Esce oggi in libreria, per l’editore Àncora, il volume di Riccardo Cristiano Una mano da sola non applaude. La storia di Paolo Dall’Oglio, letta nell’oggi. Ne pubblichiamo qui uno stralcio. La prima presentazione del libro avrà luogo venerdì 16 giugno alle ore 16.30 al Sacro Convento di Assisi, con la partecipazione di fra’ Marco Moroni, Cecilia Dall’Oglio, Giuseppe Giulietti, Asmae Dachan e Stefania Proietti.
Espulso dal regime, sequestrato dall’Isis: il destino del popolo siriano sembra riassunto da quello di padre Paolo. E infatti da allora non si hanno più sue notizie, come dei siriani. Contro ogni apparenza, io sostengo che, dopo le Torri Gemelle, la guerra di Siria ha cambiato il mondo, cancellando il sogno europeo, cioè il sogno della riconciliazione nel rispetto di ognuno.
È per questo che parlare di Paolo Dall’Oglio, il simbolo della riconciliazione negata alle porte d’Europa, sembra un lusso ormai inutile. Per farlo anche in nicchie residuali ci sono pure problemi di forma: meglio farlo al presente o al passato? Non lo sappiamo, nessuno può dire se sia vivo o se invece sia morto.
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Ho sempre temuto che parlarne al passato possa significare abbandonarlo, come abbiamo abbandonato i siriani, o addirittura liberarsi di un peso e gettare la spugna. Eppure, va ammesso che la logica di questa scelta è evidente, ma è altrettanto evidente che chi trova scomodo che ancora lo si ricordi, cioè tutti i responsabili del disastro siriano, vorrebbe che dopo la scelta di parlarne al passato arrivi quella di voltare pagina e parlare d’altro.
Parlarne al presente, d’altra parte, può voler dire rifiutarsi di guardare in faccia la realtà, ma anche rispettare chi non è disposto a dire, senza la prova del nove, «Ei fu».
Di certo chi ha voluto rimuoverlo, dai vivi come dai morti, sa tutto questo. Il suo vero obiettivo è cancellarlo. Per questo la vera priorità per me è parlarne, al presente o al passato. Siccome il tempo è inesorabile e passa, in questo caso segnando che dal suo sequestro sono trascorsi dieci anni, ho scelto controvoglia di parlarne – con dolore – al passato, ma per portarlo con noi, nel presente, non per rinchiuderlo nel tempo in cui è stato visto per l’ultima volta prima di essere inghiottito nel buio.
Come milioni di profughi o esuli o fantasmi siriani, padre Paolo non è cittadino di un tempo finito, per il semplice fatto che la sua vicenda e la sua vita sono immerse nel presente, ci parlano di quel che accade oggi.
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Per cominciare a comprenderlo come cittadino dell’oggi direi che parlarne al passato ne fa un martire della riconciliazione, che per lui è «la religione stessa». Ecco perché partire dalla fine: nella sua ultima scelta che noi conosciamo, tornare a Raqqa per recarsi al quartier generale dell’Isis, c’è l’indicazione di un metodo, avversato o trascurato da molti: fare tutto per la riconciliazione, cioè essere fino in fondo con chi non si capisce, non si vuole o non si può più capire, collante per società che altrimenti perderanno la memoria di sé.
È questa la sola risposta alla domanda di ogni cristiano del suo amato Levante: «Che ci faccio io qui?». È una domanda che in realtà riguarda tutti noi, cittadini del Mediterraneo. La risposta è innanzitutto spirituale e padre Paolo lo ha testimoniato per oltre trent’anni, fino al sequestro.
Da anni provo a immaginarmi i volti di un certo Abu Omar e del jihadista tutto bardato di bombe a mano e kalashnikov che comparvero all’improvviso davanti a padre Paolo. Si era all’inizio di quella che lui ha sempre chiamato «la rivoluzione siriana», non era ancora stato espulso dal regime di Bashar al-Assad. Dall’Oglio chiedeva di rilasciare alcuni ostaggi catturati nei pressi del suo monastero dai jihadisti e deportati lassù, vicino a Qusayr, nei pressi della città sanguinante di Homs.
Dopo infinite peripezie si trovò davanti il capo dei jihadisti della zona, Abu Omar, e il suo guardaspalle. Dall’Oglio aveva attraversato le linee del fronte, aveva visto i cannoni dell’esercito siriano colpire senza sosta, alla cieca, tutta Homs, la città insorta contro il regime, e dopo quei bagliori aveva costeggiato le fosse comuni, in cui erano stati gettati i corpi di migliaia di insorti, spesso disarmati. Padre Paolo aveva una perfetta conoscenza dell’arabo, ma per comunicare con quei due jihadisti cercava un comune linguaggio interiore.
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Il Regno di Dio, aveva scritto pochi anni prima pensando proprio a come parlare con un jihadista, è uno solo. Fu questo il linguaggio che scelse. A un certo punto Abu Omar fece capire che il colloquio era finito e l’uomo iper-armato gli disse: «Tu mi sei entrato nel cuore». Di lì a breve l’ostaggio cristiano che detenevano fu liberato. Io dico che la storia di padre Paolo sta qui, cioè in quel proverbio arabo che mi ha insegnato dieci anni fa: «Una mano da sola non applaude».
Nonostante la nostra breve ma intensa amicizia, non mi sento di chiamarlo Paolo, come a dire il vero è sempre stato tra noi, ma abuna Paolo, padre Paolo, come tanti siriani, suoi amici molto più di me. Io non sono uno dei tanti amici di vecchia data di Paolo Dall’Oglio; lo conosceva mezzo mondo, io no.
Le prime volte che ho parlato con lui, al telefono, risalgono al 2011. Ma, come all’accompagnatore in armi di Abu Omar, anche a me è bastato poco per dirmi: padre Paolo mi è entrato nel cuore. Perché? Per lo stesso motivo di quel miliziano, suppongo. Nulla ci univa irreparabilmente, ma lui ha trovato subito il linguaggio giusto per stabilire tra noi una relazione profonda.
Quel suo parlare di doppia appartenenza islamo-cristiana «fondata e centrata sulla relazione originaria in Gesù e nella sua Chiesa» – ricordando il «fratello universale» preconizzato da Charles de Foucauld e san Paolo con il suo «mi sono fatto tutto a tutti» – mi ha fatto percepire che la sua duplicità avrebbe saputo aiutarmi, riguardare la mia ricerca, il mio porto possibile. Perché anch’io sono innamorato dell’islam?
No. Mi ha riguardato l’universale duplicità dell’uomo che lui non nascondeva, ma proclamava: era un mistico ma con l’urgenza del fare sociale, un credente in Gesù ma un innamorato dell’islam, un uomo che nella collera trovava l’energia per accendere la luce. Queste duplicità lo hanno reso per me una calamita: è il «ma» che mi ha riguardato, coinvolto. Ci siamo frequentati soltanto per un anno, trecentosessantacinque giorni, forse qualcuno di meno in realtà. Quell’anno per me ha il titolo di un film: «tutta una vita».