Paulo Freire, a cent’anni dalla nascita

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«Non è possibile stare nel mondo senza fare storia, senza essere da essa plasmati, senza fare cultura, senza “trattare” la propria presenza nel mondo, senza sognare, senza cantare, senza fare musica, senza dipingere, senza prendersi cura della terra, delle acque, senza usare le mani, senza scolpire, senza fare filosofia, senza punti di vista sul mondo, senza fare scienza, o teologia, senza timore davanti al mistero, senza imparare, senza insegnare, senza idee di formazione, senza fare politica».

Cent’anni fa nasceva Paulo Freire (Recife, 19 settembre 1921), pedagogista e teorico dell’educazione. Settantacinque anni dedicati “agli straccioni di ogni parte del mondo” per liberarli dall’oppressione attraverso l’educazione, intesa come pratica di libertà: idee maturate attraverso l’esperienza in Pernambuco, regione del Brasile che all’epoca aveva quindici milioni di analfabeti (su una popolazione di 25 milioni), approfondite durante la prigionia politica e l’esilio.

Freire risveglia negli oppressi la coscienza del proprio valore, mette a punto un rivoluzionario metodo psicosociale e lo sperimenta sul campo: nel 1962, in soli 45 giorni, alfabetizza trecento tagliatori di canna da zucchero ad Angicos, nello stato di Rio Grande do Norte.

È un risultato sorprendente e il ministro dell’Istruzione lo chiama a coordinare il programma di alfabetizzazione nazionale, avviato nei primi mesi del ’64: con l’appoggio del governo, delle correnti politiche di sinistra e della Chiesa, nascono più di ventimila nuclei di alfabetizzazione in tutto il Paese, una rivoluzione senza precedenti.

Gli educatori entrano nel mondo e nel linguaggio degli studenti e trovano con loro le parole generatrici – ad esempio, favelas – in grado di esprimere emozioni e realtà del quotidiano, in modo che, discutendo di quelle parole, gli allievi possano riconoscere la loro stessa vita; scomponendole e ricomponendole, trovano i fonemi fondamentali della lingua, con cui poter poi formare tutte le altre parole. Si costruisce così un percorso di apprendimento basato sul dialogo, inteso come strumento conoscitivo reciproco.

Il metodo Freire insegna agli adulti a leggere e scrivere in 40 ore (“chi ha fame ha fretta”, diceva), ma soprattutto a capire meglio il mondo, partendo dalla constatazione che un analfabeta che non conosca le ragioni del suo analfabetismo, anche se comincia ad acquisire nozioni, ritornerà all’analfabetismo: per questo l’educazione è anche educazione politica.

Ma alfabetizzare gli adulti significa anche far conquistare loro il diritto al voto. E così, nonostante il fondamento francescano, la sua pedagogia è ritenuta eversiva e, dopo il colpo di stato militare del ’64, Freire finisce in carcere per settanta giorni. Il nuovo governo abolisce il suo metodo educativo.

Dopo la prigionia, il pedagogista va in esilio in Bolivia, e poi, a causa del colpo di Stato, in Cile, dove lavora per cinque anni presso l’Istituto cileno per la Riforma Agraria e concepisce la sua opera più nota, la Pedagogia degli oppressi (1968), tradotta in più di 20 lingue ma pubblicata in Brasile solo nel ’74. Nel ’69 gli è offerto un posto di visiting professor all’Università di Harvard, in seguito lavora a Ginevra come consigliere educativo speciale del Consiglio Ecumenico delle Chiese e quindi si occupa della riforma educativa nelle colonie portoghesi in Africa, in particolare in Guinea Bissau e Mozambico, dove, per dieci anni, lavora all’educazione alla libertà dopo il colonialismo e scrive Pedagogia in cammino, lettere dalla Guinea.

La figura di Paulo Freire non può essere scollegata dalla realtà del Brasile a partire dagli anni Sessanta, dalle comunità di base e dal concetto di coscientizzazione. La sua esperienza umana, educativa e pedagogica prende le mosse da un’esigenza imprescindibile di concretezza, dalla necessità di un rapporto stretto e vitale con la realtà, fatto innanzitutto di ascolto, attenzione, conoscenza.

Il suo lavoro fonda la pedagogia critica e contribuisce a una filosofia dell’educazione ispirata a Platone tanto quanto ai pensatori moderni marxisti e anticolonialisti. Di fatto, la “pedagogia degli oppressi” può essere letta come uno sviluppo de I dannati della Terra di Frantz Fanon, che poneva una forte enfasi sulla necessità di fornire ai popoli nativi un’educazione che non fosse semplicemente un’estensione della cultura del colonizzatore.

L’educazione è concepita per la liberazione, come prassi trasformatrice, un atto organizzato collettivamente. Freire sottolinea la differenza fra prendere coscienza (atto intellettuale) e coscientizzazione (che implica un coinvolgimento più profondo). Autentico umanista, insiste sulla necessità di una nuova razionalità bagnata di emozioni, su una concezione della conoscenza che non separi aspetti cognitivi e affettivi. Per questo l’educazione deve partire da una migliore conoscenza di ciò che già sappiamo, leggendolo non solo con gli occhi, ma con tutti i sensi: si tratta di conoscere per cambiare, aprendo la strada a una società della cittadinanza, aperta, libera.

Freire denuncia a più riprese “la realtà brutale” in cui l’autentica vocazione umana viene negata nell’ingiustizia, nello sfruttamento, nella violenza degli oppressori, in cui prevale a volte un ordine ingiusto, altre volte la “falsa generosità, che si alimenta con la morte, lo scoraggiamento e la miseria”, altre ancora “il potere invisibile dell’addomesticamento alienante”, la “burocratizzazione della mente”, uno stato di estraniazione, di conformismo dell’individuo, di accomodamento. Comunque, l’errore e l’ingiustizia fondamentale consistono nel vivere la realtà come fatalità, nel guardare “ai fatti come a qualcosa di già consumato, come a qualcosa che è successo perché doveva succedere”, alla “storia come determinismo e non come possibilità”.

All’interno di un regime basato su rapporti di forza, Freire individua i processi di disumanizzazione e prescrizione: la prima riguarda la violazione dei diritti, l’ingiustizia sociale, la fame e la negazione di accesso alla conoscenza, mentre la seconda concerne l’introiezione dei valori degli oppressori, al punto che la percezione di cambiamento è intesa nello svoltare da oppresso in oppressore.

Al fine di contrastare i primi due processi, Freire introduce il concetto di “inserzione critica”, fondata sulla presa di coscienza della condizione di uomo come tale e non come cosa o strumento, e sull’educazione problematizzante, intesa come dialogo.

A questo tipo di educazione Freire contrappone quella che definisce “educazione depositaria” (oppure bancaria), così definita perché l’intervento educativo diventa un atto del depositare (come nelle banche), dividendo rigidamente le persone tra coloro che sanno e coloro che non sanno: ai primi spetta comunicare agli altri il frutto del loro sapere, trasmettere loro la sicurezza che credono di possedere, insieme alle norme di comportamento; dai secondi si pretende l’umiltà di imparare, obbedire ed eseguire quanto viene loro detto.

Tale visione, secondo Freire adottata da ogni tipo di dominatore, lascia il mondo esattamente come lo trova, perché riduce l’uomo a un mero esecutore di ordini. L’“educazione depositaria” perpetua e aggrava l’opposizione oppressore-oppresso, facendosi paladina di una concezione del sapere, della scienza, della storia in possesso soltanto di alcuni, mentre gli altri, la maggioranza, vengono alienati in una condizione di minorità e di ignoranza. In questa “cultura del silenzio”, gli uomini, ridotti al mutismo, all’analfabetismo cronico, rimangono “semplicemente nel mondo, e non con il mondo e con gli altri. Uomini spettatori e non ri-creatori del mondo”.

L’analfabetismo – l’essere senza parola – è una piaga culturale, la cui componente più grave è proprio il mutismo globale di chi non possiede lo strumento essenziale, la parola autentica, che gli permetta di “leggere” il mondo e la storia e di “scrivere” con le proprie mani e con la propria azione qualcosa di nuovo, che contribuisca a dare un nome al mondo stesso: “Se il parlare autenticamente, che è lavoro, che è prassi, significa trasformare il mondo, parlare non è privilegio di alcuni uomini, ma il diritto di tutti gli uomini”.

L’educazione comincia dalla consapevolezza che cambiare è difficile, ma è possibile, dalla fattiva sostituzione della “ribellione come denuncia” alla passiva rassegnazione: io, essere umano, “ho il diritto di provare collera, di manifestarla, di averla come motivazione per la mia lotta”. Il metodo di questa “lotta” è soltanto l’educazione autentica, dialogica, democratica, e sue dimensioni esistenziali imprescindibili sono la ricerca e la curiosità, il continuo porsi domande e cercare risposte, in particolare rispetto alla propria realtà di uomini.

In questa prospettiva l’educazione, chiamata a non essere sterile e a-storica ma ad entrare criticamente in dialogo costruttivo con la realtà, con la cultura, non può non farsi “educazione politica”, impegno attivo di ciascuno a “partecipare”, a essere attore protagonista di cambiamento del mondo che gli viene consegnato: gli uomini sono tenuti, attraverso essa, a superare la “schizofrenia storica” che li vuole assenti dal mondo e ad essere veramente “bagnati di realtà”.

Nel 1980, Freire ritorna in Brasile e ricomincia a studiare per cogliere i cambiamenti nel suo Paese. Diventa supervisore per il programma di educazione degli adulti, riceve il premio Unesco per la pace e 29 Paesi in tutto il mondo gli conferiscono la laurea honoris causa. Nell’88 diventa assessore all’educazione nel Comune di San Paolo, mettendo in piedi una grande rivoluzione culturale anche con temi trasversali, come l’eco pedagogia, e lì rimane fino alla morte.

La moglie Anna Maria, nel 2007, otterrà le scuse ufficiali dal governo del Brasile per l’esilio a cui era stato costretto. Scuse che il governo ha esteso “a ogni brasiliano analfabeta”.

  • Pubblicato sul sito dell’associazione «Me.Dia.Re», 2 maggio 2019.

 

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