatta strada l’idea di cambiare la società attraverso i movimenti sociali, l’emergere di una società civile nei Paesi arabi. […]
Nel marzo 2011, agli esordi della rivoluzione che seguiva passo, passo, le primavere arabe, il desiderio di un cambiamento senza spargimento di sangue era molto chiaro: nelle classi popolari e tra l’élite contavano soltanto la forza delle idee e un’autentica convinzione nonviolenta. […] Il regime utilizzò dunque una strategia doppia. Da un lato l’affermazione di un principio secondo il quale ci sarebbero stati cambiamenti, riforme, si sarebbe costruita la democrazia. Dall’altro, l’uso sistematico della repressione, il pestaggio, la tortura, […] una colossale opera di disinformazione. […] Nella nostra cultura [siriana, ndr] alla violenza ingiusta si deve opporre un uso giusto della forza. […] Non si può rimproverare ai siriani di non essersi lasciati uccidere a migliaia».
La dignità umana del nemico
Ecco, poi, lo scambio diretto – sull’idea di autodifesa – con due giovani siriani che stavano andando a combattere chi voleva uccidere i loro cari, violentare le loro donne, torturare i loro figli. Questi dicevano «Abuna (padre) oggi partiamo per Homs, per combattere. Siamo venuti a domandare la tua benedizione e l’elemosina della tua parola». Paolo a Musa, uno dei due giovani, rispose: «Voi andate a combattere. Ma se un giorno smetterete di riconoscere la dignità umana del vostro nemico perderete la vostra, e per il Paese sarà finita».
Ai giovani combattenti disse ancora: «La riconciliazione nazionale comincia con il modo in cui guardi il tuo nemico nel mirino della tua arma prima di fare fuoco. Vedi qualcuno con cui vorresti condividere una vita comune? Oggi lo devi combattere, ma non è questo il tuo obiettivo finale!». Il più giovane dei due aggiunse: «Sì, bisogna astenersi dal compiere atti mostruosi, inumani, evitare di diventare delle belve».
Quello che serve per la pace
Il motivo di fondo dell’incomprensione tra Paolo Dall’Oglio e molti pacifisti italiani – tra i quali nessuno ha mai avvertito il bisogno di rispondere alle sue tesi nel corso di questi dieci anni, così favorendo l’opera della rimozione – sta nel silenzio che seguì, nel 2012, la sua lettera all’inviato dell’ONU, Kofi Annan, nella quale scrisse: «Tremila caschi blu e non trecento sono necessari a garantire il rispetto del cessate il fuoco e la protezione della popolazione civile dalla repressione, per consentire una ripresa della vita sociale ed economica.
È urgente chiedere l’abolizione delle sanzioni non personalizzate che puniscono le parti più deboli e innocenti della popolazione. C’è inoltre bisogno di trentamila “accompagnatori” nonviolenti della società civile globale, perché vengano ad aiutare sul terreno l’avvio capillare della vita democratica».
Gli interlocutori pacifisti hanno mai condiviso la distinzione tra sanzioni generalizzate da abolire e sanzioni personalizzate da conservare? E soprattutto, hanno mai tentato di organizzare i trentamila accompagnatori nonviolenti? Gli è stato forse impedito? Sarebbe importante saperlo, così come sapere, eventualmente, da chi.
Ma se nessuno ci ha veramente provato, come penso, vuol dire che la lezione, in parole ma anche in carne e sangue, del prete e dell’uomo Paolo Dall’Oglio – avamposto di pace e di riconciliazione – non è stata capita: forse perché troppo scomoda e difficile.
Ora, dopo dieci anni, a noi occidentali – che ci diciamo, in qualche modo, cristiani – dovrebbe insegnare qualcosa l’enorme popolarità di padre Paolo, tra tantissimi musulmani siriani: è, questa, una testimonianza di una attualità sconvolgente!