Papa Francesco ha voluto affidare il Sinodo per l’Amazzonia ad alcuni protettori. Tra questi ha scelto anche il Servo di Dio, Ezechiele (Lele) Ramin, giovane missionario comboniano, ucciso a 33 anni, in Brasile nel 1985. In una lettera al papa, 300 vescovi brasiliani hanno chiesto di riconoscerlo come martire.
Nato a Padova nel 1953 da una modesta famiglia profondamente religiosa, Ezechiele Ramin, aveva un carattere estroverso e di grandi vedute. Fin dalla giovane età, avvertì che un cristiano non può rimanere indifferente davanti ai problemi più dolorosi del mondo, inclusa la fame e le ingiustizie. Un suo ex insegnante lo descrisse come uno che pensava agli altri prima che a se stesso. Era un incorreggibile sognatore, una persona che viveva in solidarietà con tutte le vittime della sofferenza. Non fu perciò una sorpresa quando manifestò alla sua famiglia il desiderio di entrare nell’Istituto dei comboniani per diventare missionario.
Il Brasile fu il suo destino
Ordinato sacerdote il 28 settembre 1980, sognava di andare in Africa, scrive il postulatore per la causa di beatificazione, Arnaldo Baritussio, ma il Signore lo aspettava nella regione settentrionale del Brasile, nello stato di Rondônia, diocesi di Ji-Paraná.
Dopo varie esperienze di carattere formativo, giunse in questa regione dove erano scoppiate delle tensioni sociali dovute alle dispute sul possesso della terra. Nel giugno del 1984, fu destinato alla parrocchia della Sagrada Família de Cacoal.
Lo Stato di Rondônia fa parte della regione dell’Amazzonia dove molte terre venivano accaparrate attraverso documenti fraudolenti. La regione, ricca di diamanti e di minerali, divenne un luogo di corruzione, di violenza, di lavoro di schiavi e di servile sfruttamento, un terreno atto a suscitare dei conflitti tra la popolazione indigena e a sviluppare aggressioni all’ambiente.
Il potere politico non era basato soltanto sul possesso della terra ma anche sulle armi e sulle alleanze tra la polizia e il sistema giudiziario. Le autorità dicevano apertamente di trovarsi in mezzo a una guerra, ingannando la gente e diffamando i capi della comunità.
Quanto fosse grave e pericolosa la situazione, lo descrive anche nel sito internet Antonio Borrelli: «La condizione dei contadini nel vasto Brasile, grande 27 volte l’Italia, nel periodo in cui giunse padre Ezechiele, era drammaticamente ingiusta. Già dal secolo XIX la terra era in mano a pochi proprietari, i quali, senza nessun riguardo per i contadini che le lavoravano da generazioni, continuavano ad impossessarsene con ogni mezzo lecito o illecito. L’1% dei proprietari terrieri, i latifondisti, controllava il 45% dell’intera area rurale del Brasile. Un esempio: 340 proprietari di terre possedevano 50 milioni di ettari, mentre 2 milioni e mezzo di contadini ne possedevano solo 5.
I latifondisti ottenevano gli atti di proprietà rilasciati dal Governo e si presentavano ai contadini per l’espropriazione, e questi non avevano niente in mano per dimostrare che quel pezzo di terra era di loro proprietà da generazioni. Nell’evolversi della situazione politica, la Chiesa si schierò a difesa dei campesinos, sfidando la forza dei proprietari, appoggiati dai pistoleros, uomini armati da loro assoldati. L’esercito non sempre riusciva a intervenire e molti, troppi, sindacalisti, politici, contadini, capi di leghe contadine, sacerdoti e missionari, venivano uccisi per lo più in imboscate, pensando così di stroncare l’opposizione ai loro soprusi. Stragi venivano perpetrate anche fra gli indios, uccisi anche con metodi abominevoli, come lanciando da aerei privati zollette di zucchero avvelenato e i nuovi padroni si dovevano solo preoccupare di bruciare i corpi, per nascondere alle autorità centrali la prova dei loro crimini».
Padre Ezechiele era pienamente consapevole dei pericoli che correva e di ciò che avrebbe potuto succedergli. In un’omelia del 17 febbraio 1985, pochi mesi prima di essere assassinato, aveva detto ai fedeli: «Il padre che vi sta parlando ha ricevuto minacce di morte… Cari fratelli, se la mia vita vi appartiene, vi appartiene anche la mia morte».
Il governatore dello Stato, Jorge Teixeira – scrive il postulatore Arnaldo Baritussio –, diceva che c’era troppa terra per così pochi abitanti indigeni e denunciò alla polizia segreta la predicazione “sovversiva” dei missionari comboniani nel suo Stato. La polizia di solito si schierava con le potenti personalità politiche ed economiche.
FUNAI (organismo governativo che protegge le terre abitate dalle comunità indigene) e INCRA (autorità governativa per l’amministrazione dei problemi relativi alla riforma agraria) erano controllate dai militari. Questi organismi governativi furono denunciati per gli abusi e altri eccessi che commettevano, anziché proteggere le comunità indigene a risolvere i problemi e prevenire la violenza.
In Rondônia c’era un piano per portare a compimento un “massacro pulito” della popolazione indigena. Questo complotto diabolico si serviva dei mezzi più violenti e insoliti per annientare i nativi che avrebbero dovuto cedere le loro terre per lo sviluppo. Rondônia divenne una terra di avidità in cui l’unica legge erano i fucili.
Vero amico e compagno
A Cacoal, l’attività pastorale si articolava attorno alle comunità ecclesiali di base che divennero un osservatorio della realtà locale, attraverso cui p. Ramin entrò in contatto con le famiglie. Lavorando in rete con le comunità, i sindacati e le istituzioni impegnate per la promozione della giustizia, il padre cominciò a usare espressioni come coscientizzazione, liberazione, comunità, solidarietà, giustizia che sconvolgevano il sistema economico.
Anche la sua spiritualità maturò. Prese coscienza e rimase persino scandalizzato della realtà violenta del latifondo: una superficie di terreno in gran parte privata – con i suoi reticolati –, mentre ai piccoli erano lasciate le briciole. Camminando con la gente e lavorando con le comunità, si rese conto che il suo compito consisteva nell’annunciare e denunciare. Diceva: «sono orgoglioso di usare la mia parola oggi per denunciare gli abusi e di riuscire a lavorare e sostenere i movimenti popolari».
Si integrò prudentemente con la comunità di Surui che combatteva per la demarcazione e la difesa dei propri territori. Al capo indio Itabira Surui che aveva messo in guardia Ezechiele dell’incombente persecuzione se avesse cercato aiutare gli indios, egli rispose immediatamente: «Moriremo insieme! Io sono venuto qui dal mio paese per difendere gli indigeni e voglio difendere la loro terra».
Itabira si commuove ricordando quelle parole e aggiunge: «L’unica persona che mi disse la verità è stato lui. Nessun prete aveva un cuore uguale ad Ezechiele».
Padre Ezechiele si unì anche alla piccola lotta dei contadini per un pezzo di terra. «Queste persone sono come dei cagnolini – diceva –, ricevono soltanto qualche osso e io spesso sento un nodo alla gola pensando ai chilometri di siepi filo spinato. Oggi abbiamo una grande quantità di persone escluse: migranti dimenticati negli ospedali, in prigione, negli ospizi, nelle baracche, esclusi dalla vita umana. Come possiamo rimanere indifferenti a tutto questo? Attorno a me c’è gente che muore, il latifundio cresce, i poveri sono umiliati, la polizia uccide e le riserve degli indios sono invase». È bastato questo per attirare l’ira delle istituzioni governative come il FUNAI e dei proprietari terrieri.
Ma Ezechiele non incrociò le braccia né cercò di rifugiarsi in sacrestia. Aveva imparato che il metodo vedere-giudicare-agire doveva essere coniugato con la realtà. Per questo, sostenne anche il sindacato locale degli agricoltori di cui era presidente Adilio de Souza.
Ezechiele, un pastore
Nella sua visita alle comunità, Ezechiele dedicava del tempo alla formazione sociale e all’informazione sui problemi del lavoro e in questo modo avvenne una crescita generale e si creò un’articolazione tra la conoscenza religiosa, l’esercizio dei vari ministeri e il senso di cittadinanza.
La pastorale dei sacramenti, la formazione biblica, la leadership, la raccolta di fondi, la catechesi a tutti i livelli, la fiducia in sé stessi, la salute e la coscienza sociale costituivano parte integrale dell’essere una Chiesa che si ritrovava ogni settimana nelle comunità ecclesiali di base. In padre Ezechiele le persone semplici e sofferenti ma determinate avevano trovato un pastore.
Intanto, all’inizio di gennaio 1985, sorse un problema che stava diventando sempre più serio nella zona di confine tra la Rondônia e il Mato Grosso. In questo luogo abitavano dei piccoli agricoltori minacciati dai possidenti della Fazenda Catuva, un’enorme estensione agricola sui confini con il Mato Grosso, il terzo Stato più grande situato nella parte occidentale del paese.
Sull’orlo di un violento conflitto tra i jugunços (guardie armate) della fattoria agricola e gli occupanti abusivi, egli sentì l’urgente bisogno di farsi mediatore di pace in quel momento di grande tensione.
La situazione era grave, ma la presenza e la parola del prete riuscì a rassicurare il gruppo degli agricoltori. Egli cercò di persuadere anche gli occupanti abusivi ad abbandonare il luogo. Soddisfatto per l’esito delle trattative, riprese la via del ritorno. A una curva della strada, improvvisamente comparvero davanti alla macchina sette jugunços che cominciarono sparare. Egli scese gridando: «Sono un prete! Parliamo». Ma inutilmente perché le pallottole l’avevano colpito a morte all’istante, mentre Adilio, che era con lui, riuscì a fuggire.
Padre Ezechiele – scrive Arnaldo Baritussio – non aveva scelto la violenza e la morte, ma la pace e la vita. Egli prese una posizione radicale di fronte a un conflitto radicale. Diede una risposta a un momento storico terribile che si trovavano a vivere i poveri, le comunità, i migranti e gli emarginati. Fu compassionevole in un universo di sofferenza, di incertezza, di abbandono. Cercò di trasmettere speranza, gioia, fraternità e, nello stesso tempo, perseveranza nella lotta.
Sapeva che il sistema voleva eliminare i profeti perché disturbavano. Il profeta può cadere, essere tolto di mezzo fisicamente, ma la sua voce è quella di una sentinella che continua ad annunciare un giorno migliore.
Questa è la ragione per cui il Sinodo per l’Amazzonia scelse, insieme ad altri, padre Ezechiele come uno dei suoi santi e martiri. Qui troviamo un aspetto particolare di padre Ezechiele. Egli non solo credeva nel necessario adattamento del cristianesimo nell’Amazzonia e perciò nell’indispensabile valore del patrimonio culturale dei popoli indigeni, ma più ancora nell’urgenza di un dialogo fra tutte le realtà presenti nel territorio dell’Amazzonia in vista di una soluzione giusta e dignitosa per il futuro.
Qui troviamo quanto un capo dei Surui ebbe a dire nei suoi riguardi: «Ho notato che il padre amava tutti: coloni e nativi. Non voleva ci fossero attriti tra nativi e coloni. Voleva la pace e l’unità fra tutti. Voleva che ogni persona avesse un posto dignitoso dove vivere. Voleva salvare la vita di tutti, indios e coloni».
Il corpo di p. Ezechiele fu recuperato 24 ore dopo l’uccisione: «Non era stato toccato nulla – scrive Antonio Borrelli nel profilo pubblicato su internet – né addosso al sacerdote, né nella macchina, segno che l’unica finalità degli assassini era quella di eliminare il missionario.
Dopo la cerimonia funebre a Cacoal con la partecipazione di tutti i fedeli della parrocchia, la sua salma sigillata nella bara, fu trasportata prima a Porto Velho, poi a Rio de Janeiro e quindi in Italia.
Il 2 agosto 1985, fu celebrato il solenne funerale nella sua parrocchia di San Giuseppe, a Padova. Durante la preghiera dei fedeli suo fratello Paolo disse: «Per l’onore che hai voluto darci scegliendo in Ezechiele un ministro per il tuo popolo, noi ti ringraziamo, Signore. Sembrava nostro, ma ora capiamo che è di tutta la Chiesa a cui l’abbiamo consegnato. Nel dolore di questa morte, i miei genitori e fratelli ti pregano di usare misericordia verso gli uccisori. Tu ci hai insegnato l’amore e il perdono. Sì, Padre santo, noi non portiamo rancore per gli uccisori. Noi perdoniamo. Tu toccali con la tua grazia. Fa’ che la morte di Ezechiele, pastore del tuo gregge, porti frutti beneficando i suoi campesinos, in modo che essi possano raggiungere una vera dignità di uomini, in un ordine sociale ben più equo e giusto».
Ora attendiamo – conclude il postulatore Arnaldo Baritussio – che gli storici, i teologi, i vescovi e i cardinali della Congregazione vaticana per le cause dei santi valutino la prova del suo martirio e offrano al papa gli elementi per dichiararlo martire e salvi la memoria di tutti coloro che sono caduti mentre lavoravano per la pace e la giustizia.
La fase per la causa della sua beatificazione si è chiusa nel marzo 2017.
Nessun commento