C’è un’onda lunga nel ricordo degli uomini giusti davanti a Dio. Il 6 novembre abbiamo ricordato i 25 anni dalla morte il card. americano Joseph Bernardin, la sua luminosa eredità, in buona parte sprecata (cf. SettimanaNews, qui).
Qualche giorno dopo ho letto una serie di 24 saggi e ricordi sul card. Carlo Maria Martini, vescovo a Milano dal 1980 al 2002. Li attraversa tutti un’onda di nostalgia, di rimpianto e di simpatia. Quasi a rinnovare il ricordo difficile di quei decenni prolungando il suo insegnamento fino ai nostri. Nessun tono accademico e formale, ma neppure alcun cedimento all’emozione superficiale.
Marco Vergottini, il curatore, ha contattato gli autori affidando a ciascuno una citazione nel vastissimo insegnamento del cardinale e lasciando libertà di riflessione. Il titolo: La settima stanza del cardinale. L’eredità di Carlo Maria Martini (ed. Solferino, Milano 2021, pp. 288, € 16,00). Fra gli autori: W Kasper, P. Stefani, M. Garzonio, G. Giudici, C. Casalone, F.G. Brambilla, F. de Bortoli, B. Tobagi, L. Segre.
Il lettore ha l’impressione che i pur numerosi saggi illuminino solo alcune aree della sua personalità. Soprattutto che la pervasiva creatività del suo magistero agisca ancora e porti ciascuno a operare un discernimento creativo sul presente.
Il titolo allude al Castello interiore di Teresa d’Avila, all’ultimo approdo del cammino mistico della santa, quella settima stanza, la camera nuziale, in cui il Signore attende la sua amata. Seppure i temi affrontati siano numerosi (speranza civile, terrorismo, pastorale, Gerusalemme, città, teologia, dialogo ecc.) lo snodo più sviluppato è la vita interiore, il tema della morte e dei “novissimi”, la malattia, la vecchiaia e la speranza ultraterrena.
Pregare nello Spirito
Martini (nato il 15 febbraio 1927 e morto il 31 agosto 2012) parlava con molta reticenza e discrezione del suo cammino spirituale e della sua vita, «evitando la costruzione ed esibizione pubblica della propria immagine» (B. Tobagi), mischiando riservatezza torinese e distacco accademico (F. de Bortoli). Ma non sono mancate le occasione in cui è stato come obbligato a entrare nei territori della preghiera, della meditazione sulla morte, dei “novissimi”, fino all’esperienza dell’“assenza di Dio” e dell’“irrilevanza” della Chiesa” a testimoniarne il mistero.
Memore dell’insegnamento di Ignazio e di Teresa d’Avila, parla di preghiera come tratto essenziale della fede in termini di esercizio fedele e di lotta interiore. «Se non si riesce a resistere pazientemente nella lotta interiore attingendo forza nel Signore (Ef 6,10), la preghiera rimane un gioco, un’avventura spirituale che non arriva a toccare Dio, anzi a sbattere contro la roccia della realtà di Dio» (S. Cannistrà). Non c’è vita di preghiera autentica che «non passi in qualche maniera per queste situazioni di prova, che sant’Ignazio chiama di “desolazione spirituale”» (Martini).
La tentazione è di accorciare i tempi, di non avvertirne le consolazioni oltre alle fatiche, di assimilarla progressivamente al narcisismo imperante. Il passaggio è necessario per fare dell’orante la trasparenza delle luce di Dio. La speranza, la preghiera insistente e la veglia conducono alla preghiera nello Spirito. «Mi sembra di aver trovato questo: cioè che la caratteristica specifica della preghiera cristiana è che si tratta di “preghiera nello Spirito”; e questo non si trova in nessun altra religione e neppure nell’Antico Testamento… Nel Nuovo Testamento la preghiera nello Spirito è un’evidenza» (p. Mollat, citato da C. Dobner).
Il mistero del morire
I libri dell’ultimo Martini (Conversazioni notturne a Gerusalemme, Qualcosa di personale, Meditazioni sulla preghiera) «sono la splendida testimonianza di una condizione anziana di vita che ha continuato ad essere donatrice di senso» (E. Borgna). «Chi ha raggiunto una certa età è anche nelle condizioni di volgere uno sguardo sintetico sulla propria vita, riconoscendo i doni di Dio, pur attraverso le inevitabili sofferenze. Veniamo quindi invitati a una lettura sapienziale della nostra storia e di quella del mondo da noi conosciuto, E beati coloro che riescono a leggere il proprio vissuto come un dono di Dio, non lasciandosi andare a giudizi negativi sui tempi vissuti o anche sul tempo presente in confronto con quelli passati» (Martini). «Sono davanti alla prospettiva di una chiusura prossima dell’esistenza e quindi mi pare di sentire in maniera ancora più forte tutta la grandezza e l’oscurità di quel momento». «Desideriamo essere con Gesù e questo nostro desiderio lo esprimiamo a occhi chiusi, alla cieca, mettendoci in tutto nelle sue mani». (Martini).
«Davanti a questo mistero, una via di risposta percorribile gli sembrava questa: diversamente da ogni altro passaggio vissuto nel corso dell’esistenza terrena, nel transito finale non è possibile ancorarsi a nessuna certezza surrogata e si è così condotti ad affidare incondizionatamente la propria vita al Signore. È il luogo più radicale in cui testimoniare la benevolenza e l’affidabilità con cui Egli si prende cura di ciascuno, accogliendolo con misericordia» (C. Casalone).
L’inferno esiste ed è sulla terra. «Sono situazioni così disperate da essere giunte a un punto morto; l’inferno si contraddistingue per l’ineluttabilità, la mancanza di una via d’uscita, il senso di eterno abbandono» (Martini). E cita sia condizioni personali (le dipendenze) sia storiche come la battaglia di Stalingrado o, ancor più, l’Olocausto. L’esperienza storica illumina la possibilità dell’uomo di opporsi alla volontà di Dio. Il drammatico spazio della libertà attesta la realtà dell’inferno.
Come esito conclusivo, il card. G. Ravasi cita la lettera pastorale Sto alla porta: «L’inferno è la condizione insopportabilmente dolorosa della separazione da Cristo, dell’esclusione eterna dal dialogo dell’amore divino; possibilità tragica e però necessaria se si vuole prendere sul serio la libertà che Dio ha dato all’uomo di accettarlo o di rifiutarlo. L’inferno, in quanto possibilità radicale, evidenzia la dignità suprema della vita umana, il valore sommo della vigilanza e la tragicità del male».
Le parole supreme
È mons. Giovanni Giudici, a lungo collaboratore di Martini e suo amico, a testimoniare la suprema angoscia del credente, quando il cardinale gli mormora «Dio si è dimenticato di me». «La frase del cardinale fu per me tanto inattesa e dolorosa da oscurare per un istante la mia vista. Un’ansia penosa mi colpì». A distanza di tempo «mi è parso di scorgere nell’esperienza che il cardinale viveva in quel momento, e che aveva espresso con quella parola, il vivere quella personale fatica spirituale che viene chiamata “notte oscura”; di questa fatica nel sentirsi lontano da Dio ci parlano le persone che sono chiamate a una purificazione piena». Una tensione agonica che confermava il suo insegnamento «quando, parlando della morte, ci insegnava che il significato del morire poteva essere cercato nella resa piena e definitiva della creatura umana all’amore di Dio» (G. Giudici).
«La Chiesa è rimasta indietro di duecento anni. Come mai non si scuote? Abbiamo paura? Paura invece di coraggio? Comunque la fede è il fondamento della Chiesa. La fede, la fiducia, il coraggio. Io sono vecchio e malato e dipendo dall’aiuto degli altri. Le persone buone intorno a me mi fanno sentire l’amore. Questo amore è più forte del sentimento di sfiducia che ogni tanto percepisco nei confronti della Chiesa in Europa. Solo l’amore vince la stanchezza. Dio è amore» (Martini).
Il cardinale alludeva alla percezione di molti che in Occidente il cristianesimo non agisce dove si costruisce il senso del vivere. In questo, diventa insignificante. Fino a poter immaginare che la “gente di fede” non coincida più con la “gente di Chiesa”, facile preda del populismo autoritario. Sforando nel paradosso che, per essere “gente di fede”, si debba rimuovere l’istituzione ecclesiale. «Il vecchio pastore, che nel suo ritiro gerosolimitano ha persino deposto ogni insegna tipica dell’istituzione ecclesiastica e si limita a vestire panni da uomo, nonostante tutto rinnova la sua fiducia per quello che resta per sempre più grande di noi. Offre indicazioni, invoca la speranza. Ma sembra chiedersi, e noi con lui, se la Chiesa sia ancora un posto per credenti» (G. Zanchi).
Se Martini, da morto, provoca una sana inquietudine … beh è tanto di guadagnato. Nel mio blog un ritratto di una persona che per me è straordinaria e ho potuto incontrare personalmente.
Il vangelo non invecchia. Ma il modo con cui la società vive il vangelo cambia perché cambia lei stessa e perché aumentano le capacità di analisi e di studio sui documenti antichi.
I tanti tradizionalisti rimangono basiti dal cambiamento solo perché il cambiamento non era un evento che la chiesa amava tenere presente oppure si, lo teneva presente ma con i suoi tempi. Oggi che occorre una capacità di analisi e soluzione dei problemi rapida, la chiesa abituata ai secoli di riflessione incespica. Ricorda tanto l”albatros di Beuadlaire.
Il risultato è che come cristiani non abbiamo quasi mai gli strumenti giusti al momento giusto, perché dopo anni di riflessioni, proposte e contropoposte sono già vecchi.
Martini da uomo intelligente ha provato a spronare la chiesa… Ma vedendo il torpore in cui è caduta la diocesi di Milano dopo di lui direi che ha fallito persino in casa sua.
Ma forse la gente di chiesa non coincide più con la gente di fede e forse, invece, il cardinale Martini ha vinto.
L’albatro del “tradizionalista” Beaudelaire lo rilegga: non era certo l’immagine di un’incapacità quanto di una grandezza incompresa, capace di volare più in alto di chiunque altro.
Come al solito la sua analisi è tutta cerebrale, incastrata negli schemi tradizionalismo-progressismo.
Attento alle torri d’avorio del ritenersi vera gente di fede in contrapposizione alla gente di chiesa che l’avrebbe persa.
Chiedere allo Spirito Santo la luce per interpretare i cambiamenti non vuol dire restare basiti dinnanzi ad essi ma è ciò che il Signore stesso ci ha indicato.
Buon cammino
Io mi credo nulla e a me dispiace della grandezza della chiesa incapace di muoversi a proprio agio sulla terra. Ma purtroppo è così. Non basta pregare lo spirito. Bisogna modificare idee e comportamenti. Come al solito la sua analisi è tutta spirituale e poco concreta.
Magari prima o poi troveremo il giusto mezzo.
Cari saluti.
‘Ma forse la gente di chiesa non coincide più con la gente di fede’
anche io pensavo così un tempo, ma poi ho scoperto che la Chiesa è il Corpo di Cristo e tutti cristiani sono membra di Cristo: tutti nel loro piccolo portano avanti la luce della fede
poi come tanti lei disprezzano il prossimo per esaltare il lontano, però il Signore ci comanda di amare il nostro prossimo in quanto proprio perchè vicino a noi ne vediamo i difetti ed è facile disprezzarlo
comunque i tradizionalisti non sono basiti dal cambiamento, ma lo riconoscono e vogliono provare e invertire la rotta: magari sono solo dei poveri illusi, ma qualcosa vogliono fare
un altro problema della sua analisi è che ritiene che questa ‘capacità di analisi’ del mondo sia un qualcosa che procede sempre verso una comprensione migliore delle cose, e quindi il cambiamento è qualcosa di sempre positivo e quindi da accettare
ecco, ciò è quantomeno troppo ottimista e storicamente ci sono parecchi casi di ‘cambiamenti’ che sono un chiaro regresso e l’accettazione di questi da parte della Chiesa senza riflessione ha causato non pochi danni
meglio esseri prudenti e sembrare lenti e in ritardo che accettare tutto e poi fare una figuraccia
“La Chiesa è rimasta indietro di duecento anni”.
Non so a cosa si riferisse precisamente il cardinale. Se ad un mancato “aggiornamento” o ad una mancata “rivoluzione” che interessasse anche i fondamenti della fede. Dai suoi scritti è difficile propendere per l’una o l’altra ipotesi.
Certo risalendo a duecento anni orsono mi viene in mente l’illuminismo, mi viene in mente Kant col suo rifiuto della metafisica ed il conseguente esilio della trascendenza nella sfera del privato -o peggio – in quella dell’immaginario.
Ma vengono anche in mente i diritti dell’uomo, la separazione dei poteri, la tolleranza e tante altre conquiste irrinunciabili.
Ma oggi siamo oramai in un altro eone, un eone in cui anche le acute – anche se non sempre condivisibili – riflessioni del cardinale impallidiscono. Viviamo un epoca di mutamento profondo che qualcuno – secondo me acutamente – ha chiamato la tarda modernità. Si, più che post-modernità siamo di fronte alla tarda modernità. Un epoca in cui l’onda lunga delle istanze otto-novecentesche vanno esaurendo la loro spinta sotto i colpi di nascenti istanze sostenute da potentissime innovazioni tecnologiche. In tutta questa impetuosa fluidità, alla nostra fede tocca il ruolo che nella tarda antichità toccò al paganesimo. Gli tocca il ruolo di religione in declino al cospetto dell’ascesa di una nuova religione più capace di interpretare le necessità culturali emergenti ovvero il pensiero post-umanista e la sua prassi tecnologica di giorno in giorno più pervasiva delle nostre vite. Difatti al trascendente classico si va via via sostituendo un trascendente cibernetico dato dallo spazio telematico, popolato di entità semidivine che ci consigliano, ci curano, ci guidano, ci nutrono, ci isolano o mettono in relazione con altri umani, che sanno prima e meglio di noi cosa ci piace o cosa vogliamo davvero e ce lo procurano. Questa dinamica lentamente fagocita la sfera “verticale” (rapporto col divino) ma ancora più chiaramente fagocita quella orizzontale (rapporto con gli altri umani). Tutto ciò è un male? È un bene? È certamente una sfida per la fede! E noi abbiamo bisogno di una nuova “visione” dello Spirito per navigare in questi tempi e portare la buona notizia a chi la aspetta. La tentazione estrema è quella di uno “storicismo” che vada ad erodere financo l’eterna attualità della lieta notizia, prendendo il rifiuto di alcuni o anche di tanti per un anacronismo della fede cristiana che – per chi crede – non è possibile si dia!
Buon cammino.