Il 18 marzo è morto l’arcivescovo emerito di Praga, il card. Miroslav Vlk, da tempo colpito da un cancro. Sul finire del 2014 mi recai a Praga per conversare con lui. L’avevo incontrato più volte. Sempre signorile il suo aspetto, gli anni portati con dignità. Risiedeva nell’arcivescovado della capitale ceca, un elegante edificio che dà sulla Piazza del Castello, a pochi passi dal Palazzo del presidente. Dopo la repressione della Primavera di Praga (1968) era stato costretto a fare il lavavetri. Quando, nel 1990, divenne vescovo di České Budějovice, andai a trovarlo e parlai a lungo con lui. Tirò fuori da un album una foto, che lo ritraeva mentre a Praga lavava i vetri. La foto fece il giro del mondo.
Quando gli feci l’ultima visita, mi parlò del mitico arcivescovo di Praga, il card. František Tomášek, che diceva di sé: «Sono una quercia. Sono vecchio, ma sto in piedi». Ovviamente, non potei non chiedergli della Ostpolitik vaticana, verso la quale si era da sempre espresso criticamente. Dal 1963 fino al dicembre 1989, le due delegazioni della Santa Sede e della Repubblica cecoslovacca si incontrarono ufficialmente 43 volte e molti furono i viaggi e gli incontri non ufficiali soprattutto da parte di padre John Bukovsky. «Capisco che i diplomatici vaticani, che seguivano i nostri paesi sotto il regime comunista, avessero una forte preoccupazione per la mancanza di vescovi e si sforzassero di trattare con i comunisti, ma noi che vivevamo qui avevamo un’altra opinione, perché capivamo bene che questi non cedono, non vogliono accettare la nostra missione, seguono la loro ideologia e non vogliono lasciare spazio alla Chiesa. Dicevamo: meglio essere senza vescovi che avere persone costrette a fare compromessi non accettabili; meglio non avere nessun vescovo piuttosto che avere persone compromesse con il regime. C’erano comunque dei vescovi, che potevano ordinare sacerdoti».
Sotto il regime comunista
Mi parlò dell’euforia della Primavera di Praga di Alexander Dubček. «Studiavo teologia e il seminario di Litoměřice non era più così strettamente sorvegliato. Prima, la polizia entrava nel seminario a suo piacimento. Adesso potevamo metterci in contatto con i nostri vescovi al confino in diverse parti del Paese. Ritornò anche il vescovo di České Budějovice , Joseph Hlouch, che mi volle suo segretario e, dopo due settimane, mi ordinò sacerdote».
Nel 1952 Vlk sostenne gli esami di maturità e dovette aspettare 12 anni prima di entrare nel seminario di Litoměřice , l’unico aperto in Boemia e Moravia. Fu ordinato sacerdote nel 1968.
Negli anni Settanta fu fondata Pacem in terris, l’associazione dei preti filogovernativi, e l’8 marzo 1982 fu pubblicata la Quidam episcopi, dichiarazione della Congregazione del clero, con la quale venivano proibite a tutti i membri del clero le associazioni di chierici che, direttamente o indirettamente, in maniera manifesta o subdola, perseguissero finalità attinenti alla politica.
Vlk riandò a quei tempi: «Il regime aveva confinato tutti i vescovi e impedito loro di svolgere liberamente la loro missione. Aveva bisogno di un partner per far vedere alla gente in Cecoslovacchia, ma anche all’estero, che i contatti con la Chiesa non erano stati interrotti con l’avvento del comunismo. Avevano prima creato l’associazione MHKD, il movimento dei sacerdoti cattolici per la pace, in seguito sciolto nella Primavera di Praga. Con la cosiddetta “normalizzazione” il regime creò un movimento nuovo, Pacem in terris, perché vi aderissero tutti i preti. Avveniva così: il presidente di una regione convocava i sacerdoti, faceva il suo discorsetto e chiedeva l’adesione. Ma non era un’adesione personale, scritta, e tantomeno convinta. Era una pura formalità. Gli incontri erano obbligatori, ufficiali, durante i quali ci parlavano della bellezza del socialismo, il dono più bello anche per la Chiesa».
Dagli anni Cinquanta fino alla caduta del regime comunista vi erano in Cecoslovacchia due tipi di clero: i preti ufficiali, formati nei seminari di Litoměřice (Boemia-Moravia) e Bratislava (Slovacchia), molti dei quali formalmente legati a Pacem in terris; e i preti clandestini, legati ai vescovi Felix Davídek, Jan Blaha e Stanislav Krátký.
Vlk: «Con il consenso del Vaticano, nel 1948-49 furono consacrati clandestinamente 5 vescovi, perché i comunisti avevano costretto la Chiesa nelle catacombe. In seguito, i dirigenti comunisti cambiarono i loro piani, permettendo alla Chiesa di vivere pubblicamente, ma sotto un controllo severissimo. Il vescovo clandestino, il gesuita Hnilica, scappò a Roma, e il vescovo Ján Chryzostom Korec, pure lui gesuita, faceva l’operaio. In Moravia, nel ’68, Davídek era ossessionato dall’idea che presto i sacerdoti sarebbero stati internati in Siberia. Era eccentrico, un po’ matto. Era stato consacrato vescovo da Blaha, un ingegnere che poteva recarsi all’estero. Davídek e altri avevano il terrore dei carri armati e delle deportazioni in Siberia. Ordinò nella clandestinità decine e decine di preti».
Furono consacrati vescovi anche uomini sposati e Davídek ordinò pure donne, compresa una donna, Ludmilla, che divenne suo vicario generale. Continuò Vlk: «La Chiesa clandestina, composta da tanti preti e vescovi senza popolo, tenuti come “in riserva” a causa della persecuzione, andava per conto proprio. Non aveva nessun contatto con il Vaticano. Dopo la caduta del comunismo nel 1989, il card. Tomášek convocò a Praga i clandestini, li interrogò e tutto fu messo a verbale. Il materiale raccolto fu mandato a Roma per essere esaminato dalla Congregazione per la dottrina della fede. Ci fu detto di ri-ordinarli sotto condizione perché, alle volte, qualcuno era stato ordinato senza rispettare le forme previste dal rito. I preti sposati furono iscritti alla Chiesa greco-cattolica dove c’è il clero sposato, che andava ricostituendosi. La situazione andò poco a poco chiarendosi. Penso che non fosse necessario dare vita a una Chiesa clandestina, perché, nonostante le difficoltà, i sacramenti potevano essere celebrati. All’interno delle chiese si potevano fare le celebrazioni; erano le attività all’esterno che non si potevano fare».
Dopo la persecuzione
Dopo la persecuzione non fu facile la riconciliazione della Chiesa con lo Stato e con la società. Gli chiesi che cosa pensasse di Havel, l’artefice di Charta 77, l’ispiratore delle manifestazioni di massa contro il regime. «Era un vero e sincero umanista, anche quando fu proclamato presidente, ma attorno a lui non c’era un gruppo-leader in grado di prendere in mano e guidare la società e dare una nuova politica al Paese. Havel era un simbolo importante per noi, ma non per i pragmatici, per gli economisti, a volte senza scrupoli, che volevano guidare a modo loro, curando i propri interessi, le sorti del Paese. Non avevano il senso dei valori. E fu una catastrofe per la nostra società. Penso a Klaus, presidente del Consiglio dei ministri negli anni ’90 e poi presidente della Repubblica. Emarginarono la Chiesa. Una volta disse: “Non dobbiamo permettere che la Chiesa diventi forte economicamente e forte politicamente”. Lavoravano per tenere la Chiesa ai margini, libera sì nel suo campo, ma che non si intromettesse nella vita della società. La separazione tra Stato e Chiesa per loro doveva essere totale, in tutti i campi e in tutte le istituzioni. Non ci doveva essere nessun tipo di collaborazione a livello pratico. Separazione netta. Noi, invece, volevamo collaborare, come avviene negli altri Paesi europei».
Gli feci notare che la Chiesa della Repubblica ceca – nata il 1° gennaio 1993 dalla separazione consensuale con la Slovacchia – veniva sfidata dall’impressionante diminuzione dei credenti. «Si sta lavorando molto nelle diocesi e bene», mi disse. «Si fanno le catechesi, si tengono incontri, i laici aiutano moltissimo nella pastorale, perché c’è scarsità di clero. Possiamo dire che la nostra forza sta nel laicato, maturo e consapevole, istruito e coraggioso. Vi sono laici che guidano comunità parrocchiali dove manca il sacerdote, dirigono la liturgia della Parola, sono ministri della comunione. Certo il lavoro non manca, sia nella Chiesa sia nella società. Adesso i beni ci vengono restituiti e noi ci sforziamo di mantenere un atteggiamento di collaborazione e non di separazione. L’ultimo censimento registrava un 29% di cattolici e un 3,5% di altri cristiani; il resto si definisce indifferente. Molti sono aperti al fatto religioso. Si può osservare una certa tendenza a cercare i valori, il senso della vita e anche a cercare Dio».