Anche quest’anno, il 13 dicembre, presso la Fondazione Zancan, è stato ricordato mons. Giovanni Nervo a centoquattro anni dalla nascita. Una figura di straordinaria attualità. Geniale nella sua impostazione della Caritas italiana. Il questo articolo il ricordo di don Antonio Cecconi che per anni ha strettamente collaborato con lui.
«Spetta ai sacerdoti, nella loro qualità di educatori nella fede, di curare… che ciascuno dei fedeli sia condotto nello Spirito Santo a sviluppare la propria vocazione personale secondo il Vangelo, a praticare una carità sincera e attiva, ad esercitare quella libertà con cui Cristo ci ha liberati. (…) I cristiani, inoltre, devono essere educati a non vivere egoisticamente ma secondo le esigenze della nuova legge della carità, la quale vuole che ciascuno amministri in favore del prossimo la misura di grazia che ha ricevuto e che in tal modo tutti assolvano cristianamente i propri compiti nella comunità umana. Ma, anche se sono tenuti a servire tutti, ai presbiteri sono affidati in modo speciale i poveri e i più deboli, ai quali lo stesso Signore volle dimostrarsi particolarmente unito e la cui evangelizzazione è presentata come segno dell’opera messianica».
È un passaggio dal documento conciliare sul ministero e la vita dei preti (Presbyterorum ordinis n. 6), lì dove si tratta de “I presbiteri educatori del popolo di Dio”. È stato detto da molti, e a ragione che, grazie alla lungimiranza e alla tenacia di don Giovanni Nervo, la Caritas Italiana è stata uno dei frutti più significativi del Vaticano II nelle Chiese che sono in Italia. Ma, in senso più lato, don Giovanni trovò davvero «nei documenti e nell’esperienza del Concilio non solo la conferma del suo pensare e del suo operare, ma ancor di più il clima, la visione, gli ideali che ha sempre coltivato e cercato» (Paolo Doni). Subito improntò allo spirito conciliare la sua azione di parroco di Santa Sofia, promuovendo prontamente la partecipazione dei fedeli attraverso il consiglio pastorale.
Sempre dalla parte degli ultimi
E non solo la nascita e lo sviluppo della Caritas e la sua precedente azione come parroco, ma tutta la sua vita di prete la possiamo leggere come in filigrana nel testo conciliare citato.
Il suo ministero – nei diversi incarichi e mansioni a cui fu chiamato e che egli accettò in piena consapevolezza e totale generosità, mai separate da un’intelligente e lungimirante creatività – fu costantemente improntata alla carità sincera e attiva, di cui fu infaticabile apostolo, con la costante ansia pastorale che i cristiani e tutti gli uomini e le donne di buona volontà potessero essere educati a non vivere egoisticamente ma secondo le esigenze della nuova legge della carità. Senza limitare ciò all’ambito intra-ecclesiale, ma con apertura all’intera comunità umana.
E, poiché il Concilio afferma ancora che ai presbiteri sono affidati in modo speciale i poveri e i più deboli, non possiamo non riconoscere come in tutta la sua vita don Giovanni, pur cercando egli il massimo di riservatezza e quasi nascondimento, abbia praticato personalmente la scelta preferenziale degli ultimi, oltre ad assumerla come criterio costante dell’azione pastorale, culturale, pedagogica.
A proposito della scelta dei poveri, sarebbero da citare una quantità smisurata di episodi. Mi limito a uno di essi: in un paese dell’alta Irpinia, durante la festa conclusiva del gemellaggio con la popolazione colpita dal terremoto del 23 novembre 1980, un notabile del posto lo chiamò da parte per dirgli: «Avete fatto cose bellissime, ma avete sbagliato tutto: vi siete messi con quelli che non contano». Per don Giovanni quello era stato il più bell’elogio che lui e tutta la Caritas potessero ricevere.
La fondamentale funzione pedagogica delle Caritas è uno dei capisaldi della fedeltà al Concilio, a cui diede consistenza valorizzando la soggettività di tutto il popolo di Dio e, in particolare, della componente laicale. Educare facendo e facendo fare, rendere ogni comunità soggetto di carità e quindi di autentica promozione umana. È questa l’impronta che Caritas Italiana diede – e continua a dare, pur nel mutare dei tempi e delle condizioni ecclesiali e sociali – alle Caritas diocesane e parrocchiali.
Io ho conosciuto Nervo quando mi fu affidato il compito di far partire la Caritas diocesana a Pisa (1979), l’ho frequentato in tanti convegni e incontri sia della Caritas che della Zancan. Avendo lavorato per dieci anni (1991-2001) in Caritas Italiana come vicedirettore – a quel punto lui era membro a vita del Consiglio nazionale – posso dire che nella sede, negli uffici, nelle attività di Caritas Italiana si avvertiva la sua impronta e quasi si respirava ancora la sua presenza.
In coerenza con la scelta di valorizzare le diverse componenti del popolo di Dio, ritengo un fatto non secondario che in Caritas fossimo tre preti e più di trenta laici, tra cui i responsabili dei vari uffici (ben altro clima respiravo quando mi capitava di andare alla CEI, dove i laici erano l’usciere, la dattilografa, l’addetto alle fotocopie).
Se è indiscutibile che la carità abbia accompagnato tutta la sua vita, dobbiamo subito riconoscere che si è trattato sempre di una carità inseparabile dalla giustizia. Principio che don Giovanni volle fosse affermato fin dall’art. 1 dello Statuto della Caritas: organismo pastorale la cui natura è «promuovere la testimonianza della carità» della comunità ecclesiale, ma di una carità da perseguire «in vista dello sviluppo integrale dell’uomo, della giustizia sociale e della pace, con particolare attenzione agli ultimi e con prevalente funzione pedagogica».
Carità e giustizia
Lo stretto nesso tra carità e giustizia rispondeva, anche qui, a una ben precisa indicazione conciliare: della Gaudium et spes n. 69 in cui si afferma che «i beni creati debbono essere partecipati equamente a tutti, avendo come guida la giustizia e come compagna di strada la carità»; e della Apostolicam actuositatem n. 11, secondo cui «siano anzitutto adempiuti gli obblighi di giustizia, perché non avvenga che si offra come dono di carità ciò che è già dovuto a titolo di giustizia.
In senso molto concreto e operativo, la giustizia traspariva da come don Giovanni curava costantemente e scrupolosamente l’impiego corretto, efficace e tempestivo di ciò che la Caritas riceveva per gli interventi di soccorso, aiuto e riabilitazione, soprattutto in occasione delle raccolte a seguito delle emergenze.
Nelle sue Gemme di carità e giustizia (titolo non casuale del «racconto di una vita») ha riferito con precisi dettagli di ripetute tensioni con vari soggetti ecclesiali – da piccole diocesi fino ai vertici della CEI, come pure nei confronti di organismi governativi – per assicurare il buon fine di tutto il denaro offerto, con la preoccupazione di ridurre al massimo le spese di organizzazione e gestione e anche con la denuncia quando succedeva che le somme raccolte stessero ferme per tempi eccessivi allo scopo di lucrare sugli interessi. Anche questo era un modo di affermare la giustizia al servizio della carità.
Il binomio carità-giustizia trovò in lui un felice e coerente sviluppo nell’altro binomio Vangelo-Costituzione: per don Giovanni il cristiano non doveva mai entrare in conflitto col cittadino in termini di diritti (soprattutto dei poveri, degli ultimi) e di doveri, per – sono sue parole – «una disponibilità concreta e permanente al servizio per il bene comune».
Unico conflitto ammesso era quello di coscienza, che portò lui e dietro a lui quasi tutte le Caritas diocesane ad accogliere e formare gli obiettori di coscienza al servizio militare, con un grande investimento formativo sui giovani. Anche questa fu una direzione significativa assunta da don Giovanni, un’autentica carità della mente e del cuore.
La duplice e mai separata attenzione alla carità e alla giustizia, e quindi alla dimensione ecclesiale e a quella civile, fu alla base dell’esperienza avviata in occasione del terremoto del Friuli e portata avanti nelle successive emergenze in Italia: dotare i centri abitati colpiti dal sisma di strutture polivalenti, i Centri della Comunità. Pensati per accogliere non solo le celebrazioni liturgiche e le attività parrocchiali, ma anche come spazio aperto alla comunità civile e alle aggregazioni sociali, incluse – in mancanza di altre sedi idonee – le convocazioni del Consiglio comunale.
La Fondazione Zancan
Se la Caritas, ai vari livelli, è stata per i cattolici italiani un’occasione di dialogo e di collaborazione a tutto campo con credenti delle diverse fedi e con non credenti, uno spazio di accoglienza e di solidarietà senza confini e senza riserve nei confronti di chiunque fosse in condizioni di povertà e di bisogno, l’altro polmone con cui don Giovanni ha «respirato e diffuso carità» è stata la Fondazione Zancan, luogo di incontri ancor più a tutto campo per la riflessione profonda sulle politiche sociali e la tutela dei diritti di tutte le persone, a partire dalle meno tutelate.
Ancora Paolo Doni ha giustamente colto nell’operato della Zancan la cifra del discernimento: «Che cosa è stato ed è ancora il Centro studi E. Zancan a Malosco se non la struttura, lo spazio, il tempo, per fare discernimento? Decine di convegni, incontri, corsi ogni anno con la presenza e l’apporto di persone competenti e responsabili anche di diverse appartenenze socio-culturali e religiose sulle problematiche più attuali e complesse in ogni settore della vita sociale, politica, economica del nostro Paese. Veri esercizi e luoghi di discernimento comunitario, finalizzato al bene comune, al buon funzionamento della vita sociale e degli organismi istituzionali».
Il discernimento
Se discernimento, grazie al magistero di papa Francesco, sta diventando parola-chiave dell’agire ecclesiale, possiamo dire che anche in questo don Giovanni è stato anticipatore e profeta. Discernere è ascoltare, avere pazienza, discutere, pensare e ripensare, dialogare, accogliere, essere disponibili… per farlo servono un grande cuore, una mente lucida e un bel bagaglio culturale sulle spalle. Anche questo è carità, se siamo d’accordo con san Paolo che la CARITÀ è «magnanima, benevola, rispettosa, non orgogliosa, paziente, disinteressata, offesa dall’ingiustizia, lieta della verità e sempre disposta a tutto scusare, credere, sperare e sopportare». Ho forzato la traduzione di qualche parola del testo di 1Corinzi 13, ma, mentre lo rileggevo, non potevo fare a meno di pensare a don Giovanni soprattutto nei suoi momenti di ascolto, di accoglienza e di valorizzazione delle persone, di impegni e presenze sul campo superando ogni ostacolo e ogni fatica… quasi con la tentazione di leggere il suo nome tutte le volte che l’apostolo scrive «carità». Dettato dalla carità era anche qualche suo (più raro) intervento deciso e critico, però mai rancoroso. Sempre allo scopo di affermare il vero e il giusto, da autentico cercatore «delle cose buone o riducibili al bene», come amava dire san Giovanni XXIII.
Parola ed eucaristia
L’inno della carità di Paolo e tanti altri brani della Parola di Dio sono stati davvero «lampada per i suoi passi, luce sul suo cammino».
In tre volumi dal titolo «Il dono del Vangelo, anno A – B – C» la Libreria Editrice Gregoriana raccolse le sue meditazioni sulla Parola della domenica, dopo che erano uscite sul settimanale diocesano. Parola meditata, studiata, gustata, ruminata come dicevano i padri della Chiesa… nuovo padre della Chiesa anche lui, dispensatore generoso e profondo della carità del Vangelo. O del Vangelo della carità.
Accanto alla Mensa della Parola l’altra Mensa, quella eucaristica, per attingere alla carità del dono d’amore del Signore Gesù.
Vado col pensiero a tanti momenti impegnativi e belli vissuti a Malosco, e la memoria di don Giovanni per me è inseparabile dal suo sostare nella cappella all’ultimo piano. Qualche volta provai ad andare su di buon mattino pensando di anticiparlo, ma non c’era niente da fare, lui era già lì, sempre il primo davanti al Tabernacolo. Ma, quando c’era da concelebrare, all’ultimo posto, cedendo sempre a un altro prete la presidenza, il primo posto all’altare.
Quella cappella, sperando di tornarci presto a celebrare una Messa in sua memoria, fu lui a volerla rinnovata a sue spese (a cui si aggiunsero i contributi di altri). Un luogo semplice, dignitoso e bello, adatto al raccoglimento spirituale, con le finestre aperte sui monti ad alleggerire i pensieri e favorire la contemplazione.
Proprio a proposito della contemplazione egli affermava, durante un corso di esercizi spirituali tenuti a Torreglia nel 2007: «Quando si ama molto, le parole vengono quasi a mancare e non si pensa più tanto ai singoli elementi del brano letto e di ciò che abbiamo compreso di noi. Si avverte il bisogno di guardare solo a Gesù, di lasciarci raggiungere dal suo mistero, di riposare in lui, di amarlo come il più grande amico, di accogliere il suo amore».
De caritate Ecclesia
La pratica della carità (sia «carità» che «amore» traducono, in questo e in altri casi, il termine del Nuovo Testamento agàpe), la carità da cui scaturiscono interventi di emergenza e di sviluppo, la carità come attenzione pedagogica e pastorale, la formazione di animatori e volontari nell’ambito della testimonianza della carità e delle pratiche di solidarietà… erano tutti aspetti che avevano bisogno di un adeguato supporto concettuale e da subito don Giovanni, in questa e in tante altre attenzioni sempre in tandem con don Giuseppe Pasini, coinvolse esponenti di primo piano della teologia italiana; uno dei primi fu padre Pelagio Visentin, monaco di Praglia.
In ogni convegno e seminario non mancava mai il contributo di un esperto di teologia biblica, o sistematica, o morale. Ritengo che il coinvolgimento dei teologi abbia raggiunto il livello più alto quando l’ATI dedicò il suo annuale convegno al tema della carità (Trento, 9-13 settembre 1985). Gli atti sono riuniti nel volume «De caritate Ecclesia», nel quale la carità non è trattata come uno degli aspetti applicativi dell’essere cristiani, ma è assunta nella dimensione fondativa. A partire dalla densa relazione fondamentale di don Severino Dianich in cui, a proposito del tema della carità, si registra il passaggio «dalla questione etica alla questione ecclesiologica».
In un importante passaggio il relatore afferma: «l’ipotesi de caritate Ecclesia non si interessa tanto al fatto che la Chiesa derivi dall’amore di Dio e che abbia la missione di svelare e attuare nel mondo l’amore di Dio, quanto piuttosto al fatto che dall’amore di Dio trae quella forma che la fa essere ciò che essa è, che la determina nella sua struttura essenziale».
Credo che non sia fuori luogo affermare, alla luce della riflessione teologica sulla carità, che il pensiero, le opere e tutta la persona di don Giovanni Nervo, fin nelle fibre più profonde, siano state improntate a quello stesso amore.