Ad Auschwitz c’era la neve,
il fumo saliva lento
nel freddo giorno d’inverno
e adesso sono nel vento.
(Francesco Guccini)
Metz è uno dei teologi che più mi è caro. Risale agli anni ’70 il mio accostamento alla sua riflessione teologica. Lo scelsi per la tesi di laurea in filosofia all’Università di Padova. Molto noto in terra tedesca, era pressoché sconosciuto da noi.
Ricordo che, quando ne parlai, il relatore, il prof. Marino Gentile, rimase sbigottito. «Ma chi è questo Metz? E che cos’è questa teologia politica?». Gli risposi, per far passare una tesi per lui un po’ strana, che era stato discepolo di Karl Rahner. Non è che ne sapesse poi tanto di Rahner, ma ne aveva perlomeno sentito parlare perché, a Friburgo, Rahner era stato discepolo di Heidegger. Marino Gentile conosceva bene il filosofo tedesco della Selva Nera.
Un episodio tragico
L’idea di una tesi su Metz passò e mi misi a studiarlo e a frequentarlo. Uomo di notevole carica umana, di sorprendente bonarietà, di straordinaria effervescenza. Amava la compagnia e le risate. Eppure già allora il teologo tedesco mi dava l’impressione di una certa inquietudine, di un non so che di velato, di uno spirito sorprendentemente problematico.
Lo appassionava la teodicea, cioè lo studio su Dio e mi diceva che le domande su Dio sono tante; che la teologia non doveva avere paura di porre domande. In una conversazione mi parlò anche della sua scelta di fare il teologo, del punto di partenza del suo itinerario teologico.
A distanza di anni, Metz ritornò a parlamene, in un simposio organizzato da Moltmann nel 1996 a Tubinga, al quale parteciparono nove famosi teologi, tra i quali appunto Metz. Tutti dovevano rispondere all’unica domanda: «Come sono cambiato?». Metz disse di parlare di ciò in cui non era cambiato. Non era infatti cambiato il riferimento a un episodio tragico della sua vita, che illuminò e sorresse la sua ricerca teologica.
Raccontò ai suoi amici teologi quello che mi aveva confessato anni addietro nella lontana Münster, dove insegnava teologia: «Verso la fine della seconda guerra mondiale io, di sedici anni, ero stato strappato dalla scuola e costretto al servizio militare. Dopo una formazione fugace nella caserma di Würzburg, arrivai al fronte, che allora era retrocesso al di qua del Reno. La compagnia era formata da più di un centinaio di giovani vivaci. Una sera il comandante della compagnia mi mandò con un dispaccio alla sede del comando tattico. Vagai la notte per villaggi e masserie distrutti o in fiamme e quando, la mattina seguente, feci ritorno alla mia compagnia trovai solamente morti, morti e grida: erano stati travolti da un attacco combinato di bombe e carri armati. A tutti loro, con i quali avevo condiviso paure infantili e risate giovanili, potevo guardare ormai solamente con uno sguardo spento, morto. Non ricordo nient’altro che un grido silenzioso. Mi vedo ancora oggi così e, dietro questo ricordo, i miei sogni infantili sono crollati. La mia forte socializzazione bavarese e cattolica e la fiducia che ne derivava avevano subito uno strappo. Che cosa accade quando, per questo, non si va da uno psicologo ma in chiesa, quando né la Chiesa né la teologia offrono scuse per tali ricordi inconciliabili, ma si crede con essi e con essi si vuole parlare di Dio?» (cf. Sul concetto della nuova teologia politica 1967-1997. Queriniana, Brescia 1998, 225ss).
Domande su Dio e a Dio
Fu anche per questo che Metz introdusse fin dall’inizio della sua ricerca teologica la categoria del “pericolo”, alla quale aggiunse successivamente le categorie della memoria, della passione, della sofferenza in riferimento a Dio. Chi è e com’è Dio di fronte alla storia della sofferenza del mondo, del “suo” mondo?
Andava ponendo le basi di quella “teologia politica”, che tanto avrebbe fatto parlare e scrivere, la quale non sarebbe stata altro che un «parlare di Dio nella “conversio ad passionem”. Chi parla di Dio nel senso di Gesù, deve accettare che le proprie preconcette certezze siano intaccate dalla sventura degli altri» (ivi, 226).
Nei primi anni ’60, anche i teologi evangelici Jurgen Moltmann di Tubinga e Dorothee Sölle di Colonia, si interrogavano su Dio e sul mondo. Il primo, per dare concretezza alla sua “teologia della speranza”; la seconda, muovendo da Bultmann (1884-1976), un esegeta di Marburg, il più grande studioso del Nuovo Testamento del XX secolo.
Metz arrivò alla teologia politica provenendo dalla teologia trascendentale del suo grande maestro Karl Rahner. Destò subito impressione che la «teologia politica con Metz, Moltmann e Sölle andasse costituendosi come un variegato movimento teologico inter-confessionale» (Gibellini).
Metz (e anche gli altri due) dovette sostenere una marea di critiche. Il dibattito fu aspro e polemico fino alla pubblicazione del volume La fede nella storia e nella società (1977), che apportò molte precisazioni. Ma il teologo Metz, l’uomo «sempre pieno di sorprese», secondo Moltmann, portò la teologia all’interno della storia, quella storia che porta un nome così orribile come quello di Auschwitz.
Ancora dalla sua confessione: «Da allora ho continuato a chiedermi perché nella nostra teologia ha così poco spazio e voce tale catastrofe, come in genere la storia della sofferenza umana. Ove è stato possibile, abbiamo forse utilizzato per l’interpretazione teologica della storia categorie troppo “forti”, che nascondono troppo velocemente le ferite storiche e fanno atrofizzare la capacità di percepire il pericolo? Veramente la teologia guarisce tutte le ferite? Auschwitz ha avuto l’effetto di un ultimatum per me. Da allora, nella mia teologia hanno giocato sempre un grosso ruolo le categorie cosiddette “deboli” della memoria e del racconto, che sono ancora in grado di dar voce allo sgomento del “logos” della teologia, come in genere ha avuto importanza l’attenzione per la cultura umanistica sviluppatasi nella storia ebraica» (ivi, 227).
Volle rendersi conto di persona del mondo del dolore e della sofferenza e andò a visitare le comunità di base dell’America Latina. Rimase impressionato dal lavoro “dal basso” di amici e colleghi teologi. Scrisse un diario visitando le Ande.
Riprese con maggior vigore l’idea di porre alla teologia le domande più crude e inquietanti dell’esistenza umana tribolata. La sofferenza divenne nella sua ricerca la categoria di base del discorso cristiano su Dio. In questo si sentiva ancora una volta legato all’insegnamento del suo grande maestro Karl Rahner.
Terminò il suo intervento al simposio di Tubinga, ricordando quello che scrisse nel 1984 alla sua morte: «Mai Karl Rahner ha interpretato il cristianesimo come la buona coscienza di una borghesia alla moda, mai come una specie di religione familiare borghese, da cui è bandita ogni speranza minacciata di morte, ogni aspirazione, che io non avvertii mai come sentimentale, mai come smodata, ma piuttosto come un sospiro sommesso della creatura, come un muto grido di richiesta di luce dinanzi al volto oscuro di Dio».
Nel luglio del 1999 mi mandò un bellissimo testo sull’«ecumene delle compassioni». Muovendo dalla constatazione che tutte le grandi religioni dell’umanità hanno come interesse centrale una mistica della sofferenza, vedeva in questo la base di un’alleanza tra le religioni, volta a promuovere la compassione sociale e politica nel mondo per un’opposizione comune alle cause della sofferenza. «L’umanità – scriveva – deve diventare finalmente umana. Tutte le grandi religioni dell’umanità hanno come interesse centrale una mistica della sofferenza. Essa potrebbe essere la base di un’alleanza tra le religioni, tesa alla salvezza e a promuovere la compassione sociale e politica nel mondo, per un’opposizione comune alle cause della sofferenza ingiusta e innocente. Questa “ecumene delle compassioni” non rappresenterebbe soltanto un evento religioso, ma sarebbe anche un evento politico».