L’11 aprile 1982 – giorno di Pasqua – Silvano Contini vinceva la Liegi-Bastogne-Liegi, una delle più importanti classiche del calendario ciclistico internazionale. Oggi, 21 aprile, la gara torna sulle strade del Belgio. A più di quarant’anni da quell’impresa sportiva, abbiamo chiesto a Silvano di ricordare le tappe fondamentali della sua carriera e della sua vita da credente.
- Caro Silvano, eri andato a Messa in quella Domenica di Pasqua in cui hai vinto la ‘Liegi’?
No, quel giorno non sono andato a Messa, sia perché non ce ne sarebbe stato il tempo, sia perché, allora, non ci andavo tanto; solo qualche volta, anche se, sin dai tempi del mio oratorio di Leggiuno, non ho mai smesso, totalmente, di andare in chiesa.
- Come è andata quella corsa famosa?
La ‘Liegi’ è una corsa molto dura. In quegli anni si correva spesso col clima avverso: vento, pioggia e persino neve. Decisiva è sempre stata la salita della Côte de la Redoute, a una ventina di chilometri dall’arrivo; allo scollinamento ci siamo ritrovati in quattro, soli: in fuga, con me, c’erano, Alfons De Wolfe, Claude Criquielion e Stefan Mutter, corridori fortissimi in quel periodo. Il favorito era De Wolfe, che correva sulle strade di casa.
Quando ho capito, verso il traguardo, di avere buone probabilità di farcela, ho cercato di risparmiare un po’ di energie stando sulle ruote – come si dice in gergo ciclistico -, specie alla ruota de De Wolfe. Lui ha lanciato lo sprint e io l’ho seguito: a venti metri dalla linea bianca l’ho superato e ho vinto.
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- Allora portavi la maglia della Bianchi: quanto ti ha giovato la squadra in quella corsa?
Nel gruppo che ci stava inseguendo – in cui c’erano corridori del calibro di Roger De Vlaeminck e Sean Kelly – c’era pure il mio compagno Tommy Prim che ha fatto il gioco di squadra a mio favore.
La ‘Bianchi’ era veramente una squadra unica in quegli anni, per il clima generale e per l’intesa che c’era tra noi compagni. Allora non accadeva come accade ora: date le indicazioni di massima da parte del direttore sportivo – allora Giancarlo Ferretti – erano i corridori a prendere le decisioni in corsa. Mentre adesso, con le radiocomunicazioni, a ciascuno viene detto, mentre sta pedalando, cosa deve fare.
Noi avevamo un compagno fortissimo e bravissimo – Knut Knudsen – che sapeva suggerirci nel migliore dei modi, in ogni momento della gara cosa fare, al fine che qualcuno di noi potesse vincere. In squadra avevamo diversi corridori vincenti: c’era il Tista (G.B. Baronchelli), c’era Knudsen, appunto, c’erano Prim, Parsani, Vanotti e tanti altri ancora. E c’ero anch’io, con la possibilità di vincere.
Quella della ‘Bianchi’ è stata la mia migliore esperienza di squadra: eravamo tutti per uno, come si dice, senza preferenze decise dall’alto o rivalità tra noi. Negli anni successivi, anche nella ‘Bianchi’, come in tutto l’ambiente, le cose hanno cominciato a cambiare. Il ciclismo oggi è molto diverso. Certo, anche allora, correvamo per vincere e per guadagnare, ma, se non eri proprio il numero 1 o il numero 2 a più di tanto non potevi aspirare. Ora mi sembra che tutto sia in funzione dei soldi.
- Prima di quella corsa, cosa avevi vinto di importante?
La mia prima corsa da professionista l’avevo vinta nel ‘79, al mio secondo anno nella massima categoria: il Giro del Piemonte, battendo in volata Miro Panizza e il Tista.
Poi, nello stesso anno, avevo vinto, per distacco, il Giro del Lazio. Ricordo di avere una foto con l’Arco di Costantino sullo sfondo. È stata una vittoria prestigiosa, a 21 anni, davanti a Knudsen, Gavazzi e Moser, con in gara corridori come Bernard Hinault, Jan Ras, Gerrie Knetemann. Anche quella volta fu fondamentale, per me, la direzione di Knudsen in gara, che mi disse, a dieci chilometri dall’arrivo, di “partire”, ossia di provare a staccare tutti. Io, quasi, non ci credevo. Ma ha avuto ragione lui.
- Torniamo al 1982: a quel Giro d’Italia in cui hai messo in difficoltà Hinault.
Avevo appeno vinto la ‘Liegi’, appunto. Andava tutto bene. Al Giro mi sentivo forte e sapevo di essere in una squadra forte. Ma forse non mi sono reso ben conto con quale campione avessi a che fare: un fuoriclasse, uno che non si arrendeva mai, anche quando lo si dava per battuto; forse l’ultimo dei “grandi”.
La storia è abbastanza nota, almeno nel nostro ambiente: mettemmo in difficoltà Hinault sulla salita del passo Crocedòmini, una delle tappe decisive a tre giorni dalla fine del Giro. Io vinsi quella tappa, con arrivo a Boario conquistando la Maglia Rosa. Sembrava fatta. Ma il giorno dopo – c’era ancora molta salita – Hinault è partito determinato: andava forte come una moto. Al vederlo così, ho ceduto psicologicamente, ancor prima che con le gambe. Sono entrato in una crisi nera quel giorno: è stato uno dei momenti più amari della mia carriera.
- Sì, ma sei salito sul podio in quel Giro, al terzo posto!
Hinault vinse meritatamente. Prim, mio compagno, fu al secondo posto; io terzo, quinto il Tista (Baronchelli): tre della stessa squadra – la ‘Bianchi’ – nei primi cinque.
Potrebbe apparire, oggi, un buon risultato, di squadra. In realtà, fu una figuraccia! Avevamo perso il Giro. Io, in particolare, l’avevo perso. I giornalisti italiani ci massacrarono e mi massacrarono. Scrissero che la Bianchi non era fatta per vincere una grande corsa a tappe come il Giro. E che io ero un corridore immaturo. Ma c’era del vero.
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- Quale altro ricordo, sportivo, hai di Bernard Hinault?
Ricordo bene il Giro di Lombardia del 1979: 150 chilometri di fuga insieme a lui e ad altri sei o sette corridori, con le squadre di Moser e di Saronni che, dietro, tiravano per raggiungerci.
Sono stato l’ultimo a resistere alla ruota di Hinault. Per me, essere arrivato secondo dietro a lui, con tutti gli altri distaccati di gran lunga, è stato come aver vinto.
- E umanamente, com’era Hinault?
L’ho conosciuto solo nelle corse e attorno alle corse, ma abbastanza bene. Era un uomo da decifrare: non capivo mai, quando parlava, se stava scherzando o se diceva sul serio, se la sua era una tattica agonistica fatta anche con le parole o altro. Sta di fatto che, in corsa, era correttissimo: un vero campione che non aveva certo bisogno di ricorrere agli espedienti per vincere.
Ricordo la sua estrema sicurezza di sé: al mattino della partenza del ‘Giro di Lombardia’ dell’’84 mi mise una mano sulla spalla e, con estrema sicurezza, appunto, mi disse «oggi, se vuoi arrivare al secondo posto, segui me».
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- Dopo il gran Giro del 1982, come è proseguita la tua carriera?
Negli anni successivi l’armonia tra i corridori che aveva caratterizzato gli anni migliori della Bianchi si è rotta, per cui nell’’85 ho cambiato squadra e sono andato alla ‘Ariostea’, con Giorgio Vannucci direttore sportivo e con Luciano Pezzi – un vero gentiluomo del ciclismo – quale padre nobile.
In quell’anno ho vinto diverse corse importanti: la prima tappa e la classifica finale del Midi Libre, la classifica del ‘Tour de l’Aude’, la ‘Coppa Placci’, in quell’anno prova del Coppa del Mondo.
Ho corso sino al ’90, dopo aver collezionato 8 classifiche finali, 18 tappe e altre corse su strada sino ad un totale di 48 vittorie professionistiche. Alla fine. non ce la facevo più, non tanto fisicamente, ma proprio perché non mi sentivo più in “casa mia”.
- Cosa ti era accaduto?
Ti faccio l’esempio della mia presenza nella squadra nazionale. Nella mia carriera, dall’inizio, ho partecipato a cinque campionati mondiali con la maglia azzurra: da un certo momento in poi non ho più partecipato e non ho più voluto partecipare.
Mi è successo di essere squalificato, per tre o quattro settimane, in piena stagione, semplicemente per aver detto la verità, per quanto una verità scomoda per l’ambiente. La federazione ciclista mi ha preso di mira. Altri due mesi – pesantissimi – di squalifica li ho presi dopo una vittoria alla ‘Ruota d’oro’: all’arrivo ho fatto un gesto che, sportivamente, non avrei dovuto fare, ma certamente non così grave da essere poi convocato da un magistrato.
Ciò è accaduto a me o a chi, in quegli anni, non si adeguava al primato dell’unico corridore che doveva rappresentare l’Italia nel mondo.
- Eppure, sei sempre passato – nei giornali e in televisione – per il bravo ragazzo cresciuto in oratorio.
Certo. Ma mi è pure capitato di arrabbiarmi sul serio di fronte a ciò che non ritenevo giusto. Di ciò oggi non mi rammarico. Così posso andare in giro, parlare del mio passato sportivo, fare interviste e fare tutto “a testa alta”, sicuro di non essere smentito.
Sono uscito definitivamente, da tanti anni, dall’ambiente. Sono amico di tutti e non ce l’ho con nessuno. Col Tista e col Beppe (Giuseppe Saronni) ci vediamo spesso e parliamo ancora di tutto il nostro passato in bicicletta.
- Come ti era venuta la voglia di correre in bici?
Nel mio paese – Leggiuno (Varese) – di sport c’era solo il calcio. I ragazzini crescevano col mito di Gigi Rivi, nato a Leggiuno. Ma io ero negato per il calcio. Quando giocavo, in oratorio, mi mettevano in porta o in difesa, per non combinare guai. Ero un ragazzino, un po’ scocciato per questo. Alle medie ho preso ad andare a scuola in bici, assieme ad alcuni compagni di classe. Così sono iniziate le prime garette sui traguardi immaginati davanti alle nostre case.
La mia passione è iniziata in quel modo. Ma i miei genitori non ne volevano sapere di corse in bicicletta. La svolta è venuta da Giuseppe Franzetti, che ricordo con affetto: era un ex-professionista che veniva in casa a fare i lavori da idraulico. È stato lui ad insistere con la mia famiglia – soprattutto con la mamma – perché mi permettesse di correre.
Alla fine, anche mia mamma ha ceduto. A 15 anni ho esordito. L’hanno successivo ero ‘allievo’. La mamma, oltre alle cadute, temeva che lasciassi lo studio e anche l’oratorio che, a quel tempo, era “tutto” nella vita dei giovani del paese. In effetti, poi, ogni domenica avevo le gare e quindi ho dovuto lasciare l’oratorio; e non sempre riuscivo ad andare a Messa.
Lo studio, però, non l’ho lasciato: sono riuscito, con un po’ di comprensione dei miei insegnanti, a diplomarmi in ragioneria. L’anno della maturità ero dilettante di ‘terza serie’. La scuola era a Luino. Al mattino, alle 7, ero già alla stazione vicina a casa: mezzora di treno e poi mezzora a piedi ed ero, in orario, per la prima campana. Alle 15.30 ero di nuovo a casa, mangiavo e poi subito salivo in bici. Quando tornavo mi mettevo a studiare, per quel che potevo. Dal venerdì alla domenica ero quasi sempre in ritiro con la squadra. È stata dura, a quella età, ma ce l’ho fatta.
- Tanta passione?
Sì, a quella età, avevo tanta passione. Altrimenti non sarei riuscito. Arrivati poi i primi risultati, sono stato incoraggiato ad andare avanti.
Le circostanze mi hanno legato, già da allora, a Giuseppe Saronni, che è del ’57, mentre io sono del ’58: quando lui è passato, molto presto, al professionismo, sono stato cercato dalla sua squadra da dilettante, per rimpiazzarlo. Se non che, dopo un solo anno, anch’io sono passato al professionismo, altrettanto presto: avevo meno di vent’anni. Il presidente della squadra era un po’ arrabbiato…
- La passione originaria è venuta meno alla fine della carriera?
Ho smesso e lasciato definitivamente l’ambiente delle corse – pur avendo ricevuto proposte di restare in ruoli tecnici – fondamentalmente per due motivi: come ho accennato, non mi sentivo più nella stessa “casa” in cui ero cresciuto, perché il ciclismo era cambiato tantissimo in pochi anni; soprattutto, ho fatto una precisa scelta per la mia vita successiva – per la famiglia e per i figli – piuttosto di fare una vita sempre fuori casa, in giro per l’Italia e per il mondo.
Quando ho smesso di correre avevo già il mio primo figlio piccolo. Volevo vederlo crescere e avere parte della sua crescita.
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- Tua moglie – Bibiana – come l’hai conosciuta? Sempre nell’ambiente delle corse?
Sì e no. Quando lei aveva 17 anni, non sapeva nulla del ciclismo e non le importava nulla. Un amico le aveva chiesto, d’estate, di fare da miss alla premiazione della ‘Tre Valli Varesine’, una importante corsa professionistica dalle nostre parti. Ci siamo conosciuti in quella circostanza.
Nell’84 ci siamo sposati. E lo siamo da 40 anni. Sono felice della scelta che ho fatto allora: vivere il matrimonio, i figli, la famiglia, lavorando nel laboratorio di falegnameria dello zio, che poi ho rilevato e che conduco tuttora.
- Ti è mancato qualcosa del mondo della bici?
Dal mondo delle corse alla vita ordinaria, il salto è piuttosto alto. Da subito, mi sono mancati i compagni di bici, quelli con cui avevo condiviso tanto tempo, tanti chilometri, tante serate durante le corse a tappe e nei ritiri: tante imprese coronate da successo o da sconfitte, quindi belle o meno belle, ma sempre belle nei ricordi.
Con alcuni amici – corridori – sono rimasti legami profondi, per la vita: anche se non ci si vede o non ci si sente spesso, è sempre una grande gioia ritrovarci, ricordare e parlare anche del resto.
- Hai trovato il tempo di andare ancora in bici?
Poco. Sono ancora molto impegnato col lavoro. Ora, deve esserci qualcuno che mi sollecita: capita di andare a fare qualche giro con uno dei miei figli, oppure col Beppe (Saronni), quando viene nei giorni di festa a trovare i suoi figli che hanno la casa da queste parti. Pedalare è un modo, per stare in compagnia e per parlare mentre si pedala.
Ma c’è anche un altro modo, per me, di andare in bicicletta, che un poco mi è mancato e che mi manca: quello contemplativo, meditativo. Ci pensavo, durante i lunghi allenamenti, da solo. Mi guardavo intorno – magari dalla montagna che avevo appena scalato – e mi chiedevo cosa fosse tutta quella bellezza e da Chi. Ovviamente, me lo chiedo ancora. E poi mi chiedevo perché stessi facendo tutta quella fatica: in vista di che, di Chi?
Andare in bici, fare fatica, guardare, pensare… è anche un modo per andare alla ricerca di qualcosa di più. Penso abbia a che fare con la fede, almeno per me.
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- Quindi, ha poi trovato il tempo di ritornare a Messa?
Certo, ma direi qualcosa di più: da quando mi sono sposato, con mia moglie Bibiana, ho fatto un percorso con una consapevolezza ben diversa da quella giovanile che mi portava ad andare a Messa, più o meno, per buona consuetudine.
Abbiamo conosciuto persone del Movimento di CL che ci hanno aiutato nella nostra ricerca. Anche se ora non siamo più nel Movimento, posso dire che questo ci ha lasciato qualcosa di importante.
- Hai assunto qualche ruolo o ministero nella Chiesa?
Sino al periodo del Covid, per un po’ di anni, sono stato nel gruppo liturgico della Comunità pastorale di Laveno – Mombello. Mi occupavo della chiesa, degli arredi sacri, dei paramenti e di tutto quanto serve ai servizi liturgici. Sono stato introdotto da una suora, ma ho pure studiato per ricordare tutti i nomi delle cose e per entrare nel senso della liturgia. Sono rimasto affascinato da tante scoperte che ho fatto. Ma sono rimasto anche sorpreso, purtroppo, dalla superficialità, crescente, che caratterizza tante nostre celebrazioni.
Secondo me nelle chiese si sta perdendo il senso della sacralità – anche dello stesso edificio e dell’ambiente – e si sta introducendo una piattezza che non circonda i cuori e non aiuta a spingerci verso l’alto, verso Dio. Io cerco ancora questo nella liturgia.
- Queste cose le dici nelle interviste e negli incontri a cui sei chiamato da uomo di sport?
L’amico Paolo Costa ha scritto il libro Sorrisi e fantasia: il ciclismo di Silvano Contini. L’abbiamo presentato un anno fa. È una cosa fatta gratis, il cui ricavato va in beneficenza. In quel libro, oltre lo sport, ho detto qualcosa di me.
Ma resta che mi è difficile, nelle circostanze in cui sono chiamato, dire qualcosa di più profondo, come, invece, ha fatto il Tista, col libro Pedalando per il Cielo e come fa con le sue presentazioni. Vorrei riuscirci anch’io.