La strada più sicura per avere successo in politica è quella di imitare ciò che ha funzionato in passato. Ma Jimmy Carter, scomparso domenica scorsa all’età di 100 anni, è andato sempre per la sua strada. Come politico, la sua più grande forza è stata quella di individuare le opportunità, anche se non sempre è stato abile nell’utilizzare il potere una volta ottenuto. Come ex presidente più longevo, e per lungo tempo uno dei più giovani ed energici statisti americani, è divenuto nel tempo uno dei cittadini più rispettati al mondo.
Carter è stato una «presenza a volte assillante nella nostra vita nazionale», ha scritto nel 2015 il redattore di America Matt Malone, è stato «un simbolo dei migliori angeli della nostra natura collettiva» e, come Papa Francesco, è stato «il vero leader: un leader che dice quello che fa e fa quello che dice».
Uomo di fede profonda
Per tutta la vita, Carter è stato fedele alla sua fede battista, insegnando alla scuola domenicale della sua confessione anche quando risiedeva alla Casa Bianca. Nei 44 anni successivi alla sua presidenza, senza più essere oggetto di continue speculazioni su ciò che di lui era «reale» e ciò che era immagine politica, Carter ha potuto far leva sui suoi principi cristiani per unire piuttosto che dividere l’umanità. «Ciò che è degno di nota nell’approccio di Jimmy Carter alla vita pubblica e politica», ha scritto Joseph McAuley su America, «è la convinzione che la propria fede ha un ruolo da svolgere e che sia un elemento che non deve essere ignorato o sottovalutato».
Jimmy Carter arrivò a Washington come una meteora. Governatore della Georgia per un solo mandato, nel 1976 fu l’unico candidato democratico a capire davvero come funzionava la nuova scelta delle nomination, partecipando a tutte le primarie mentre i suoi rivali più noti combattevano le loro battaglie e complottavano per conquistare i delegati in delle convention che non avevano sbocchi reali. E quando i leader del partito si accorsero della minaccia, Carter era ormai inarrestabile. «Non dirò mai una bugia», dichiarò in quella campagna, e le sue dichiarazioni suonarono come un balsamo dopo che il Watergate aveva fatto cadere la presidenza di Richard Nixon. «Voglio un governo buono, gentile e amorevole quanto il popolo americano».
Già nel 1976 c’erano stati segnali che Carter era un uomo un po’ troppo diretto, forse troppo schietto per gli elettori americani. Sconfisse Gerald Ford per soli tre punti, arrivando alla Casa Bianca solo perché gli Stati del Sud tornarono temporaneamente al Partito Democratico per sostenere uno dei loro.
Nel suo discorso di insediamento, citò il profeta Michea: «Uomo, ti è stato insegnato ciò che è buono e ciò che richiede il Signore da te: praticare la giustizia, amare la bontà, camminare umilmente con il tuo Dio» (Michea 6,8). Il nuovo presidente, che aveva prestato servizio nel programma di sommergibili nucleari della Marina e aveva salvato l’impresa di famiglia che produceva arachidi prima di entrare in politica, decise di dare il tono della sua nuova amministrazione percorrendo a piedi un tratto di Pennsylvania Avenue. Fu un vero rovesciamento di prospettiva rispetto al protocollo abituale il quale prevedeva che i presidenti sfilassero tra le folle in automobile.
Il Presidente Carter si alienò rapidamente le simpatie dei membri del suo stesso partito, cercando di bloccare dighe e altri progetti idrici per un valore di miliardi di dollari e anticipando di qualche decennio una svolta bipartisan contro la pratica della «pork barrell politics» come strumento per conquistarsi gli elettori (la politica del «barile di maiale» − pork barrell politics − è la pratica di fare leva sul proprio potere per fare concessioni a qualche gruppo particolare in cambio di sostegno politico – ndt). Si fece apprezzare anche per le sue capacità diplomatiche internazionali, mediando un accordo di pace tra Egitto e Israele a Camp David nel 1978. Fu mediatore anche dei trattati con cui gli Stati Uniti restituirono il controllo del Canale di Panama alla nazione di Panama, a dimostrazione del rispetto che nutriva per la sovranità delle altre nazioni dell’emisfero occidentale.
Ha introdotto i diritti umani a fondamento della politica estera americana. Nel discorso di addio prima di lasciare la Casa Bianca, disse: «L’America non ha inventato i diritti umani. In realtà, è proprio il contrario. I diritti umani hanno inventato l’America». Ma, aggiunse, «se vogliamo essere un faro per i diritti umani, dobbiamo continuare a perfezionare qui in patria i diritti e i valori che sposiamo in tutto il mondo: un’istruzione decente per i nostri figli, un’assistenza medica adeguata per tutti gli americani, la fine della discriminazione contro le minoranze e le donne, un lavoro per tutti coloro che sono in grado di lavorare e la libertà dall’ingiustizia e dall’intolleranza religiosa».
Anticipando «Laudato si’»
Carter non era un presidente che rimandava le questioni alle calende greche. La sua insistenza nel richiamare l’attenzione sulle sfide che l’America doveva affrontare potrebbe essere stato un fattore della sua sconfitta del 1980. Il discorso televisivo del 15 luglio 1979 − ricordato come «discorso del malessere», anche se lui non usò mai quella parola − si può considerare una delle grandi occasioni perdute della storia americana. In quel discorso, Carter affrontò la «crisi di fiducia» dell’America, andando oltre i timori per gli alti costi dell’energia e la debolezza dell’economia e mettendo sul tavolo temi più esistenziali: «Troppi di noi oggi tendono a venerare l’autoindulgenza e il consumo. L’identità umana non è più definita da ciò che si fa, ma da ciò che si possiede. Ma… abbiamo imparato che accumulare beni materiali non può riempire il vuoto di una vita che non ha speranza né scopo».
Un linguaggio simile sarà utilizzato da Papa Francesco nella sua enciclica «Laudato si’» nel 2015.
Lo storico Andrew Bacevich ha elogiato Carter per aver cercato di allontanare gli Stati Uniti non solo dalla crescente dipendenza dal petrolio straniero, ma anche da «un falso modello di libertà». In un’intervista del 2008, Bacevich ha dichiarato: «Carter aveva una consapevolezza profonda del dilemma che il Paese stava attraversando dopo il Vietnam. E, ovviamente, non fu compreso ma accolto con fischi, derisione e indifferenza». La promessa di Carter di «non dire mai una bugia» al popolo americano ebbe conseguenze inaspettate e scomode.
La sua candidatura alla rielezione si era ulteriormente complicata il 4 novembre 1979, quando i rivoluzionari iraniani sequestrarono l’ambasciata statunitense a Teheran e presero in ostaggio più di 60 americani. La maggior parte di loro fu rilasciata solo il giorno in cui Carter lasciò l’incarico, oltre un anno dopo. Un tentativo di salvataggio nell’aprile 1980 fu abbandonato a causa di guasti meccanici che bloccarono tre degli otto elicotteri inviati per recuperare gli ostaggi, uno di più rispetto a quanto i responsabili della progettazione ritenevano di poter tollerare.
La missione fu interrotta e si concluse con un incidente di elicottero che causò la morte di otto membri del servizio. Durante la conferenza stampa in cui è stata annunciata la sua diagnosi di cancro lo scorso mese di agosto, a Carter è stato chiesto se avesse qualche rimpianto in proposito ed egli ha risposto: «Vorrei aver mandato un elicottero in più a prendere gli ostaggi: li avremmo salvati e sarei stato rieletto».
Il salvataggio faceva parte del tentativo di Carter di assumere un’immagine più dura in vista delle elezioni del 1980. Impose anche sanzioni all’Unione Sovietica per protestare contro l’invasione dell’Afghanistan e a marzo ordinò il boicottaggio dei Giochi Olimpici estivi di quell’anno che si sarebbero tenuti a Mosca. I giochi si svolsero poi senza la partecipazione degli Stati Uniti e di altri paesi alleati.
Mentre si occupava di queste crisi internazionali, Carter respinse il tentativo di candidatura alla presidenza democratica da parte del senatore del Massachusetts Ted Kennedy. «Se Kennedy si candida, gli faccio il culo», disse nel 1979 a un gruppo di membri del Congresso, e faceva sul serio. Carter ebbe meno successo in autunno, quando perse 44 Stati e le elezioni a favore del geniale candidato repubblicano Ronald Reagan. È stato l’unico presidente del XX secolo a gestire lo sfratto del suo partito dalla Casa Bianca dopo un solo mandato.
Democrazia, salute, diritti umani
Liberato dalle preoccupazioni politiche a breve termine, Carter ha reinventato il ruolo di ex presidente americano. Richard Nixon trascorse i suoi giorni dopo la Casa Bianca affermando a gran voce la sua abilità nell’analisi politica; altri ex-presidenti avevano usato il loro status per ottenere lucrosi compensi per le loro conferenze. Carter è diventato famoso per aver aiutato a costruire case per l’associazione no-profit «Habitat for Humanity».
Nel 1982, insieme alla moglie Rosalynn, ha fondato il «Carter Center», in collaborazione con la Emory University di Atlanta, per promuovere le cause della democrazia e dei diritti umani e le iniziative di salute pubblica in tutto il mondo. Il «Carter Center» ha monitorato 100 elezioni in 38 Paesi allo scopo di prevenire frodi e intimidazioni degli elettori. Carter ha osservato personalmente decine di queste elezioni e nel maggio 2015 era in viaggio per il monitoraggio delle elezioni in Guyana quando si è ammalato ed è dovuto tornare a casa in anticipo.
Il suo impegno con il «Carter Center» è stato determinante per il conferimento del Premio Nobel per la pace nel 2002, «per i suoi decenni di sforzi instancabili per trovare soluzioni pacifiche ai conflitti internazionali, per il progresso della democrazia e dei diritti umani e per la promozione dello sviluppo economico e sociale».
Carter ha scritto una ventina di libri dopo aver lasciato l’incarico, a partire dalla raccolta di memorie presidenziali Keeping Faith, nel 1982, fino a A Full Life: Reflections at Ninety, pubblicato un paio di settimane prima di annunciare la sua diagnosi di cancro nell’agosto 2015 al Carter Center, e poi Faith: A Journey for All, pubblicato nel 2018.
«Sono perfettamente a mio agio con qualsiasi cosa accada», aveva detto nel 2015. «Ho una fede religiosa profonda, di cui sono molto grato». Ha anche ricordato i successi del «Carter Center» nella lotta contro la debilitante sindrome del Verme della Guinea in Africa e Asia, che ha totalizzato 3,5 milioni di casi nel 1986, dicendo: «Vorrei che l’ultimo Verme della Guinea morisse prima di me». A gennaio 2023, secondo le rilevazioni del «Carter Center», erano stati segnalati solo 13 casi di Verme della Guinea in tutto il mondo.
Pubblicato sulla rivista dei gesuiti degli Stati Uniti, America, il 29 dicembre 2024. Robert David Sullivan è direttore di produzione della rivista. Nostra traduzione dall’originale inglese
Jimmy Carter, con la sua vita straordinaria e il suo impegno incrollabile per la fede, la democrazia e i diritti umani, rappresenta un simbolo dei valori più alti che un leader possa incarnare. La sua dedizione ai principi cristiani non si è mai limitata alla sfera privata ma ha permeato ogni aspetto della sua carriera politica e del suo impegno post-presidenziale.
Carter non solo ha portato la questione dei diritti umani al centro della politica estera americana, ma ha anche incarnato una leadership autentica e coraggiosa, capace di affrontare temi impopolari e di anticipare istanze globali, come la giustizia sociale e la sostenibilità ambientale. La sua visione, a tratti fraintesa e sottovalutata, si è rivelata profetica nel delineare i dilemmi morali ed esistenziali che affrontiamo tutt’oggi.
La sua umiltà, unita a un impegno incessante verso il bene comune, gli ha permesso di ridefinire il ruolo di ex presidente, trasformandolo in una forza attiva per la pace e il progresso globale. La sua opera presso il Carter Center e il suo contributo nella lotta contro malattie debilitanti dimostrano una generosità e una perseveranza che lo rendono una figura unica nella storia contemporanea.
Carter è stato un uomo che ha vissuto secondo le sue convinzioni, dimostrando che fede e politica possono confluire per promuovere giustizia, dignità e solidarietà. La sua eredità non risiede solo nei successi politici, ma soprattutto nella speranza e nell’ispirazione che ha offerto al mondo.