Il prossimo 22 gennaio Rutilio Grande sj e i suoi compagni Manuel Solorzano e Nelson Lemus saranno beatificati insieme al francescano Cosme Spessotto ofm a San Salvador.
Rutilio fu ucciso il 12 marzo 1977 colpito da una raffica di proiettili di un’organizzazione di grandi proprietari terrieri di Aguilares, per il suo impegno a favore dei poveri e degli agricoltori.
Il suo biografo, Rodolfo Cardenal sj,[1] ripercorre l’opera del martire e sottolinea il grande influsso che la sua figura ha avuto su Óscar Romero nel contesto dell’allora emergente teologia della liberazione e dell’“opzione per i poveri”. Cardenal scrive che esiste uno stretto intreccio, al di là del martirio, tra Rutilio Grande e mons. Romero, al punto che Romero non sarebbe comprensibile senza di lui.
Varie sono le somiglianze tra i due. Ambedue provenivano da famiglie povere. Erano nati in piccoli villaggi del Salvador: mons. Romero nel 1917 e Rutilio nel 1928. Entrambi entrarono giovanissimi in seminario, Rutilio in quello di San Salvador e mons. Romero in quello della diocesi di San Miguel.
Concluso il seminario minore, Rutilio non proseguì il suo percorso di formazione nel clero diocesano, ma nel 1945 entrò nella Compagnia di Gesù.
Ambedue, inoltre, attraversarono intense esperienze di debolezza umana, anche se per ragioni diverse. Rutilio soffrì di due gravi esaurimenti nervosi, probabilmente legati a un’esperienza traumatica avuta nella sua infanzia. Dopo il primo e peggiore crollo, nel 1950, la sua salute si era indebolita e anche la sua capacità di studio e di apostolato era quindi limitata. Una conseguenza di questo stato di salute fu il suo perfezionismo e il suo sforzo di andare d’accordo con tutti. Era portato a cambiare facilmente idea, aveva un’ossessione per la precisione, attribuiva un’eccessiva importanza all’aspetto esteriore e temeva di essere ridicolizzato. Queste tendenze provocarono in lui un senso di insicurezza e di ansia.
Durante queste fasi si isolava da ciò che lo circondava, si chiudeva nel mutismo, diventava indifferente, serio e stanco. Spesso attraversò periodi di oscurità; ne soffriva, e tutto questo portava ad una difficile accettazione di sé.
Ripetutamente mise in discussione anche la sua vocazione al presbiterato, che pure amava tanto. Confidò che nei momenti di crisi si metteva nelle mani di Dio.
Sia lui sia Romero studiarono all’estero, ma in luoghi diversi. Romero a Roma e Rutilio in Venezuela, Ecuador, Spagna, Francia e Belgio.
Rutilio rimase sempre attaccato al suo paese natale, El Paisnal, da cui era partito per entrare in seminario. Quando finalmente poté tornarvi, come sacerdote, dovette convincere le donne anziane, che lo trattavano con riguardo e timore, di essere rimasto lo stesso di sempre.
Anche mons. Romero non si staccò mai dalle sue radici. Come parroco della cattedrale di San Miguel, mostrò una compassione insolita per i poveri, gli alcolizzati e gli ammalati che si aggiravano per la chiesa. In seguito, come vescovo, si mise al servizio di queste persone, sconfitte dalla povertà e dall’oppressione della dittatura militare.
Nello Spirito del Vaticano II
Rutilio, a partire dal 1951, lavorò nel seminario nazionale dedicandosi alla formazione del clero salvadoregno. La maggior parte dei seminaristi proveniva, come lui, da un ambiente umile. I suoi superiori lo inviarono a operare in seminario perché vedevano in lui un gesuita laborioso e responsabile, pieno di buon senso e di grandi capacità pedagogiche.
Fino al 1971 fu “prefetto del seminario”, incarico di per sé odiato, perché lo rendeva responsabile della disciplina. Ma egli sapeva unire rigore e comprensione. Non voleva seminaristi sottomessi, ma responsabili e maturi. Li rimproverava severamente, ma li protesse anche dall’arbitrarietà dei vescovi e del rettore. Molti sacerdoti in seguito ricorreranno lui per consiglio. Questo creò un rapporto stretto, forte e di fiducia con il clero diocesano.
Rutilio fu anche professore di catechesi e di teologia pastorale. Ma quello che gli piacque maggiormente fu il corso di educazione civica che gli permise di spiegare ai seminaristi i diritti civili del popolo salvadoregno. Si preoccupava di formare sacerdoti che fossero al servizio del popolo, e non guide clericali. Per questo si adoperò ad aprire il seminario alla realtà salvadoregna.
Cercò, inoltre, di introdurre in seminario lo spirito del concilio Vaticano II e la sua traduzione latinoamericana nell’Assemblea episcopale di Medellín del 1968. Fu uno dei sacerdoti più impegnati a far accettare alla Chiesa salvadoregna i testi del magistero. L’accoglienza di questi testi provocò in ambito ecclesiastico una grave crisi che spaventò molti. La maggioranza dei vescovi non accettava né il Concilio né Medellín, ritenendoli eventi radicali ed estremisti.
Rutilio interpretò invece la crisi come un’opportunità «perché avvertiva che era arrivato il momento di prendere coscienza della dolorosa realtà» dello sfruttamento, dell’oppressione e della secolarizzazione. Era giunta l’ora di «abbattere il muro del pianto» e «di prepararsi a vivere il dramma della fede come storia di liberazione».
La fedeltà al magistero del Concilio e ai vescovi latinoamericani costò a Rutilio un prezzo molto alto. Gli impedì di programmare lo studio e la riforma della vita in seminario e anche la sua nomina a rettore, proposta dalla Compagnia di Gesù nel 1970.
Non godendo più della fiducia dei vescovi, decise di lasciare il seminario. Dopo una breve permanenza in un tradizionale collegio gesuita e un’intensa esperienza pastorale in Ecuador nell’autunno del 1972, finì col ritornare nella parrocchia di Aguilares, il cui territorio comprendeva il suo villaggio natale, El Paisnal. Qui dedicò gli ultimi quattro anni della vita all’annuncio del Vangelo e della giustizia del regno di Dio tra i contadini.
Ingiustizia strutturale e violenza
Sia Rutilio che Romero furono attivi nel denunciare l’ingiustizia che gravava sul popolo salvadoregno e ne proclamarono la liberazione. Rutilio lo fece da una parrocchia di campagna, Romero dalla cattedra episcopale, soprattutto dopo la morte cruenta di Rutilio.
Entrambi avevano il dono della predicazione profetica. La lingua di Rutilio era più popolare di quella di Romero. Usava espressioni del mondo dei contadini e della gente comune ed era un maestro del linguaggio immaginifico. In sintesi, il suo messaggio era: «Dio non se ne sta sdraiato tra le nuvole su un’amaca, Egli agisce e vuole che tu costruisca il suo Regno qui sulla terra».
Il linguaggio di mons. Romero era più elaborato, ma non per questo meno popolare. Entrambi erano comunicatori esemplari. Entrambi invitarono i responsabili dell’ingiustizia e della violenza a convertirsi. Non si pronunciarono mai tuttavia a favore della violenza come soluzione; al contrario, cercarono di evitarla. Gli stili erano diversi, ma le parole erano quelle giuste.
I poveri li accolsero con gioia e apertura per la speranza che infondevano. I potenti invece li definirono comunisti e, alla distanza di tre anni, furono entrambi assassinati su istigazione dell’oligarchia dagli squadroni della morte controllati dall’esercito. Gli assassini non avevano nient’altro da opporre alla verità delle loro parole e alla forza della loro credibilità.
Una Chiesa dal basso
Sia Rutilio sia Romero si erano impegnati a seguire le linee e lo spirito del Vaticano II, dell’Assemblea episcopale di Medellín e dell’enciclica Evangelii nuntiandi di Paolo VI, per costruire una Chiesa che, secondo la definizione del concilio, fosse realmente popolo di Dio.
Il primo passo fu di riunire il popolo perché, senza popolo, non c’è popolo di Dio. La popolazione salvadoregna non era un popolo. L’oppressione li aveva soggiogati e l’egoismo li teneva divisi e dispersi. Per questo, nessuno di loro rimase estraneo alle lotte storiche per la giustizia e la libertà.
La Chiesa doveva essere costruita dal basso. Ad Aguilares, Rutilio e il suo gruppo missionario cominciarono a plasmare una Chiesa composta da comunità vive. Il progetto pastorale per la parrocchia si svolgeva. in tre tappe: le missioni come base della comunità, la promozione e la formazione dei laici come animatori pastorali, l’incarnazione dei valori del Vangelo nella realtà attraverso le mediazioni.
Rutilio non si faceva illusioni sull’efficacia del suo lavoro. Fino al termine della sua vita fu consapevole che la maggioranza della gente della parrocchia continuava a seguire i riti magici, lontani dalla realtà storica.
Il primo compito dell’équipe missionaria fu di evangelizzare la pietà popolare. I missionari si proposero di sostituire la pastorale “magica” dei sacramenti con la forza dinamica della Parola di Dio e di predicare il Vangelo come liberazione delle persone e del cosmo. Il Vangelo doveva essere portato sulla terra per creare una comunione secondo il disegno di Dio, senza oppressori e senza oppressi. Pertanto, la predicazione includeva anche la denuncia profetica.
In linea con l’esempio di Gesù, Rutilio accusò gli oppressori e rese gli oppressi consapevoli della loro dignità e dei loro diritti. Invitò alcuni alla conversione e restituì ad altri la voce che era stata loro negata per tanto tempo. In questo modo i contadini scoprirono di avere qualcosa da dire e anche qualcosa di importante da fare.
Rutilio li stimolò ad assumersi la loro responsabilità cristiana per il cambiamento della società. In questo modo, lui e la sua équipe riuscirono a dar vita a comunità cristiane dinamiche, profetiche e autonome. Nel corso di questo processo sorsero uomini nuovi e donne nuove. In breve tempo essi, soprattutto le donne, impressero un forte dinamismo alle attività parrocchiali.
Fede e politica
Questo cambiamento portò in primo piano il problema della politica. I contadini avevano scoperto l’efficacia delle organizzazioni politiche nel rivendicare i loro diritti del lavoro e i loro diritti sociali e politici.
Rutilio si guardò bene, tuttavia, dal diventare un agitatore politico. Aveva programmato anche un impegno politico ma solo a medio termine. Si preoccupò sempre di salvaguardare la distinzione tra la parrocchia e l’organizzazione dei contadini, senza tuttavia escludere una possibile collaborazione. L’organizzazione intendeva invece subordinare l’attività pastorale della parrocchia alle strategie politiche.
Contro questa intenzione, Rutilio sostenne sempre la necessità di tenere separate le due cose. Diceva: «Non possiamo associarci a gruppi politici di alcun tipo». I diversi punti di vista portarono a un confronto tra lui e i responsabili delle parrocchie e dell’organizzazione, tra cui figuravano le persone migliori e più apprezzate.
Una fonte di tensione fu l’esortazione alla prudenza e alla moderazione che Rutilio chiese più volte temendo un bagno di sangue. Poche settimane dopo il suo assassinio, quando l’esercito occupò la parrocchia, fu chiaro che la sua preoccupazione non era infondata.
In tal modo Rutilio visse una dolorosa frattura interiore tra i suoi progetti pastorali e la realtà concreta. Secondo le sue stesse parole, il nocciolo della questione era la figura del sacerdote, «che alcuni pretendevano di tenere fuori dalle questioni del bene comune in una sorta di astrazione antistorica; altri volevano vederlo come un ribelle. Né una cosa né l’altra erano vere. Nella comunità, il sacerdote rappresenta valori sia eterni che storici».
Le divergenze e gli intrighi nel lavoro parrocchiale, come anche i crescenti attacchi, lo indussero a chiedersi se doveva continuare. Nel 1976 offrì più volte le dimissioni, ma non furono accettate. Ogni nuovo incidente lo poneva davanti al dilemma insolubile di essere un prete. Il pastore doveva difendere l’opzione cristiana, e questo includeva l’organizzazione dei contadini per la giustizia, anche se interpretata in senso politico.
Nonostante le critiche, mons. Romero apprezzava molto la predicazione e l’opera pastorale di Rutilio. Era convinto che la sua predicazione «guardava a Dio, e da Dio al prossimo come fratello e sorella». Pertanto, invitava a «conformare la vita secondo il cuore di Dio», e questo doveva «tradursi in un impegno concreto e, soprattutto, motivare l’amore, l’amore fraterno», poiché un cristiano non può ignorare la miseria da cui è circondato.
Ma l’opzione per i poveri e per la loro liberazione da ogni tipo di oppressione suscitò l’indignazione dell’oligarchia. L’ordine oligarchico si aspettava infatti che il prete aiutasse a mantenere le persone tranquille, passive e sottomesse, poiché la loro sofferenza sarebbe stata generosamente ricompensata nell’altra vita. Ma per Rutilio ciò avrebbe significato «annunciare un Cristo muto, senza bocca, un Cristo con la museruola, plasmato a proprio piacimento e secondo i propri meschini interessi».
Né Rutilio né Romero permisero che fosse loro imposto questo ruolo tradizionale, perché il Vangelo non accetta l’oppressione. Non mischiarono la fede con la politica. Entrambi però erano consapevoli che la proclamazione del Regno di Dio aveva conseguenze politiche in circostanze così ingiuste come quelle del Salvador. Ma non avevano paura. Al contrario, rimasero fedeli al popolo salvadoregno e a Gesù di Nazareth fino a dare la loro vita.
Nel suo commento al Magnificat in una delle sue prediche più importanti, per Rutilio, la volontà di Dio era chiara: «I ricchi senza cuore e senza Dio vogliono la polenta solo per sé e non per tutti, vogliono la grande pentola solo per loro… questi sono i ricchi che Dio lascia a mani vuote perché sono crudeli caini».
“È pericoloso essere cristiani”
«Essere cristiano è praticamente illegale…», esclamò Rutilio nella sua ultima predica, «perché il mondo che ci circonda è profondamente fondato su un disordine saldamente stabilito, dinanzi al quale la predicazione del Vangelo è sovversiva». Per questo – concluse – «come cristiani dobbiamo essere pronti a dare la vita al servizio di un giusto ordine per gli altri e per i valori del Vangelo».
Il biografo di Rutilio, Rodolfo Cardenal, scrive che ci fu un periodo in cui l’amicizia con Romero, prima che questi diventasse arcivescovo di San Salvador, attraversò una crisi. Romero non era d’accordo con Rutilio sulla formazione dei seminaristi affidati alle sue cure e sulla sua concezione di Chiesa. Ma ben presto l’amicizia si ricompose.
Quando Romero tornò a San Salvador come arcivescovo, ebbe come una vera e propria “conversione” e cominciò a guardare al popolo oppresso, a difendere la sua causa con straordinaria energia e chiarezza. Alcuni, benché non molti allora, dissero che Romero era un miracolo di Rutilio. Anche papa Francesco ha fatto recentemente sua questa voce.
Mons. Romero assunse l’incarico dell’arcidiocesi di San Salvador il 22 febbraio 1977, appena tre settimane prima dell’assassinio di Rutilio. Tra il clero la nomina aveva suscitato delusione e indignazione. Si temeva infatti che si trattasse di un tentativo di tornare alla pastorale tradizionale. Alcuni risposero alla nomina persino con ostilità.
Rutilio, valendosi della sua influenza sul clero, chiese che fosse data al nuovo arcivescovo una possibilità. Alla fine di marzo il clero aveva superato le riserve e aveva accettato la nomina di mons. Romero. L’unità della Chiesa, che tre settimane prima pareva quasi impensabile, era diventata una realtà. Sotto l’influsso del martirio di Rutilio, la Chiesa di San Salvador e il suo pastore si impegnarono a portare avanti la sua missione e a tenerne viva la memoria, poiché «dava speranza al popolo». Questo impegno caratterizzò i successivi tre anni di Romero come arcivescovo, fino al suo martirio avvenuto il 24 marzo 1980.
Una settimana dopo l’assassinio di padre Rutilio, mons. Romero dichiarò: «Siate certi, miei fratelli e sorelle, che la linea evangelica dell’arcidiocesi è autentica, e tutti coloro che lavorano con gli amati sacerdoti, religiose e laici sono al sicuro finché sono in comunione con il vescovo».
Nel primo anniversario della sua uccisione, indicò in Rutilio un esempio da seguire perché egli visse la fedeltà a Gesù e al popolo di Dio in mirabile coerenza.
Secondo mons. Romero, Rutilio era tornato al suo villaggio di El Paisnal per vedere «dove Cristo soffre nella sua carne… dove Cristo è presente con la sua croce sulle spalle, non per meditare sulla Via Crucis in una cappella, ma per essere vivo tra la gente con la sua croce sulla via del Calvario. Questo Cristo si è fatto carne in questo religioso e gesuita che ha seguito Gesù». È qui che i suoi assassini lo uccisero. Nonostante il pericolo mortale, Rutilio aveva rifiutato di lasciare la parrocchia perché non voleva abbandonare il suo popolo. Le sue ultime parole furono: «Sia fatta la volontà di Dio!».
Rutilio Grande – conclude il suo biografo Rodolfo Cardenal – fu sacerdote e gesuita di inaspettato spessore umano e religioso. Trovò la sua forza nella sua debolezza. Trascorse la maggior parte della sua vita nel silenzio. Non era uno studente eccezionale e nemmeno un leader tra i gesuiti. A volte fu sottovalutato anche da alcuni suoi superiori e confratelli.
Chi ebbe stretti contatti con lui trovò una persona disponibile e cortese. I seminaristi e il clero scoprirono in lui un formatore, un consigliere e un compagno comprensivo e amabile, ma che sapeva essere anche severo ed esigente. Per i campesinos, i contadini, era un prete accessibile, altruista e buono.
In poche parole, Rutilio ha vissuto la sua vocazione di gesuita e di sacerdote «al servizio della fede, di cui è parte necessaria la promozione della giustizia, perché questa mira alla riconciliazione tra le persone, e a sua volta è richiesta dalla loro riconciliazione con Dio». Pertanto – disse mons. Romero –, «sappiamo che lo Spirito del Signore è vivo in lui».
Nel suo martirio si riflette la sua vita: «Un prete con i suoi contadini che cammina con il suo popolo per farsi uno di loro e non per vivere con loro le ispirazioni rivoluzionarie, ma l’ispirazione dell’amore».
Il 22 gennaio anche Rutilio sarà proclamato “beato”, preceduto dal suo amico e arcivescovo Romero, beatificato il 23 maggio 2015 e canonizzato a Roma da papa Francesco il 14 ottobre 2018.
[1] Rodolfo Cardenal sj, biografo di Rutilio Grande, è professore di teologia presso l’Università Centro- Americana (UCA) nel Salvador e direttore del Centro Monseñor Romero. Questo articolo è una nostra libera sintesi del profilo di Rutilio Grande da lui scritto e pubblicato anche sulla rivista tedesca Stimmen der Zeit, in una traduzione dall’originale spagnolo di Martin Maier sj.