È la notte dell’11 settembre 1943, un sabato. Don Giovanni Nervo, giovane cappellano di Solagna, nel Vicentino, è chiamato a sostituire il cappellano Bruno Bello, che si è assentato per la morte dell’arciprete Dioniso Artuso: dovrà celebrare la messa della domenica nella chiesetta di San Giovanni, a 1300 metri di quota, sui Colli Alti del monte Grappa. Sono quattro ore di cammino a piedi. Don Nervo parte alle 11 di sera. Lo accompagna un ufficiale medico degli alpini, Vico Todesco, che l’8 settembre è tornato a casa da Pontebba, in Friuli.
Durante il viaggio Todesco si confida: sui Colli Alti ha appuntamento con altri alpini; sta andando a organizzare una banda di resistenti, la prima sul Grappa. «Io ho un giuramento con il re: devo rimanere fedele» spiega al prete.
Da quel giorno, don Giovanni comincia a salire a piedi sui Colli Alti ogni domenica: va a dire la messa; ma non solo. Porta ai combattenti messaggi, viveri, rifornimenti. Nasconde i ricercati. «Celebrai lassù il primo novembre 1943, festa di Ognissanti» ha raccontato. «La chiesetta era strapiena di giovani che erano scappati per non essere costretti ad arruolarsi nell’esercito della Repubblica sociale o essere deportati in Germania. Ricordo ancora quell’omelia in cui con commozione li incoraggiavo alla resistenza».
La sua base ora è Padova, nel Collegio Barbarigo, dove il vescovo Carlo Agostini gli ha dato l’incarico di assistente. In città si lega al cugino di Vico, l’ufficiale degli alpini: si chiama Mario Todesco, è professore al Liceo classico Tito Livio. La sua casa è un centro di raccolta di armi, medicinali, viveri: don Giovanni provvede a farli arrivare a destinazione. «Il 29 giugno, verso le 9 del mattino, venne da me al Collegio Barbarigo il papà di Mario Todesco, Venanzio, professore di filologia romanza all’università. Mi portò il Gazzettino dove c’era la notizia che in via Filiberto era stato trovato il cadavere di un uomo sui 35 anni che aveva i connotati di Mario. Il padre si aggrappò alla speranza che quando il figlio era stato arrestato non avesse il vestito descritto dal giornale, e corse a casa a verificare. Io andai all’obitorio: purtroppo era proprio lui. Fui vicino ai genitori di Mario in quel momento terribile, che mi segnò profondamente. Raccolsi dalla mamma questa espressione: “Offro il mio dolore perché questo possa essere l’ultimo sangue versato”. Poi accompagnai la salma lassù, nella chiesetta di San Giovanni».
L’impegno di don Nervo non si ferma. Ormai è un punto di riferimento dei partigiani cattolici della zona. Nel gruppo ci sono ex militanti del Partito popolare: Mario Saggin, Stanislao Cerchi, Angelo Lorenzi. C’è Lanfranco Zancan, che rappresenta la DC nel comando provinciale del Corpo volontari della libertà. E c’è Luigi Gui, anche lui professore al Tito Livio, che si dedica alla stampa clandestina. Nell’autunno 1944 Gui affida all’amico sacerdote un opuscolo con il programma del gruppo, titolo: Uno qualunque: la politica del buonsenso. Don Nervo con un rudimentale ciclostile ne fa un centinaio di copie e le distribuisce tra i partigiani.
Dopo la guerra, Gui diventerà deputato alla Costituente e ministro, prima di incappare nello scandalo Lockheed, da cui uscirà assolto. Don Giovanni continuerà a occuparsi degli ultimi. Quando nel 1971 papa Montini deciderà di dare alla Chiesa italiana una nuova organizzazione che si occupi dei poveri, chiamerà lui, un semplice parroco di Padova. Il prete partigiano sarà così il fondatore e il primo presidente della Caritas.
da: “Possa il mio sangue servire”. Uomini e donne della Resistenza.