A un anno e mezzo dalla sua morte, Carlo Carlevaris è stato ricordato durante il convegno organizzato dalla Fondazione “Vera Nocentini”, sabato 7 dicembre 2019, a Torino, in collaborazione con l’Ufficio per la pastorale sociale e del lavoro della diocesi di Torino e dell’associazione ComeNoi onlus, la Gioc (Gioventù operaia cristiana), il Centro studi “Bruno Longo” e il Movimento lavoratori di Azione cattolica (su Carlo Carlevaris in SettimanaNews cf.: Dicevano che era un prete…; Carlo Carlevaris visto da un laico; Carlo Carlevaris: la tuta e la stola).
Nel corso del convegno, dal titolo “Dicevano che era un prete. L’esperienza cristiana e operaia di Carlo Carlevaris”, una serie di interventi ha ripercorso alcuni degli aspetti salienti della sua biografia: l’infanzia e la formazione in seminario, le iniziative di vicinanza ai giovani operai e alle famiglie attraverso il “Progetto comune” e l’Équipe Notre-Dame, i primi anni di attività della Fondazione “Vera Nocentini”, l’esperienza del Centro studi “Bruno Longo” e l’incontro settimanale del giovedì sera nella sua mansarda di via Belfiore 12 a Torino.
L’iniziativa si inserisce nel progetto promosso dalla Fondazione “Vera Nocentini” per valorizzare la memoria di Carlo Carlevaris, avviato nei mesi passati con il riordino della sua biblioteca e del suo archivio e la realizzazione, il 9 marzo 2019, di una prima giornata di testimonianze dedicate al suo percorso di cappellano del lavoro, prima, e di prete operaio e di sindacalista, poi. Riportiamo la testimonianza resa, nel corso del convegno, da Andrea Lebra sull’esperienza ecclesiale del “giovedì sera a casa di Carlo Carlevaris”
Ho partecipato per la prima volta agli incontri promossi al giovedì sera da Carlo nella sua mansarda di via Belfiore 12 a Torino nell’aprile del 1969.
Dopo la parentesi del servizio militare, li ho frequentati con assiduità per tutti gli anni ’70 del secolo scorso, fino al momento in cui, dopo aver sposato Margherita conosciuta proprio durante questa frequentazione, mi sono trasferito con la famiglia a Novara. Per noi – per me e per Margherita – il giovedì sera era diventato un appuntamento irrinunciabile.
La mia testimonianza si riferisce proprio agli inizi di questa bella e arricchente esperienza umana ed ecclesiale, alla quale Carlo teneva moltissimo. La serata comprendeva due momenti: la celebrazione dell’eucaristia e la condivisione della cena.
Un’eucaristia partecipata
Nella prima ora ci si raccoglieva nella piccola cappella, con gli sgabelli disposti a semicerchio intorno al tavolo-mensa. Spesso non c’era posto per tutti e qualcuno doveva rimanere seduto in corridoio o nello studio.
L’eucaristia si svolgeva in modo informale e in un clima di profonda, piena, consapevole e attiva partecipazione, come aveva auspicato il concilio Vaticano II, approvando il 4 dicembre 1963 la costituzione conciliare sulla sacra liturgia Sacrosanctum concilium. Era una celebrazione viva e creativa, decisamente lontana dalle rigidità liturgiche ufficiali – di quei tempi, ma anche di oggi purtroppo – dai linguaggi esoterici e indecifrabili.
A presiederla con semplicità e autorevolezza era ovviamente Carlo, ma si aveva veramente la sensazione che il vero soggetto della celebrazione fosse l’insieme delle persone che vi prendevano parte.
Tutti si aveva la possibilità di confrontarci, con schiettezza e libertà, con i testi scritturistici scelti (in genere neotestamentari), letti secondo il criterio della lectio continua e introdotti da qualcuno di noi. Tutti si aveva la possibilità di intervenire per esplicitare dubbi, convinzioni e sogni o per formulare preghiere personali, alla luce delle esperienze lavorative, familiari o di studio vissute nel corso della settimana precedente.
Uno dei momenti forti e attesi era l’omelia di Carlo, sempre capace di sorprendere e di far vibrare i testi scritturistici letti alla luce dell’esperienza di quegli anni, carichi di tensioni e di speranze. Tutti coglievamo lo straordinario senso di autorevolezza che emanava dal suo pensiero e dalle sue parole capaci di aprire le porte e liberare le coscienze.
Come professione di fede si usavano formule di Credo più eloquenti – cioè, più idonee a evidenziare il nesso tra fede professata e fede vissuta – e, come “preghiera eucaristica” o “canone”, testi inventati da Carlo o provenienti dalle esperienze ecclesiali maturate dalle comunità cristiane di base dell’America Latina nel contesto della teologia della liberazione.
La comunione partecipata con il pane e il vino facilitava l’incontro autentico con il “segno” dell’eucaristia che Gesù ha voluto lasciarci in memoria di sé e del suo messaggio di salvezza.
Credo davvero che i partecipanti ci sentissero «un cuor solo e un’anima sola» (At 4,32) in sintonia con le celebrazioni domestiche dei primi tempi della storia della chiesa.
Ero presente il giovedì in cui l’arcivescovo, padre Michele Pellegrino, volle unirsi alla nostra preghiera. Se ne arrivò da solo con una bottiglia di dolcetto custodita nell’ampia tasca della veste talare. Al termine della celebrazione, tirò le orecchie a Carlo perché per l’eucaristia non usavamo le ostie, ma pane comune. Carlo accettò di buon grado la tirata di orecchie, salvo poi continuare, con la nostra approvazione, ad usare sempre pane comune.
Ed ero presente il giovedì in cui padre Pellegrino si ripresentò non solo con la solita bottiglia in tasca, ma anche con le ostie. Presentandole a Carlo, gli disse: «Questa volta le ostie le ho portate io, perché non credo che tu te le sia procurate».
Grazie all’eucaristia, così come celebrata a casa di Carlo, Margherita e io abbiamo scoperto e sperimentato quanto una lettura seria, documentata, attenta e intelligente delle sacre Scritture – una lettura che non cessa mai di interagire con la vita, di interrogarla e di lasciarsene interrogare – possa essere di grande aiuto per illuminarla e farla fiorire, in tutte le sue dimensioni.
Eravamo alla fine degli anni ’60. Grazie al concilio Vaticano II (in particolare, alla costituzione Dei Verbum del 18 novembre 1965), la Parola di Dio, la Bibbia, le sacre Scritture, dopo un plurisecolare esilio, stavano ritrovando la loro centralità nella vita delle comunità cristiane. Si può addirittura parlare di riscoperta della Parola di Dio da parte dei credenti che, da secoli, non conoscevano e non praticavano più il contatto diretto con le Scritture e tanto meno erano in grado di alimentare la loro vita di fede attingendo ad esse.
Per noi quella celebrata il giovedì sera in via Belfiore 12 è stata per molti anni l’eucaristia della settimana. Un’esperienza forte che ci ha spalancato le porte dalle quali accedere ad una fede libera e responsabile.
La cena condivisa
Il secondo momento era costituito dalla cena.
Anche questa caratterizzata dalla condivisione del cibo e delle esperienze. Tutti coloro che si riunivano al giovedì nella mansarda di via Belfiore sapevano che erano invitati a portare qualcosa di commestibile da consumare al termine della celebrazione eucaristica. E, grazie alla condivisione, le cene erano veramente gustose e abbondanti.
Oltre ad un gruppo di persone che venivano regolarmente, non si poteva mai sapere chi poteva arrivare. Era un po’ un porto di mare. Potevano talvolta approdare persone che venivano da molto lontano. Ed erano ondate di esperienze, di racconti, di idee.
Non era raro che qualche persona, che proveniva da luoghi distanti, pernottasse nella stanza accanto alla cappella che Carlo aveva deciso di riservare agli ospiti di passaggio. Nei confronti delle persone che partecipavano per la prima volta c’era sempre un occhio di riguardo: erano invitate da Carlo a presentarsi, a farsi conoscere, a raccontare qualcosa della loro vita. Si faceva, in sostanza, di tutto per metterle a loro agio, a sentirsi accolte e valorizzate.
Durante la consumazione della cena, i presenti erano invitati a partecipare attivamente alla discussione sul tema – di attualità sociale, di rilevanza ecclesiale o di tipo culturale – proposto di volta in volta da Carlo o da qualcuno di noi.
Carlo interveniva sempre con il suo pensiero lucido, aperto, profondo, stabilendo un clima rispettoso – direi gentile –, anche quando gli argomenti potevano risultare duri, spinosi, conflittuali. Lui era una persona che sapeva ascoltare, entrare nei panni dell’interlocutore, andare incontro a chi coltivava sogni come a chi nutriva dubbi, a chi aveva convinzioni ferme come a chi era in ricerca. È forse anche per questa caratteristica del suo carattere che a casa sua, al giovedì sera, si respirava un grande clima di empatia, amicizia e cordialità.
Soprattutto, era questo il momento in cui Carlo ci rendeva partecipi della sua vita di fabbrica, della sua militanza sindacale in anni segnati da tensioni e conflitti altissimi e delle sue “battaglie” a livello ecclesiale.
A quest’ultimo riguardo, con riferimento al problema drammatico della casa, non sono in grado di dire se la lettera che padre Pellegrino fece leggere nelle chiese domenica 13 febbraio 1972 fosse stata suggerita anche da Carlo. Di questa lettera e della decisione dell’arcivescovo di farla leggere nelle chiese Carlo ci parlò con grande entusiasmo. La lettera chiedeva ai proprietari di alloggi vuoti (comprese le parrocchie e le comunità religiose che disponevano di locali non utilizzati) di avvertire il dovere di metterli senza indugio a disposizione di chi ne aveva bisogno.
Sempre dalla parte dei poveri
Dalla frequentazione assidua degli incontri del giovedì sera da Carlo ho ricavato un grande insegnamento che ho cercato di incarnare, con molte incoerenze, nella mia vita personale, familiare, professionale e sociale: mettermi dalla parte dei poveri come scelta preferenziale e fare del mio meglio per contribuire a liberarli dallo stato di bisogno, tutelandone diritti e dignità.
L’incipit del n. 12 della lettera pastorale Camminare insieme di padre Pellegrino recita: «riconoscere secondo il Vangelo il valore della povertà vuol dire rispettare e amare i poveri, mettersi dalla loro parte con una scelta preferenziale».
Non sono in grado di dire se questo passo lo abbia materialmente scritto Carlo, su invito di padre Pellegrino. Certamente però queste parole gliele ho sentite pronunciare più volte negli incontri del giovedì a casa sua e soprattutto in occasione della partecipazione ad uno dei 107 gruppi di riflessione che si erano formati nel 1970/71 per suggerire all’arcivescovo temi e argomenti da sviluppare nell’ambito della stesura di quella che sarebbe poi diventata la Camminare insieme (che porta la data dell’8 dicembre 1971, anniversario della chiusura del concilio Vaticano II, anche se è stata pubblicata solo il 15 gennaio 1972).
In uno scritto, dal titolo “Ancora tra la gente”, pubblicato dalla rivista PRETIOPERAI nel 2007 (n. 74-75), Carlo tentava un bilancio dei suoi, allora, ottant’anni, nei seguenti termini: «Non ho consigli da dare. Cerco ancora di imparare a vivere questa stagione, l’ultima della vita, in fedeltà alla scelta iniziale: stare tra la gente, lottare con chi lotta, difendere e servire i poveri. A dirla tutta, sono contento di vivere questi ultimi anni nella soffitta di San Salvario con i neri, i musulmani e le prostitute all’angolo che mi salutano con un sorriso. C’è ancora qualcosa da fare. Auguro a tutti la scoperta dei poveri, dei deboli, degli ultimi. Invecchiare con loro non è disdicevole: c’è ancora molto da imparare e ci sono anche delle soddisfazioni che fanno da sale e danno gusto alla vita, anche da vecchi come noi».
In un’intervista rilasciata a Paolo Lambruschi e pubblicata dal quotidiano Avvenire del 25 aprile 2008, alla domanda “Hanno un futuro i preti operai?”, Carlo rispondeva: «Non credo. Sono rimasti in pochi. E il mondo del lavoro è completamente cambiato. Dico sempre che, non avendo figli, i sacerdoti non possono trasmettere il mestiere per via ereditaria. Sono altri tempi. Oggi io stesso mi dedicherei ad altro. Per stare con i poveri oggi vivrei con gli immigrati».