Ai tempi del Fatto Quotidiano, lo chiamavamo «Re Giorgio», perché mai un presidente della Repubblica si era stagliato in modo così preminente sui partiti che lo avevano eletto.
Giorgio Napolitano è stato molte cose, ma prima e più di tutte un presidente forte. Non abbastanza forte per chi sperava che guidasse i partiti a completare le riforme istituzionali che aveva avviato.
Troppo forte per chi, invece, pensa che il ruolo del capo dello Stato sia di garante della Costituzione e del rispetto delle regole, non di indirizzo dell’azione dei partiti e perfino della loro vita interna.
Molto è stato scritto in questi giorni dopo la scomparsa, a 98 anni, di Napolitano. Colpisce la difficoltà di arrivare a un giudizio di sintesi. Vengono elencate una serie di caratteristiche di Napolitano – comunista, migliorista, europeista, riformista – ma qual è davvero il bilancio del suo (doppio) mandato da presidente della Repubblica?
Nello sfascio dei partiti
Mi limito a ricordare alcune delle vicende che hanno reso Napolitano un presidente divisivo tanto quanto Carlo Azeglio Ciampi era stato inclusivo (ricordate la sua retorica, anche un po’ mielosa, intorno alla riscoperta del Tricolore?)
Nel 2008, Napolitano promulga il famigerato Lodo Alfano che serviva a mettere Silvio Berlusconi al riparo dai processi.
«Salvi i casi previsti dagli articoli 90 e 96 della Costituzione, i processi penali nei confronti dei soggetti che rivestono la qualità di presidente della Repubblica, di presidente del Senato della Repubblica, di presidente della Camera dei deputati e di presidente del Consiglio dei ministri sono sospesi dalla data di assunzione e fino alla cessazione della carica o della funzione. La sospensione è applicata anche ai processi penali per fatti antecedenti l’assunzione della carica o della funzione».
Indovinate qual era l’unica alta carica dello Stato con processi pendenti e ingombranti? Ovviamente il presidente del Consiglio, cioè Silvio Berlusconi.
Nel 2011 Napolitano gestisce la transizione da Silvio Berlusconi a Mario Monti, dal governo politico del centrodestra (Pdl + Lega) all’esecutivo dei tecnici. Ho già raccontato in un libro scritto con Alessandro Barbera, La lunga notte dell’euro (Rizzoli), i dettagli di quella vicenda.
Sintesi: non ci fu alcun complotto internazionale, il centrodestra si era paralizzato per le solite fratture interne (Lega contro Forza Italia, Giulio Tremonti contro Berlusconi e Renato Brunetta) e non era in grado di dare alcun segnale rassicurante ai creditori internazionali che si interrogavano – dopo i conti truccati della Grecia – sul reale rischio del debito pubblico italiano.
Nell’estate 2011 il governo Berlusconi guadagna qualche mese di vita grazie alla lettera della BCE, firmata dal presidente uscente Jean-Claude Trichet e da quello entrante Mario Draghi, che indica una lista di riforme da fare in tempi rapidi. Il centrodestra spreca quella finestra di opportunità, si spacca in parlamento sui voti preliminari alla legge di Bilancio, e Napolitano avvia l’operazione Monti.
Prima la nomina a senatore a vita, per evitare che venisse bruciato negli scontri di quei giorni, e poi l’incarico a formare il governo che farà in poche settimane le riforme che i governi precedenti e successivi non sono riusciti a completare con anni a disposizione.
Il presidente presidenziale
Tra le conseguenze di quella stagione turbolenta e dello sfaldarsi dei partiti c’è l’ascesa del Movimento Cinque stelle e del populismo.
Alle elezioni del febbraio 2013 i Cinque stelle sono il primo partito, i veri vincitori. Quelle elezioni generano uno stallo, il bipolarismo è diventato tripolare e diventa difficile mettere d’accordo due poli su tre per ottenere una maggioranza. Il primo risultato è la rielezione di Giorgio Napolitano al Quirinale.
Nel suo discorso alle Camere, Napolitano è durissimo proprio sul momento storico:
«La rielezione, per un secondo mandato, del Presidente uscente, non si era mai verificata nella storia della Repubblica, pur non essendo esclusa dal dettato costituzionale, che in questo senso aveva lasciato – come si è significativamente notato – schiusa una finestra per tempi eccezionali. Ci siamo dunque ritrovati insieme in una scelta pienamente legittima, ma eccezionale. Perché senza precedenti è apparso il rischio che ho appena richiamato: senza precedenti e tanto più grave nella condizione di acuta difficoltà e perfino di emergenza che l’Italia sta vivendo in un contesto europeo e internazionale assai critico e per noi sempre più stringenti».
Ma il problema era il contesto e lo stallo tra i partiti o il risultato delle elezioni 2013 con il Movimento Cinque stelle?
Il dubbio è legittimo, perché Napolitano sembra considerare l’ascesa stessa dei Cinque stelle la principale minaccia alla tenuta del sistema dei partiti e alla stessa democrazia italiana:
«La Rete fornisce accessi preziosi alla politica, inedite possibilità individuali di espressione e di intervento politico e anche stimoli all’aggregazione e manifestazione di consensi e di dissensi. Ma non c’è partecipazione realmente democratica, rappresentativa ed efficace alla formazione delle decisioni pubbliche senza il tramite di partiti capaci di rinnovarsi o di movimenti politici organizzati, tutti comunque da vincolare all’imperativo costituzionale del “metodo democratico”».
La risposta che Napolitano, una volta rieletto, propone al sistema dei partiti è di fatto una riedizione delle larghe intese e del profilo tecnico dell’esecutivo Monti in una versione minore, più sbiadita e meno efficace, con il governo Letta.
Due anni dopo a palazzo Chigi c’è Matteo Renzi, segretario del PD con il pieno controllo del partito e un governo fortissimo, dopo il risultato delle elezioni europee 2014 (grazie all’arrivo del bonus 80 euro).
Il governo Renzi sembra da un lato smentire la necessità di riforme istituzionali per garantire la governabilità − si possono avere esecutivi forti a regole invariate − e dall’altro la premessa per poterle realizzare.
Sappiamo come è finita: Renzi ha trasformato il referendum del 2016 in un voto sulla sua persona e sul suo potere, col risultato che le riforme non sono passate e lui si è dimesso. Una sconfitta di Renzi, certo, ma anche un’interruzione quasi irreversibile dello slancio riformatore che Napolitano ha coltivato per tutta la sua carriera politica.
Nel 2022 Sergio Mattarella, successore di Napolitano, viene rieletto per un secondo mandato al Quirinale. Possibile che una situazione eccezionale duri per un decennio o si ripresenti con questa frequenza? O forse Napolitano ha cambiato la natura della presidenza della Repubblica e ormai se a un capo dello Stato non viene offerto di rimanere questo equivale a una sfiducia e a una crisi istituzionale?
Di certo Napolitano ha dimostrato che ci sono modi di interpretare il ruolo di presidente in un senso molto più «presidenziale» e meno notarile. Se questo sia un lascito positivo o pericoloso, lo misureremo nei prossimi anni.
- Pubblicato sul blog Appunti il 27 settembre 2023