Vescovo emerito di Melbourne e di Sydney (Australia), il card. Pell è morto a Roma il 10 gennaio a causa di un infarto dopo un’operazione all’anca.
Era nato l’8 giugno 1941. Senza entrare nel suo ruolo pastorale nella Chiesa australiana (per il presidente della Conferenza episcopale, Timothy Castelloe, il suo influsso «continuerà a farsi sentire per molti anni»), o rispetto alla sua attività nella Segreteria economica della Santa Sede (2014-2017), al suo profilo spirituale (espresso nel Diario di prigionia sui 404 giorni di carcerato), o alle sue sensibilità conservatrici nell’ambito del collegio dei cardinali, mi limito a poche note sulle vicende giudiziarie.
Accusato di corresponsabilità morale nel rapporto della Commissione regale sugli abusi, ha riconosciuto qualche incertezza nei suoi comportamenti, ma anche di aver avviato il primo protocollo in ordine alle denunce mentre era vescovo a Melbourne. Chiamato in tribunale dopo una denuncia per violenze sessuali da lui compiute su minori, abbandona Roma e torna in Australia nel 2017.
L’anno successivo si avvia il processo, mentre le accuse si riducono a due (presunti) casi. A settembre 2018 il processo è sospeso per la divisione interna della giuria. Riprende quasi subito e si conclude con una condanna a sei anni di carcere. Viene confermata nel 2019 dal tribunale di seconda istanza in un clima mediale che lo trasforma in emblema della responsabilità ecclesiale. Subito incarcerato, per i primi sei mesi vive in totale isolamento. Il cardinale fa appello all’Alta Corte. Il 12 marzo 2020 i sette giudici lo scagionano e torna immediatamente alla libertà.
Colpevole per i media, innocente per i giudici
Ma non finisce qui. Il genitore di una delle vittime (già morta) si appella al tribunale civile nell’agosto del 2022 per risarcimento dei danni psicologici subiti. Nel sistema giuridico del paese, mentre nel sistema penale la colpevolezza deve essere provata oltre ogni ragionevole dubbio, in quello civile è sufficiente che l’accusa sia plausibile. Il giudizio può continuare anche dopo la morte dell’imputato e il tribunale può attingere alle sostanze della sua eredità. Gli avvocati della vittima hanno già detto che proseguiranno nel procedimento.
L’Alta Corte lo ha riconosciuto innocente ma non è detto che i giudici di parte civile facciano altrettanto. La prima lo ha “salvato”, ma la sua immagine e la sua memoria escono massacrate da una vicenda che l’ha trasformato in un simbolo negativo.
Così su queste pagine p. Federico Lombardi ha commentato la vicenda del cardinale e la sentenza dell’Alta Corte: «Egli ha pagato un prezzo altissimo e vissuto un vero calvario, non solo perché ristretto nella libertà fisica, ma anche nella vita sacerdotale personale, non essendo neppure autorizzato a ricevere il vino per la celebrazione dell’eucaristia».
Una formidabile pressione mediale nei suoi confronti gli ha imposto la «funzione simbolica di rappresentare la Chiesa cattolica in Australia, di cui è stato la massima autorità, e perciò in certo senso era stato caricato di tutte le responsabilità e gli errori e i crimini compiuti in essa e da essa nel campo degli abusi sessuali nei decenni passati».
La sua innocenza personale non è un’assoluzione per quello che è avvenuto nei decenni precedenti nella Chiesa australiana. Sono pesantissime le conclusioni della Commissione regale (federale) del 2017. I numeri parlano da soli: 6.875 vittime, delle quali 2.489 nelle istituzioni educative legate alla Chiesa cattolica. Il 7% dei preti coinvolto come abusante con picchi impressionanti in alcune congregazioni religiose.
La vicenda del “cardinale salvato” manifesta l’enorme crollo di credibilità dell’istituzione ecclesiale, ma anche la necessità di distinguere le responsabilità, di non essere corrivi con le ondate mediali colpevoliste. Equilibro difficile, eppure necessario.
La vicenda Pell