Lo “splendore tutt’intorno”: omaggio a David Lynch
Il 15 gennaio scorso è morto a Los Angeles David Keith Lynch, regista, sceneggiatore, attore, musicista, produttore cinematografico e pittore statunitense.
L’arte secondo Lynch
Nato a Missoula (Montana) nel 1946, Lynch è stato uno tra i registi più importanti e influenti del nostro tempo e, nonostante i suoi film non abbiano riscosso sempre successo immediato al botteghino, la sua visione ha saputo imporsi creando schiere di ammiratori, convincendo critici, dettando un approccio metodologico al lavoro artistico che ha influenzato generazioni di emuli non solo nel campo cinematografico.
Parlare di David Lynch, infatti, significa interrogarsi su che cosa sia l’arte e quale sia il suo scopo oggi. Essa può essere descritta come «un’esigenza assoluta», una richiesta di comprensione profonda che le cose pongono all’individuo e che quest’ultimo, attraverso il lavoro dell’arte, porta alla luce. Questa definizione aiuta a liberare l’arte da un certo immaginario romantico per riportarla a una funzione prettamente operativa.
Per Lynch, infatti, l’arte è in primo luogo lavoro, successione di fallimenti e successi, esperimenti che cercano di mettere in luce immagini dal fondo oscuro dell’inconscio. Le immagini giocano oggi un ruolo fondamentale nell’influenzare le nostre vite, ma bisogna interrogarsi su quale sia la capacità di queste di restituirci la verità delle cose, o meglio, se tali immagini sappiano poi suscitare in noi il desiderio di cercare tale verità dietro di esse.
Lynch è sicuramente andato in cerca della trama nascosta, dell’immagine originaria e sembra aver trovato piacere più nell’atto stesso di questa ricerca che nel raggiungere l’obiettivo. Quale sia la verità o il senso ultimo delle cose per Lynch, infatti, non sembra essere stato l’elemento più importante della sua ricerca, quanto piuttosto il processo teso all’esplorazione di questa verità.
L’interno e l’esterno
Il suo primo lungometraggio contiene già tutti gli elementi che Lynch espanderà e approfondirà nelle pellicole successive. In Eraserhead (1977) emerge il desiderio ossessivo del regista statunitense di mettere in comunicazioni interno ed esterno. Ogni film di Lynch è caratterizzato da questa tensione: la messa in comunicazione di spazi quotidiani e ristretti con ambienti alieni e imponderabili, distanti ma vicinissimi. Spazi che non ci vengono mostrati direttamente ma solo suggeriti, come se Lynch ci rendesse consapevoli della presenza di vaste catene montuose nascoste dalla notte e invisibili all’occhio.
La vita nell’angusto appartamento del protagonista di Eraserhead sembra essere stretta nella morsa di forze cosmiche pronte a fare breccia da porte e finestre, o ancora da dietro un termosifone eletto a passaggio per il mondo pleromatico. E anche se lo stesso Lynch ha definito questo suo primo lavoro «un sogno di cose oscure e ingarbugliate», Eraserhead appare in realtà come un chiarissimo compendio ermeneutico di tutte le pellicole che lo hanno seguito.
Questo rapporto tra stanze d’appartamento – in cui uomini e donne provano piacere e dolore – e l’universo esterno ritorna ad esempio in Velluto blu (1986), una pellicola giudicata scandalosa al tempo dell’uscita e che oggi non ha perso nulla della sua forza. Due giovani ragazzi indagano su un caso misterioso che li metterà a contatto con le forze del male; anche qui l’irruzione di potenze oscure e incontrollabili è suggerito da un elemento semplicissimo ma cruciale: spesse tende vengono mosse dal vento che entra da una finestra aperta.
Lynch riesce a caricare questo dettaglio di una forza estetica che fa da chiave di lettura all’intera pellicola in alcuni momenti cruciali. Gli stretti confini dell’appartamento vengono messi in comunicazione con il mondo esterno, dal quale provengono male, dolore, scelte sbagliate e così via. Finestre aperte su mondi oscuri, passaggi tra la nostra realtà e altri mondi.
Come nella stanza d’albergo di Hotel Room (1993), un film per la televisione in tre episodi ambientati nella camera 603 di un hotel in periodi di tempo diversi. La stanza 603 è descritta come uno spazio millenario che gli uomini hanno catturato e abitato e abitandolo «hanno sfiorato i segreti nomi della verità». Mentre in Mullholand Drive (2001) l’allucinata vicenda di un’aspirante attrice in una Hollywood tetra e abbagliante ruota attorno a un misterioso artefatto, una scatola azzurra che mette in comunicazione passato e futuro, realtà e desiderio, paradiso e inferno.
L’uomo e il suo doppio
Il lavoro di Lynch è distante dalle tendenze del cinema americano, teso a razionalizzare e dare a tutti i costi una spiegazione agli eventi. Lynch non cede a nessuna rassicurazione data da finali organici e razionali; dopo il tour de force allucinato di Strade perdute (1997) continuiamo a essere persi, impossibilitati a trovare la strada di casa, tra mutazioni del corpo, realtà alternative e loop temporali.
Nel cinema di Lynch non esiste la cosa e il suo contrario, rovesci della medaglia che potrebbero aiutare a orientarsi nella complessità di storie folli e surreali: ogni cosa ci viene mostrata dal registra nelle sue diverse versioni, all’interno di realtà che corrono ora parallelamente ora intrecciate. Summa di questo modus operandi è Inland Empire – L’impero della mente (2006), ultimo lungometraggio del regista, centoottanta minuti che sfuggono a qualsiasi catalogazione.[1]
Questo interesse per interno ed esterno, spazio architettonico e spazio cosmico si sviluppa anche attraverso un’altra figura sempre presente nei lavori del regista: l’uomo e il suo doppio. Tutti i personaggi di Lynch sanno in fondo di essere anche qualcun altro, di aver vissuto o voler vivere la vita di qualcun altro, e così il tema del doppio diventa l’incarnazione della tensione cosmica tra dentro e fuori, elemento, questo del doppelgänger (il doppio viandante o gemello maligno) che Lynch svilupperà nella sua forma compiuta nella saga di Twin Peaks,[2] la cui terza stagione (2017), pensata dal regista come un monumentale film di diciotto ore, è considerata unanimemente da critica e pubblico il suo trionfo autoriale.
Solo all’apparenza morboso e senza speranze, il cinema di Lynch celebra l’unione di luce e tenebra, elementi consustanziali alla stessa azione cinematografica: il negativo della pellicola, la luce per rivelarlo. Così per il regista il cinema diventa macchina metafisica per sondare gli abissi dell’inconscio, dove il film ha il solo scopo di mostrare e mettere in successione immagini prima nascoste, ma non necessariamente quello di dar loro ordine e senso.
Al di là di tutte le parole scritte e che ancora verranno dette sul lavoro artistico di questo regista, il cinema di David Lynch è «buio pesto e splendore tutt’intorno».[3] Il resto è silenzio.
[1] Lynch lavora a questo film senza un copione definito, non sapendo di fatto come il film dovrà finire.
[2] Vedi la nostra recensione della terza stagione su SettimanaNews.
[3] Parole di una poesia dello stesso Lynch poste in chiusura del film documentario The life of art (2018).