Domenica 24 settembre, a Maia, periferia di Porto, è morto a novant’anni dom Manuel Martins, che avevo incontrato l’ultima volta a metà agosto e mi aveva consegnato una pubblicazione che conteneva preghiere, inni liturgici, riflessioni sulla sua vita.
Lo conosceva dagli anni ’80, quando era vescovo di Setubal, primo vescovo alla guida della popolosa e rossa diocesi, staccata dal patriarcato di Lisbona, al di là del Tago (Tejo).
Alla sua consacrazione episcopale, il 26 ottobre 1976, si temette che squadre di accesi comunisti facessero irruzione nella chiesa, perché dom Manuel veniva dal nord del Portogallo, ricco, borghese, tradizionalista, dove la Chiesa da secoli era un tutt’uno con il potere. Ma ci si accorse ben presto che dom Manuel era di ben altra tempra. Lo chiamarono subito «bispo vermehlo» (= vescovo rosso), e lo si paragonava al vescovo francese Ancel, il «vescovo operaio».
Niente di straordinario nell’aspetto di dom Manuel, se non lo sguardo di un uomo vivacissimo e intelligente, un insieme equilibrato di razionalità, frutto dei suoi studi, e di sentimento, tipico della gente lusitana. La sua abitazione era molto semplice, spartana. Il suo parlare melodioso, dolce, avvincente.
La “rivoluzione dei garofani”
Il 25 aprile 1974, il Portogallo fu scosso dalla “rivoluzione dei garofani”, che dom Manuel diceva essere stata lo schiaffo della mano sinistra di Dio. Lo schiaffo della mano destra era stato il concilio. Era il tempo del dittatore Salazar. La Chiesa ufficiale copriva il regime e il discusso cardinale patriarca di Lisbona, Gonçalvez Cerejeira, non mosse un dito quando il vescovo di Porto, dom Ferreira Gomes, uomo di vasta cultura filosofica e teologica, si vide sbarrare le frontiere del Portogallo rientrando dall’estero e dovette girovagare per l’Europa solo perché aveva messo in discussione la politica dittatoriale di Salazar, soprattutto nei confronti delle colonie.
La “rivoluzione dei garofani” delineava un nuovo volto della Chiesa portoghese, che abbandonava il modello clericale e iniziava a dare spazio ai laici, che uscirono allo scoperto e spinsero la gerarchia a fare scelte precise sia in campo economico sia sociale. Si lamentava allora dom Manuel: «La Chiesa deve stare con gli uomini e non lo fa abbastanza. Ha ancora molta paura. Bisogna rischiare. La Chiesa non vive la povertà».
Nel 1985 – dieci anni dopo la rivoluzione – il Portogallo viveva ancora nell’incertezza politica ed economica. Si aveva paura del ritorno della destra. Nella periferia di Lisbona, nella zona di Setubal, nell’Alentejo, c’era fame.
Dom Manuel scuoteva i politici: «I partiti politici sono lontani, lontanissimi dal popolo; la classe politica non gode più la stima e la fiducia del popolo. È drammatico. Vuole sapere che cosa penso di questi dieci anni? Prima c’è stata tanta euforia, poi il disincanto, adesso la delusione, dopo verrà la disperazione».
Il governatore di Setubal gli mosse contro una campagna denigratoria a tappeto per farlo espellere dal Portogallo. Resistette. Fu accusato da ambienti tradizionalisti di non opporsi con coraggio alla secolarizzazione. La sua difesa: «Preferisco la secolarizzazione di questo popolo al cristianesimo freddo di alcune zone del nord del Portogallo, con devozioni solo esteriori, un culto sociologico e non praticato, non tradotto nella sensibilità per l’uomo. Purtroppo ci sono molti cattolici che vorrebbero confinare la Chiesa dentro la sacristia. Non vogliono essere scomodati. Penso che la Chiesa sia credibile quando prende posizione. Sono convinto che evangelizzare voglia dire aiutare l’uomo ad elevarsi, ad aprire gli occhi, a esigere che i suoi diritti e la sua vita vengano rispettati. Il presidente socialista Soares mi ha detto che i preti a Setubal sono molto avanzati, progressisti, troppo progressisti. Gli ho risposto: “Lei si sbaglia, presidente. Il più rosso di tutti sono io”».
Una Chiesa dentro la storia
Dopo 23 anni di servizio episcopale, dom Manuel sentì il bisogno di lasciare ad altri la guida della diocesi di Setubal. Da qualche anno andava chiedendo la dispensa, perché se ne voleva andare prima dei 75 anni per dedicarsi alla Fondazione Spes del suo grande vescovo, maestro e amico, dom Antonio Ferreira Gomes, votata all’evangelizzazione della società e a dedicarsi ai più poveri ed emarginati. Fu accontentato.
Il 23 aprile del ’98, accettate le dimissioni, venne reso noto il nome del suo successore, l’ausiliare di Porto, dom Gilberto Délio Gonçalves Canavarro dos Reis, 58 anni. Gli costò lasciare la diocesi – «ma non mi sono pentito» –, mi disse al termine di una suggestiva celebrazione nella cappella di Santa Caterina a Porto. Ora la diocesi di Setubal è retta da dom José Ornelas Carvalho, già superiore generale dei dehoniani.
Dom Mauel aveva un’idea fissa: «La Chiesa, animata dallo spirito di Dio, dev’essere sempre presente là dove la storia gioca il suo futuro. La storia non è ferma e, se la Chiesa rimane sempre legata ai parametri, ai criteri, alle forze del passato, non ha futuro, e non serve, non vale niente. Nella fedeltà al messaggio evangelico, nella fedeltà al deposito della fede – che è una ricchezza incommensurabile per tutti i tempi –, dobbiamo avere il coraggio di accettare le sfide poste da questa novità e andare avanti. Chi nella Chiesa ha responsabilità, deve saper spogliarsi ogni giorno per vestire abiti nuovi, come dice san Paolo».
Dom Manuel ebbe il coraggio di farlo.