Paolo Prodi: la storia, luogo teologico

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Paolo Prodi

Paolo Prodi (1932 – 2016)

Lo scorso 21 aprile, dopo la celebrazione eucaristica in Cattedrale presieduta dall’arcivescovo mons. Matteo Zuppi, si è svolto a Bologna nella sala S. Clelia dell’arcivescovado un seminario introduttivo di studi su «Il contributo di Paolo Prodi alla comprensione della Chiesa e della Chiesa di Bologna». Curato e moderato da Fabrizio Mandreoli (Facoltà teologica dell’Emilia-Romagna), il seminario ha voluto essere sia un riconoscimento da parte della Chiesa locale della figura di Paolo Prodi e del significato della sua ricerca storica, sia l’occasione di una prima memoria che aprisse alcune piste di indagine per il rilievo che essa continua ad avere per la cultura europea e la Chiesa. I tratti di gratitudine personale e quelli che hanno messo in luce gli snodi maggiori che la ricerca di Paolo Prodi lascia all’intelligenza dell’accademia e della fede, si sono uniti armonicamente tra di loro nel corso dei vari interventi alla presenza di un folto pubblico. Le brevi relazioni su cui si è intessuto il seminario sono state tenute da Miriam Turrini (Università di Pavia), Giandomenico Cova (Facoltà teologica dell’Emilia-Romagna), Matteo Prodi (Facoltà teologica dell’Emilia-Romagna), Matteo Zuppi (arcivescovo di Bologna), Marcello Neri (Università di Flensburg) e Piero Stefani (Facoltà teologica dell’Italia settentrionale). La ripresa dell’opera di Paolo Prodi vede impegnata in questi giorni anche l’Università di Bologna, in particolare con l’organizzazione di un primo Seminario di alti studi Paolo Prodi su «1517. Le università e la Riforma» (4-5 maggio, qui il link al programma). Tema a cui Paolo Prodi ha dedicato il suo ultimo scritto «Europe in the Age of Reformations: The Modern State and Confessionalization» (The Catholic Historical Review, 1 [2017], 5-23; una versione leggermente abbreviata è stata pubblicata in italiano su Il Mulino, 1 [2017], 7-23).

Per lungo tempo il rapporto fra la ricerca storica di Paolo Prodi e la teologia cattolica è stato prevalentemente a senso unico. Ossia, mentre la teologia sembrava rimanere ignara o disinteressata agli esiti della sua indagine, Prodi è stato, fin dagli inizi del suo percorso accademico, lettore e interprete attento dei testi teologici. Considerandoli e integrandoli, con pari dignità, alle altre fonti che costituivano il tessuto organico delle sue opere maggiori.

Nonostante questa mancata reciprocità, Prodi ha sempre guardato alla teologia come una disciplina che andava oltre l’esclusivo ambito ecclesiale e la formazione del clero. Cogliendola come parte integrante di quella dialettica fra il religioso e il politico intorno a cui si andava giocando la questione del potere nella genesi della modernità europea. Sempre con fedeltà e rigore storico, egli si è impegnato per il debito inquadramento della produzione teologica nei contesti e nelle questioni in cui essa si inseriva e a cui cercava di dare una risposta. In tal modo, Prodi ha reso un onore alla teologia sostanzialmente senza pari, almeno per quanto riguarda il mondo accademico italiano.

Nella sua lunga stagione, ha sempre desiderato un dialogo e un interesse critico da parte dei teologi e delle teologhe, nonostante costoro spesso non sembrassero percepire il rilievo della sua ricerca per la propria disciplina.

Qualcosa è cambiato dopo la pubblicazione di Settimo non rubare (2009). Questo volume ha risvegliato dal sonno di una lunga dimenticanza soprattutto l’ambito della teologia morale – più immediatamente coinvolta nel tema del libro. Eppure gli spunti per far entrare l’opera di Prodi nel campo di percezione della teologia erano presenti e disseminati da tempo; probabilmente fin dagli inizi, caratterizzati da intense letture teologiche proprio in vista della sua formazione di storico.

Teologia e storia: un incontro mancato

Basterebbe guardare agli ultimi due capitoli di Una storia della giustizia (2000, pp. 391-485) per accorgersi dell’urgenza teologica che la storia andava ponendo davanti al sapere cristiano della fede. La giuridizzazione della coscienza, che sostituisce la qualità morale della sua attuazione concreta, è questione prettamente teologica che interessa il destino stesso dell’uomo europeo.

Prodi apriva così lo spazio per una teologia che si facesse carico di pensare, in una nuova stagione dell’umano, il meglio dello spirito europeo: «Con l’avvento della norma ad una dimensione viene meno il respiro che, con tutte le sue contraddizioni, ha prodotto la nostra società e la ha dato il soffio della vita: il respiro normativo (dentro/fuori) tra il mondo interno ma collettivo (non privato) della norma morale e il mondo estero del diritto positivo che ha caratterizzato la nostra vita e ha reso possibile la crescita liberale e democratica durante tutti questi secoli e che è l’unico che può permettere la sopravvivenza della nostra identità collettiva come uomini occidentali» (Una storia della giustizia, 484).

Nonostante l’imprevisto fuoco di paglia accesosi nel solco delle indagini sulle condizioni storiche della genesi del mercato come terza forma di declinazione del potere, la teologia, a parte qualche eccezione, sembra continuare a non sentire la necessità di ritrovarsi nelle pieghe delle sue opere. Né ha ritenuto opportuno confrontarsi con la critica che Paolo Prodi le ha mosso in tempi recenti, indicandola come la grande assente e silente nel dibattito contemporaneo su questioni decisive concernenti l’umanità dell’uomo europeo (cf. Lessico per un’Italia civile, 277-284). Questione imprescindibile, a dire il vero, per la teologia di una religione storica che ha il suo differenziale maggiore nell’incarnazione di Dio, nel passaggio evenemenziale e irrevocabile del codice del nome di Dio alla fattualità storica di un concreto e singolare vissuto umano.

In cerca delle ragioni

È chiaro che, da storico, Prodi sentiva l’esigenza di cercare le ragioni di questo dialogo mancato con la teologia; uno spazio rimasto vuoto nel suo interesse focalizzato sulla genesi costituzionale, in senso ampio, delle istituzioni portanti della modernità europea. Come sempre, lo ha fatto senza alcun risentimento, ma per comprendere. Appunto, per capire il perché dell’assenza della teologia cattolica negli snodi vitali del contemporaneo in cui si decide del destino di quell’umanesimo di cui l’Europa è stata l’artefice più fine.

Dire Europa significa dire, anche e inevitabilmente, il cristianesimo quale forza culturale che ha posto al centro delle vicende dell’Occidente la questione della salvezza come salvezza del vissuto concreto, fattuale, storico, di ogni singolo essere umano. Universalizzando così il concetto di storia della salvezza ancorandola alla storia comunemente umana.

Questo gesto del cristianesimo, secondo Prodi, rappresenta la matrice profonda della genesi della modernità europea. Come se quest’ultima non potesse essere adeguatamente compresa senza una chiave di lettura propriamente teologica. Di questo, da ultimo, la teologia cattolica non è stata capace nella misura inscritta nella pretesa della sua impresa – mancando, in fin dei conti, proprio se stessa.

Prodi ha individuato i motivi storici di questo difetto della teologia rispetto alla genesi della modernità, proponendoli a un auditorio teologico nel suo intervento al III Convegno della Facoltà teologica dell’Emilia-Romagna (2008). Un convegno che si mosse fra vari luoghi della città di Bologna: dal Seminario, sede della Facoltà, all’Aula magna del dipartimento di arti visive dell’Università, fino alla sala concerti del Conservatorio. Per cercare di raccogliere simbolicamente la circolazione pluriforme e le dialettiche che hanno contribuito a dare forma alla matrice culturale dell’Europa.

Melchior Cano: l’anticipo della teologia sulle scienze naturali

Il luogo germinale di un’impresa teologica, che si smarrì quasi prima di nascere, viene colto nell’opera metodologica di Cano. Con essa, secondo Prodi, si afferma, «contro l’opinione dominante, che la storia umana non è solo utile, ma necessaria al teologo» (Profezia vs utopia, 219). Incipit di una vera e propria rivoluzione copernicana nel cuore della teologia cattolica.

«Partire dalla terra costruendo il discorso sui testi, usando tutte le nuove acquisizioni del metodo storico-filologico che si era sviluppato da Lorenzo Valla ad Erasmo in poi, per ricostruire, contro le eresie dei riformatori, una teologia speculativa capace di assorbire la modernità; ogni operazione di conoscenza è basata sulle autorità e sulla ragione» (Profezia vs utopia, 217-218). La teologia si trovò così, per un attimo, in anticipo di mezzo secolo rispetto all’evoluzione moderna della scienza naturale (Galileo); ma non fu capace di affermare la potenza di questo vantaggio davanti alle ragioni apologetiche dell’istituzione ecclesiale – chiamata a fronteggiare la modernità politica e l’alternativa della Riforma protestante.

Già con Francisco Suarez la teologia cattolica si era assestata su ben altri accordi, ponendo una sorta di primato della ragione metafisica astratta che prescindeva dal vissuto di Gesù per definire l’idea di Dio e la questione della verità. Rendendo, in tal modo, da ultimo teologicamente irrilevante la storia dell’umano che vive concretamente (anche quello del Dio che si fa carne), e riducendo l’intuizione di Cano a semplice proforma.

Questo riassestamento, dopo la rivoluzione di Cano, rimase però l’asse portante di tutto il pensiero filosofico dell’Europa moderna, che da Tommaso, passando per Suarez stesso e Cartesio, conduce fino alle tre critiche di Kant. Segnando così, per le generazioni a venire, l’egemonia del trascendentalismo teorico sulla singolarità del trascendentale storico-concreto, istruita in maniera inedita e indeducibile nel pensiero dell’Occidente dal passaggio di Dio alla carne-storia nella vicenda umana di Gesù.

La grande separazione

Al predominio dell’impianto teorico-astratto di Suarez sulla metodologia (storica) di Cano corrispose quella che Paolo Prodi ha delineato come «la separazione della storia “sacra” dalla storia “profana”: la riflessione sulla storia dell’uomo come storia della salvezza viene definitivamente scissa in storia profana da una parte e storia sacra dall’altra» (Profezia vs utopia, 230). Aprendo così la porta a una doppia e irriconciliabile cittadinanza del medesimo soggetto credente che vive concretamente.

Una religiosa e una secolare, dialettiche fra di loro ma, alla fin fine, non conciliabili nello spazio dell’unico vissuto di cui l’umano dispone. Nel corso della modernità la dialettica tiene, anche fecondamente, sul piano delle istituzioni, ma si risolve in contraddizione insostenibile su quello dei vissuti umani personali nella socialità comune a tutti noi.

È interessante notare il fatto che Prodi abbia deciso di inserire questo saggio nel volume dedicato a trattare del rapporto fra profezia e utopia. Ed è all’incrocio di queste due figure che mi sembra egli desiderasse collocare la visione di una teologia a venire dopo la fine della modernità. Ma prima di toccare questo argomento, una breve digressione rispetto al congedo dal carattere profetico della teologia, nel suo divenire mero specchio del magistero dell’istituzione ecclesiale.

Scegliendo di rinunciare alla storia umana come suo luogo, la teologia abdica anche dal proporsi come istanza profetica che si colloca tra l’istituzione della religione e quella della politica rispetto alla configurazione del potere. Così facendo essa si preclude, fin dagli inizi del moderno, la possibilità di essere soggetto autorevole e plausibile in quello spazio che, poi, andremo chiamando opinione/dibattito pubblico. Fatto che Prodi ha indicato come l’assordante silenzio dei teologi in tempi recenti, intorno a questioni che riguardano i fondamentali umanistici dell’uomo occidentale.

Fagocitata, anche per sua libera scelta, sul versante della storia sacra, irrelata all’effettiva vicenda dell’umano comune che vive concretamente, la teologia si è preclusa la possibilità di essere istanza efficace all’interno dello spazio pubblico europeo. Sulle questioni lì trattate la teologia sicuramente parla, ma lo fa da ultimo rivolgendosi meramente a se stessa – in un discorso separato, e protetto, che non ha più destinatari reali. Incapace di fare proprio quel “lessico civile” che la proietterebbe oltre una narcisistica auto-referenzialità, la teologia non è diventata solo silenziosamente assordante, ma anche insopportabile per lo stesso orecchio di una fede che non è più nella condizione di poter vivere nel lusso di una doppia e scissa cittadinanza.

Chiesa e Università di Bologna

Alla teologia Paolo Prodi ha dato molto, anche se qui poco si è potuto dire. Non fosse altro perché non l’ha mai persa di vista nella sua genetica storica della singolarità dell’Occidente europeo. Attraverso le sue opere e la sua attività di docente l’ha fatta circolare come nervatura culturale del nostro continente ben oltre i confini del nostro paese. Proprio in questo consiste il suo contributo teologico, da storico, alla Chiesa di Bologna.

Per chi ha voluto, è stato ascoltatore dialogante – disponibile e intrigante. Credo non solo per me, qui tra noi, una paternità amica. Ai teologi e alle teologhe che lo hanno conosciuto e hanno lavorato con lui lascia, però, un compito ben più esigente che una semplice memoria grata. Lo lascia anche alla teologia italiana e alla Chiesa di Bologna.

Un compito che, per coerenza interna alla sua ricerca storica, chiama in causa due istituzioni bolognesi: quella ecclesiale, appunto, e l’Università. Perché è solo nell’intreccio di queste due istituzioni, se ne avessero l’intelligenza e il coraggio, che si può raccogliere culturalmente il profilo teologico inscritto nel magistero storico di Paolo Prodi. Rifacendo della teologia un’istanza profetica nello spazio pubblico e civile, quale forma critica di giudizio della dialettica tra il religioso e il politico nella stagione in cui essi vengono ridefiniti e assorbiti nell’impero assolutistico, invisibile e incollocabile, del potere della finanza e delle sue transizioni algoritmiche.
Se a Bologna Chiesa e Università volessero onorare quello che Paolo Prodi è stato per loro, dovrebbero essere all’altezza di abbattere il muro della loro separazione – già caduto nella realtà di tutti i giorni oramai da tempo. Ossia dovrebbero pensare insieme a una cattedra Paolo Prodi di teologia in seno all’Università.

Cattedra dedicata a elaborare una teoria critica teologica dell’umano contemporaneo che vive concretamente, nelle sue dimensioni culturali, civili, sociali, e in quello che rimane di quelle istituzionali. «Il compito del pensiero teologico non è certo quello di difendere una modernità che scompare, ma di cercare di comprendere cosa della modernità possiamo portare nei tempi nuovi, nei nuovi territori ancora inesplorati in cui ci addentriamo» (Profezia vs utopia, 239).

In una stagione in cui l’università stessa, come corporazione autonoma dei saperi, è sempre più asservita alle logiche sacrificali del nuovo potere che ha scalzato e inglobato il politico e il religioso, amalgamandoli in una miscela letale per l’umanesimo dell’Europa, la presenza al suo interno di un’istanza profetica della «alterità radicale della Parola rispetto alle strutture di potere che caratterizzano i percorsi» odierni della nostra civiltà e delle potenze che la minacciano (Profezia vs utopia, 239), è una sapienza a cui l’Università (e con essa la Chiesa di Bologna) può solo stoltamente rinunciare.

P. Prodi, Una storia della giustizia. Dal pluralismo dei fori al moderno dualismo fra coscienza e diritto, Il Mulino, Bologna 2000.
P. Prodi, Lessico per un’Italia civile (a cura di P. Venturelli), Diabasis, Reggio Emilia 2008.
P. Prodi, Settimo non rubare. Furto e mercato nella storia dell’Occidente, Il Mulino, Bologna 2009.
P. Prodi, Profezia vs utopia, Il Mulino, Bologna 2013.

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