Prima l’ho letto e, dopo qualche tempo, l’ho conosciuto personalmente. Debbo dire che conoscerlo è stato bello quanto leggerlo. Sto parlando di Piero Gheddo, sacerdote e missionario del Pontificio Istituto Missioni Estere (Pime), giornalista e scrittore di volumi, che ci ha lasciato, ricco di giorni (era nato nel 1929), il 20 dicembre. Nei suoi scritti e nelle sue parole, a tema c’era quasi sempre la Chiesa nel suo farsi nel Sud del mondo. Le giovani Chiese del terzo mondo hanno avuto in lui un amico che le visitava, le descriveva, le comprendeva da dentro.
Le cose che scriveva erano sempre di prima mano. Nel senso che lui andava, vedeva, si informava, poi si metteva a tavolino. Questa è la cosa che di lui mi ha subito e sempre colpito. Dal ’68 in poi, nei decenni dell’ideologia e degli slogan, lui è sempre stato fedele alla verifica sul posto. Con un certo andamento narrativo che sapeva di tradizionalismo, ma in lui significava soltanto prendere sul serio quanto la Chiesa missionaria aveva realizzato nei paesi del Sud del mondo nel ’900 e quanto stava vivendo nei decenni della decolonizzazione. In questo fu missionario fin nel midollo.
Il mensile Mondo e missione è stato il luogo ove ha trasmesso informazioni e resoconti dettagliati di prima mano. A livello informativo, non l’ho mai letto invano, perché ha vissuto e descritto la Chiesa a dimensione mondiale, interpretata attraverso le tappe della sua crescita e del suo modellarsi a secondo dei paesi e delle culture.
In tempi ormai lontani mi suggerì di seguire con attenzione l’India, «perché sta vivendo uno sviluppo tecnico e scientifico velocissimo e perché è una Chiesa già in grado di elaborare una propria teologia di cultura diversa da quello occidentale», e più recentemente mi sottolineava che il Vietnam andava letto con metri di misura nuovi sia per quanto riguarda la società sia per quanto riguarda la presenza del cristianesimo. Ci ha insegnato a pensare la Chiesa in grande, oltre ogni confine culturale e storico.
Un’esperienza condivisa con lui debbo proprio ricordarla. Dal 12 al 28 ottobre del 1992, per il V centenario della scoperta dell’America, si tenne a Santo Domingo la IV conferenza generale dell’episcopato latino-americano.
Preceduta dalla visita di Giovanni Paolo II, la conferenza segnò il passaggio dai temi della liberazione, sancito a Medellín, e dell’opzione dei poveri, proposto a Puebla, a quello della partecipazione. Era una specie di sigillo su una stagione contrastata della Chiesa latinoamericana, nella quale si confrontavano posizioni diverse e a volte contrapposte. Fu uno dei momenti usati da Giovanni Paolo II per “normalizzare” l’episcopato latinoamericano.
I dibattiti si svolgevano in un clima abbastanza teso, perché nessuno voleva andare allo scontro. I giornalisti della televisione e della grande stampa internazionale erano tutti partiti alla fine della visita del papa. (Particolare eloquente per capire come la grande stampa concepisce l’informazione religiosa!).
Unici giornalisti italiani a seguire i lavori eravamo p. Piero Gheddo, p. Bruno Secondin, don Francesco Strazzari e io. Ci organizzammo per scambiarci materiali e informazioni, valutazioni e pareri, per spartirci le numerose manifestazioni che si svolgevano in luoghi diversi.
Le due settimane di lavoro si trasformarono in un seminario di confronto a quattro, in cui ciascuno portava i suoi risultati, valutava notizie e documenti, si procurava interviste e testimonianze. Allora conobbi l’umanità di p. Gheddo, il disinteresse nel comunicare le proprie competenze, la capacità di collocare un’informazione o un episodio nel quadro interpretativo più pertinente. E ci furono anche animate e utili discussioni su teologia della liberazione, regimi politici e relativi rapporti con la Chiesa.
L’incontro di lavoro ha avuto poi un seguito in frequentazioni e amicizie che scoprimmo di avere in comune. La sua capacità di coinvolgere le persone anche più semplici in un cristianesimo operoso e spirituale ha caratterizzato il suo ministero diretto, fatto di rapporti immediati e semplici. Attorno a lui si era costituita una rete di amicizia non organizzata, ma tanto reale. Nell’incontro a tu per tu emergevano i suoi tratti più veri e profondi: la semplicità e l’ottimismo.
Con il suo carattere spontaneo, incapace di tenere le distanze, padre Gheddo ha dato a coloro che lo hanno conosciuto e frequentato non meno di quanto ha trasmesso con la sua attività di pubblicista, con i suoi viaggi e i suoi libri: ha dato se stesso e il suo entusiasmo, ha trasmesso un senso di Chiesa vissuto a tutto campo e oltre l’episodio del momento..