Cessate le commemorazioni della Giornata del Ricordo in memoria delle vittime delle Foibe e i “rumori” inevitabilmente polemici, in noi risuonano gli echi di alcune voci che hanno raccontato, ammonito e auspicato un futuro migliore. Tra queste una pagina di buona scuola in cui sono risuonate note screziate di poesia e di vitale nostalgia.
Mi riferisco alla riflessione su un testo suggerito in lettura a studenti delle scuole medie superiori e presentato on line con eccellenti ospiti a cui i giovani, collegati da remoto, hanno posto domande. Il libro è Verde acqua di Marisa Madieri. Edito da Einaudi nel 1987 e ristampato, tradotto in diverse lingue.
Molto appropriata la bellissima immagine scelta per la copertina della prima edizione. Un volto femminile dipinto dall’espressionista tedesco Ernst Ludwig Kirchner. È un ritratto della malinconia: la mano della giovane donna appoggiata sul mento, lo sguardo sospeso, i lineamenti essenziali fissati tra il verde, il giallo e incisivi tratti neri.
L’autrice, nata a Fiume nel 1938, è prematuramente morta nel 1996 a Trieste, dove nel 1949 si era stabilita con la famiglia insieme ad altri esuli. Il webinair, organizzato dall’infaticabile dottoressa Monica Colaci, promotrice per Fondazione ISEC (qui) di progetti e di incontri scolastici su temi di storia dell’Italia contemporanea, ha favorito il dialogo tra scolaresche e chi ha vissuto a fianco dell’autrice, condividendone negli anni affetti, memorie e speranze. Sono il marito di Marisa, Claudio Magris, famoso germanista e scrittore italiano, e la sorella minore Lucina Madieri.
Un’occasione per rileggere e segnalare una delicata e puntuale autobiografia in cui le memorie degli anni giovanili si intrecciano con le immagini e le relazioni del presente, raccontato tra il novembre del 1981 e il novembre del 1984. Una prosa essenziale e una straordinaria capacità narrativa restituiscono i vissuti di una bambina, poi ragazza, esodata e innamorata delle proprie origini, della terra che fu costretta lasciare (“Marisa ha voluto reimparare il croato” , dice Magris) e anche della città che a fatica l’accolse.
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La vita nel Silos (l’enorme edificio, già granaio, ubicato presso la Stazione Centrale di Trieste in cui vivevano gli esuli) e poi nel box di legno di 8 metri per 4 in cui la sua famiglia fu sistemata, è raccontata con la mediazione di una cultura letteraria che l’autrice ha guadagnato negli anni e con la freschezza di uno sguardo che l’ha accompagnata fin da piccola.
Un’alta abilità descrittiva dà smalto alle cose, a elementi naturali e figure. Invita il lettore a posare lo sguardo soprattutto su elementi naturali e figure che i più considerano marginali come Valeria, una bimba disabile spesso ospite in casa, il barcaiolo Gusar o il piccolo porcellino d’India che allieta la vita domestica.
Tra le righe serpeggia malinconia e non manca il presentimento della fine, poiché la malattia della scrittrice si era affacciata poco prima degli anni ’80. Tuttavia, a vincere è un grande amore per la vita non scalfito da povertà e disagi familiari, ma tale da favorire aperture e solidarietà con chi vive passaggi dolorosi.
“Il colore dell’amore” è “verde acqua”, quello del vestito regalatole dalla madre per i suoi 18 anni e acquistato con notevole sacrificio in tempi di ristrettezze economiche. Se, in primo piano, è il fluire della sua vita, la grande Storia non è sullo sfondo bensì in stretta relazione con gli eventi che accadono, in una terra di confine segnata da scontri e tragedie.
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Siamo giustamente abituati a uno studio storico fatto di date poggianti su fonti archivistiche che vogliamo “oggettive”. Eppure, a volte, dimentichiamo quanto le ricostruzioni del passato siano debitrici del presente, di memorie e di vissuti personali e comunitari. Ci sembra importante l’intuizione dell’autrice che alterna pagine dedicate alle memorie giovanili ad altre che raccontano le giornate che sta vivendo da adulta.
In un’epoca, in cui pochi parlavano degli esuli istriano-dalmati (Il Giorno del Ricordo fu istituito in Italia solo nel 2004), una donna nutrita di affetti profondi, ricchi progetti esistenziali e sociali, approfondite letture, sente l’esigenza di testimoniare che cosa ha significato sentirsi stranieri in una Trieste poco ospitale. E crescere con chi cercava strategie più o meno efficaci per sopravvivere.
“Avevamo lasciato tutto in Istria – dice Lucina Madieri –, perché il governo jugoslavo ci ha consentito di inviare solo poche cose chiuse in scatoloni poi ammassati nel famoso Magazzino 18. E solo nel 1954 abbiamo aperto quegli scatoloni. Ma negli anni del boom economico italiano non si voleva raccontare la miseria di una città”.
Una testimonianza di drammatica attualità, certamente apprezzata da studenti e insegnanti che ascoltano a distanza. Anche Marisa Madieri era stata insegnante di lingua e di letteratura inglese in un liceo.
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La memoria impregna le pagine di Verde acqua cui seguirono, postumi, altri racconti. Testi in mostra su mensole alle spalle dei relatori, a tratti commossi, raccolti nella sala di uno storico palazzo triestino. È Palazzo Biserini dove, nella prossima primavera, aprirà il LETS, Museo della Letteratura di Trieste.
Non sono mancate penne prestigiose in questa capitale mitteleuropea, la cui raffinata cultura è stata divulgata da Claudio Magris in molti saggi. Ai maestri e maestre di preziose memorie che la città giuliana vuole rendere omaggio a 70 anni di distanza dall’ottobre del 1954, quando la zona A della stessa città fu restituita a Roma.
Tuttavia, scegliamo una semplice e incisiva frase della Madieri, particolarmente efficace per sottolineare il valore del ricordo. In una pagina di Verde acqua, dopo aver descritto con minuta precisione un vagone nero solitario di una stazione di confine, la sua scaletta rugginosa e il grazioso predellino, il pensiero corre a un prima e a un dopo: “Pensai che tutto questo una volta non c’era e un giorno non sarebbe stato più. Dio, la Grande Memoria, non poteva non esistere”.