Le esequie del vescovo si sono celebrate il 5 ottobre a Syros, dove risiedeva. Era nato il 5 dicembre 1936 e fu ordinato prete il 29 aprile 1962. Fu eletto vescovo il 27 giugno 1974 e consacrato il 20 ottobre dello stesso anno. Aveva fatto i suoi studi a Palermo e apparteneva all’ordine dei cappuccini.
Schietto e sagace
Uomo sincero, schietto, sagace. Memorabili i suoi interventi nei vari sinodi, ai quali prese parte. Indimenticabile la sua lettera aperta ai quattro cardinali che espressero i primi dubia sul magistero di papa Francesco (Brandmüller, Burke, Caffarra e Meisner), pubblicata nel novembre del 2016 sulle pagine del nostro blog (qui).
Dal maggio 2004 all’11 novembre 2016 presiedette la Conferenza episcopale, chiamata Santo Sinodo dei vescovi cattolici di Grecia.
Era vescovo di Syros e di Santorini e amministratore apostolico di Creta. Era animato da un profondo attaccamento alla Chiesa di Roma e aveva uno spiccato senso di appartenenza alla Grecia.
Gli chiesi, sul finire del XX secolo, quali fossero, a suo parere, i punti fermi per un giusto ecumenismo. Allora non condivideva del tutto la linea del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani (ex Segretariato, ora Dicastero per la promozione dell’unità dei cristiani).
Mi rispose che bisogna, prima di tutto, «puntare sulla reciproca conoscenza. Le due Chiese, la cattolica e l’ortodossa, non si conoscono ancora abbastanza, e poi non fare concessioni senza un precedente dialogo e intesa. Esigere quindi la reciprocità, mai un ecumenismo unilaterale. E, da ultimo, dare informazioni obiettive».
Chiedeva da anni alle varie Conferenze episcopali europee personale e mezzi. Giustificava la richiesta perché nella sua diocesi di quattordici isole, eccetto a Santorini, Syros e Creta, i tantissimi turisti non avevano la possibilità di trovare luoghi di culto della Chiesa cattolica sia per la celebrazione dell’eucaristia sia per gli incontri. Diceva con tono risoluto: «Le Conferenze episcopali europee concedono luoghi di culto ad altre confessioni e perché da noi non c’è la reciprocità? La chiediamo alla Chiesa ortodossa».
Era quasi ossessionato che la Chiesa cattolica, con i suoi vari riti, non riuscisse ad affrontare le nuove situazioni. Mancava, a suo parere, uno sguardo lucido sul futuro. L’aumento del numero dei cattolici dovuto all’afflusso degli stranieri non portava a prendere in considerazione che il volto della Grecia classica stava cambiando.
Vogliamo essere greci e cattolici
Numericamente era, negli anni ’90, una Chiesa di circa cinquantamila fedeli. Ora, su una popolazione di oltre dieci milioni di abitanti, i cristiani sono l’88% e i cattolici lo 0,70%. Le parrocchie sono quasi un’ottantina e i presbiteri circa un centinaio, i seminaristi una ventina. Si è elevato anche il numero dei religiosi e delle religiose.
La comunità cattolica si aggira sulle 200.000 unità per la presenza di cattolici stranieri, soprattutto albanesi. «Questo comporta molte conseguenze. C’è il pericolo – mi diceva Papamanolis – che si perda l’identità religiosa di essere greci e cattolici, che vivono in un ambiente dove predomina la Chiesa ortodossa. Come Chiesa locale, con tutto il rispetto dovuto alla Chiesa sorella, non senza sacrifici e con molte difficoltà, in un passato non lontano, abbiamo rivendicato il diritto di vivere da cattolici nella nostra patria, diritto che non ufficialmente, ma in pratica spesso non ci viene riconosciuto a causa del forte legame che esiste fra ellenismo e ortodossia. È un diritto che, come Chiesa cattolica, riconosciamo perché, volendo essere oggettivamente sinceri, se la nazione greca sussiste tuttora, lo si deve alla Chiesa ortodossa, che durante i quattrocento anni di dominazione turca, ha mantenuto in Grecia il credo cristiano, la lingua greca, le tradizioni e tutto quello che, in una parola, viene chiamato cultura greco-cristiana. Ora la presenza di una massa di cattolici stranieri in Grecia mette in pericolo ciò che abbiamo acquistato finora e ci troveremo nella situazione di essere considerati stranieri nella nostra patria, una volta che i cattolici saranno per la maggior parte stranieri».
Mi accennava ad alcune esigenze particolari: la necessità di avere nuovi luoghi di culto e strutture adeguate; il bisogno di un maggior numero di ministri di culto e di laici; la comunicazione mediatica delle varie esperienze.
Nei nostri frequenti incontri sottolineava che entrambe le Chiese devono affrontare il fenomeno della secolarizzazione. Mi citava sempre il convegno dei giovani, che si tenne nell’isola di Tinos nell’agosto del 1985, i quali dissero ai loro vescovi: «Meno opere murarie e più attenzione all’uomo», un’esigenza fatta propria dai vescovi, preoccupati giustamente dell’ignoranza religiosa.
No all’ecumenismo «baci e abbracci»
Papamanolis criticava spesso l’ecumenismo di «soli baci e abbracci», portato avanti da Roma, che ora appartiene al passato. Basti pensare alle parole che un ex arcivescovo di Atene, rivolse al card. Willebrands: «La Chiesa ortodossa greca vede con diffidenza ogni passo ecumenico: diffidenza che esiste ancora perché la Chiesa ortodossa greca vede un’eventuale unione con Roma come una dominazione di Roma, del papato, sulla Chiesa orientale. Teme di perdere la sua autonomia, la sua indipendenza». Affermazione che poggiava, per la verità, su una relazione che la delegazione della Chiesa ortodossa greca presentò al Sacro Sinodo il giugno 1984 sui rapporti con la Chiesa cattolica.
Due i punti significativi: il patriarcato ecumenico di Costantinopoli, spogliato d’ogni potere, lotta in condizioni impari con il potente Vaticano; la metodologia del dialogo è a svantaggio dell’ortodossia e a vantaggio del cattolicesimo romano.
La conclusione: «Oggetto delle discussioni – sottolineava il rapporto – non dev’essere solo ciò che ci unisce, ma anche ciò che ci divide». Basta, quindi – sosteneva Papamanolis – con l’ecumenismo «baci e abbracci».