Roma, 16 ottobre 2024
È stato un combattente Meco.
Ha combattuto fino agli ultimi giorni, anche contro gli affanni e le costrizioni dei suoi anni. Ha combattuto fino alla fine pensando, leggendo, cercando di discutere appena poteva, continuando a scrivere.
E ha combattuto, immagino, anche pregando. Parlando con la sua Elena, oltre che con figli e nipoti. Lo faceva sempre a modo suo, senza mai dare sacralità a ciò che per lui doveva restare profano.
Piuttosto gli piaceva dissacrare, sdrammatizzare. Non prendere mai troppo sul serio i potenti di turno, le loro verità, le mode del momento. Era il suo modo di coltivare il pensiero critico, di tenersi all’erta, di aver l’umiltà necessaria per cercare sempre una strada migliore.
Quando erano contesi, anche nelle Acli, gli appellativi amico e compagno, quando ci si chiamava amici e compagni per dare meglio il senso di una collocazione di frontiera, lui che alla frontiera ci viveva cominciò a usare un altro appellativo: fratello. Caro fratello…, diceva anche ad interlocutori di rango.
Ma dentro quel vestito tagliato dalla sua ironia, dal suo istintivo desiderio di giocare con le parole e le battute, c’era un credente impegnato in politica che ha avuto il coraggio di compiere scelte difficili e di assumersi le proprie responsabilità. Di essere fedele al Vangelo, non cercando opportunistici allineamenti, ma rischiando di persona.
Nelle Acli è cresciuto. E da presidenti come Dino Penazzato e Livio Labor ha imparato il coraggio, la postura con la schiena diritta. Alle Acli ha dedicato le sue maggiori energie. La sua è stata la presidenza più lunga. E nella storia del cattolicesimo sociale italiano ha impresso un segno importante.
Meco è diventato presidente in anni in cui il destino delle Acli si era fatto incerto. Il vento del Concilio e la radicata presenza nel movimento operaio avevano fatto crescere quel desiderio di cambiamento, di giustizia sociale, di partecipazione attiva che arrivò a mettere in discussione l’unità politica dei credenti e a rifiutare il collateralismo.
L’incomprensione con la Chiesa raggiunse il punto di rottura nel ’71 con la deplorazione di Paolo VI.
Emilio Gabaglio, giovane presidente, suo predecessore, che si trovò a spingere gli ideali e l’utopia fino al punto in cui divenne impossibile la mediazione politica, con la Dc ma soprattutto con la Gerarchia, si vide costretto a lasciare le Acli proprio per salvarle e consentire loro di tessere nuovamente la tela che era lacerata.
È impressionante, direi commovente, che Emilio Gabaglio ci abbia lasciati appena una settimana fa, e che ora insieme a Meco si trovi a cominciare l’esperienza del cielo.
Rosati fu pienamente partecipe della stagione di Gabaglio e di Vallombrosa. Il suo coraggio non è stato soltanto quello di ricostruire il dialogo e la comprensione con la Chiesa. Il suo coraggio è stato quello di averlo fatto senza rinnegare l’idealità, la passione, la sostanza delle convinzioni che erano maturate nelle Acli.
Meco – insieme a un gruppo dirigente di valore, di nuovo unitario dopo lo strappo, e insieme al suo amico angelo custode Giorgio Bonelli – ha traghettato la piena legittimità del pluralismo delle opzioni politiche dei credenti in un tempo nuovo della Repubblica. Ha traghettato il vissuto di una fede che non poteva fare a meno di opere e di impegno sociale coerenti. Ha traghettato un’idea di democrazia, di libertà, che ha assoluto bisogno dell’uguaglianza per inverarsi.
Ha lavorato per l’unità sindacale, scontando talvolta l’incomprensione di parti del sindacato. Ha sostenuto la solidarietà nazionale e la politica di Moro e Zaccagnini non più per dovere di squadra, ma per una libera, meditata scelta storico-politica. Tanto che le forze cattolico-conservatrici remavano all’opposto.
Rosati in quel tempo era diventato una delle punte del dialogo con Enrico Berlinguer. Tanto che lo vollero – unico cattolico – oratore al funerale del leader comunista in Piazza San Giovanni. Allora concluse il discorso osando una preghiera. Parole che rilette oggi hanno un suono particolare. «Una preghiera – disse – che viene spontanea alle labbra e a molti ricorda che la morte non toglie la vita ma soltanto la trasforma. So di poterlo dire anche col cuore di tanti di voi: riposi in pace». Una moltitudine rispose: amen.
Quelle Acli, quel tempo, quegli ideali, quelle passioni mi hanno formato. Capirete il legame profondo che sento. Un legame moltiplicato dall’amicizia di Meco, gratuita, generosa, sincera, piena d’affetto.
Delle Acli, possiamo dirlo, Rosati è stato un rifondatore. Dopo la fondazione di Achille Grandi, dopo la rifondazione di Dino Penazzato successiva alla nascita della Cisl, Meco ha messo sui binari un movimento della società civile, non più un movimento di classe, animato da cattolici che si proponevano la riforma della politica e la testimonianza del Vangelo, camminando insieme a quanti altri erano disposti a battersi per la giustizia.
Questa idea di movimento della società civile, cattolico ma laico, democratico ma non clericale né collaterale ai partiti, è rimasta nel dna.
Intanto anche la Chiesa ha camminato. Non sono mancati nei decenni successivi chiusure e anche tentativi di omologazione, ma verrebbe da dire che con papa Francesco tante anticipazioni, tante visioni maturate nelle Acli degli anni difficili hanno ora trovato piena cittadinanza.
Intanto Meco ha continuato a mettere alla prova il suo coraggio anche su altri campi. Quando ha organizzato la marcia della pace Palermo-Ginevra, inventando la «diplomazia popolare», si è presentato alle delegazioni americane e sovietica per chiedere il disarmo, la rinuncia ai missili tattici dislocati in Europa.
L’impegno per la pace è continuato anche oltre le Acli. Fino al dissenso espresso in Senato – dove era senatore indipendente nella Dc – per la prima missione nel Golfo. «Il credente è obiettore – disse in aula – verso la guerra e verso tutto ciò che la prepara o non la scongiura». Direi un messaggio che vale anche per l’oggi. Eccome!
Aveva una grande passione per il giornalismo. Aveva il dono di una scrittura veloce, brillante, non di rado tagliente. Ricordo il giorno settimanale di chiusura di Azione sociale, in cui lui scendeva per fare i titoli insieme a noi. Si scherzava. Li si esprimeva appieno la vena goliardica di Rosati. Poi, chiuse le pagine, la regola era non ripensare agli errori che sicuramente erano stati fatti, ma mettersi a lavorare per il numero successivo.
Quando non si è trovato d’accordo con gli indirizzi della Gerarchia, ed è capitato ancora in stagioni non troppo lontane, non ha mancato di esporsi e di dirlo. Sempre senza pretendere di avere ragione da solo, ma cercando di portare sul terreno del confronto chi non la pensava come lui. Sapeva discutere con arguzia e sapeva usare la prudenza, sapeva cercare una mediazione utile ad andare avanti. È stato il suo metodo anche da presidente delle Acli. Tenace, talvolta puntuto, ma mai rissoso, estremista.
Nella Dc del dopo-Moro era diventato troppo scomodo. La sua esperienza parlamentare si concluse dopo una legislatura. E lui, da volontario, andò a lavorare alla Caritas, a fianco del suo amico don Giuseppe Pasini, di cui ammirava la coerenza evangelica.
Ci ha lasciato un testimone del Novecento. Un cattolico democratico che ha preso sul serio, e ha cercato di attuare, la Costituzione e il Concilio. Per me – e credo per tanti – è stato un maestro.
Ciao Meco, ti ho voluto bene, ti abbiamo voluto bene. Continuerò, continueremo a volerti bene.
Tu riposa in pace. Ma, per favore, stacci ancora vicino.