La stella dei magi e il messaggio di Benedetto

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Foto di Dorothée Quenneson da Pixabay

Il modo migliore, forse, di onorare la figura di Benedetto XVI e di comprendere ciò che il suo messaggio può significare oggi per noi, è di andare oltre il suo ruolo nello scontro, in atto nella Chiesa, fra «conservatori» e «progressisti» e di cercare di cogliere ciò che egli ha voluto sottolineare, prima come teologo, poi come prefetto del dicastero per la Dottrina della fede (l’ex Sant’Uffizio) e, infine, come papa.

Il discorso di Ratisbona

Paradossalmente, la via più sintetica per farlo è probabilmente ritornare a quel famoso «discorso di Ratisbona» che suscitò un vespaio di polemiche e di attacchi nei suoi confronti, soprattutto da parte del mondo islamico, ma anche di molti cristiani, che videro in esso un passo indietro nel cammino del dialogo interreligioso.

Vi si riferiva, infatti – senza peraltro condividerlo –, il giudizio pesantemente negativo di un imperatore bizantino nei confronti dell’islam, una citazione effettivamente inopportuna, se non altro perché ha fatto perdere di vista ciò che a Ratzinger stava veramente a cuore di evidenziare, e cioè l’unicità del rapporto con la ragione che caratterizza il cristianesimo.

Secondo il pontefice, il punto cruciale era che, per la visione cristiana, «non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio». Mentre «per la dottrina musulmana Dio è assolutamente trascendente», cosicché «la sua volontà non è legata a nessuna delle nostre categorie, fosse anche quella della ragionevolezza», il cristiano che sostenesse questa tesi (e, in realtà, ce ne sono stati tanti, nella storia: il papa lo ammette poco dopo) è in netta contraddizione con il Nuovo Testamento. E Ratzinger ricorda l’inizio solennissimo del vangelo di Giovanni: «In principio era il Logos, e il Logos era presso Dio, e il Logos era Dio» (Gv 1,1).

Ora, egli nota, «Logos significa insieme ragione e parola – una ragione che è creatrice e capace di comunicarsi ma, appunto, come ragione». Ratzinger vede in questo «l’incontro tra fede e ragione, tra autentico illuminismo e religione».

«Certo», precisa il papa, «l’amore, come dice Paolo, “sorpassa” la conoscenza ed è per questo capace di percepire più del semplice pensiero (cf. Ef 3,19), tuttavia esso rimane l’amore del Dio-Logos, per cui il culto cristiano è, come dice ancora Paolo, un culto che concorda con il Verbo eterno e con la nostra ragione (cf. Rm 12,1)».

Da qui la capacità del cristianesimo di accogliere la grande eredità del pensiero greco e di dar vita a quella civiltà occidentale che sulla ragione ha costruito il suo progresso scientifico, tecnico ed etico-politico. Certo, non sempre la Chiesa è stata, storicamente, all’altezza di queste implicazioni del suo messaggio, come è testimoniato da mille episodi (si pensi al processo a Galilei), ma ciò non intacca la sostanza di un influsso che deriva dal cuore del cristianesimo.

Oltre fanatismo e relativismo

Secondo papa Benedetto, questa sintesi inscindibile tra fede e ragione rende impossibile, al cristiano coerente, abbandonarsi al fanatismo religioso, che invece è una tentazione per l’islam e per altre religioni. Ma esclude anche quel misconoscimento del valore della razionalità umana che è presente nel relativismo, una minaccia più volte denunziata dal pontefice come un mortale pericolo non solo per la fede, ma per i valori costitutivi dell’umano.

Se non ci sono il vero e il falso, il bene e il male, se tutto si equivale e il valore delle scelte morali e politiche dipende solo da preferenze soggettive dei singoli, non ha più senso l’impegno per il progresso della comunità (progresso rispetto a che cosa?), né la lotta per la libertà e la dignità delle persone. Resta valida solo la legge del più forte.

Da questo punto di vista, l’attualità del messaggio di papa Ratzinger è innegabile. Il mondo contemporaneo conosce bene la duplice deriva di un estremismo religioso fanatico, che calpesta con cieca determinazione le persone in nome di un Dio assurdo (si pensi non solo al terrorismo, ma a ciò che sta accadendo in Iran e in Afghanistan), e di un nichilismo che riduce il ruolo della ragione al dominio della tecnica, ma nega l’esistenza di valori inderogabili, fondati sull’umanità degli esseri umani.

Più specificamente, come è stato notato da qualcuno, Benedetto non si rivolgeva tanto ai non cristiani, quanto a un mondo cristiano che ha dimenticato le sue radici profonde e rischia di restare prigioniero di una fede abitudinaria e ritualistica, priva della luce della consapevolezza e perciò incapace di orientare la vita e di parlare agli uomini e alle donne che questa fede non ce l’hanno, ma potrebbero essere interpellati sulla base comune della ragione.

Il modello che egli indica è quello che, nella tradizione cristiana, si può ritrovare nella doppia formula «comprendi per credere» e «credi per comprendere». Una circolarità tra fede e ragione che si può riscontrare, per esempio, nell’episodio del viaggio dei magi, narrato nel vangelo di Matteo (cap. 2) e celebrato dalla Chiesa nella solennità dell’Epifania.

La stella dei magi

Talora questo racconto è stato inteso come se i magi fossero il tipo del credente e la stella il simbolo della fede. In realtà, dal testo si evince, con chiarezza, che i magi non solo non sono – questo dovrebbe essere ovvio! – dei cristiani, ma neppure degli aderenti al giudaismo. Essi vengono da molto lontano e sono all’oscuro delle tradizioni sacre di Israele, da cui vengono illuminati solo in un secondo tempo, tramite i sapienti ebrei consultati da Erode.

Quanto alla notizia relativa alla stella, essa si inserisce perfettamente nella conoscenza che noi abbiamo della civiltà mesopotamica, da cui i magi presumibilmente provenivano. In quella cultura erano particolarmente fiorenti gli studi astrologici, perché si riteneva che vi fosse una stretta connessione tra il corso dei corpi celesti e il destino degli uomini (come pensa tuttora chi crede nell’oroscopo). È abbastanza logico, dunque, supporre che la stella di cui parla il vangelo di Matteo non sia affatto la fede, ma un segno cosmico, accessibile alla ragione. È questo segno che sta all’origine della ricerca: «Comprendi per credere».

È vero, però, che questa stella brilla, con la sua fragile luminosità, solo di notte e non è certo la ragione solare di cui ha poi parlato l’illuminismo (ma non è questo il modello di razionalità del mondo post-moderno?). Quella dei magi è una ricerca nel buio, che per di più, a un certo punto, si arresta a causa della scomparsa della stella. Riconoscere i limiti della ragione non conduce necessariamente al relativismo. Senza bisogno di essere scettici, anzi proprio per salvaguardare il senso della ricerca intellettuale, bisogna essere consapevoli della propria umana finitezza. A maggior ragione, quando è in gioco il Mistero.

E qui subentra la necessità di ricorrere, per proseguire il cammino, alla testimonianza delle Scritture, che i magi ricevono dai saggi d’Israele alla corte del re Erode. È a questo punto che entra in gioco la fede: «Credi per comprendere».

Dalla Rivelazione viene l’indicazione di Bethlem che consente loro di orientarsi. Ma, quando riprendono il cammino, «ecco, la stella, che avevano visto in oriente» – e che prima era scomparsa alla loro vista – «li precedeva, finché non andò a fermarsi sopra il luogo dove si trovava il bambino» (Mt 2,9). La ragione – la stella che prima li aveva portati a Gerusalemme –, non è stata sostituita, ma sostenuta e indirizzata dalla fede e adesso riprende il suo ruolo decisivo nell’incontro con il Verbo incarnato.

Questa è stata anche la storia del grande dottore della Chiesa a cui il teologo Ratzinger si è sempre ispirato, sant’Agostino. Anche lui ha cercato Dio vagando nella notte con l’aiuto della sola ragione; anche lui, a un certo punto, ha scoperto, incontrando il vescovo Ambrogio, l’indicazione della fede; anche lui ha potuto trarne le ultime conseguenze, in tutta la sua immensa opera intellettuale, grazie all’apporto di una ragione illuminata da questa stessa fede.

Grandezza e limiti di un pontificato

Forse la grandezza di papa Benedetto è stata di additare questi grandi orizzonti, lottando per impedire che il cristianesimo si riducesse a mero residuale emotivo di una società culturalmente post-cristiana, magari trovando un compenso nell’impegno sociale e caritativo.

Il limite di questo papa è stato, però, di non valorizzare abbastanza il senso della relatività, che è cosa molto diversa dal relativismo, assolutizzando elementi dell’esperienza cristiana che invece erano relativi a determinati contesti culturali.

L’esempio più eclatante è la reintroduzione della messa in latino. Ma, al di là di questo episodio, tutto il suo pontificato ha risentito pesantemente di una volontà di recuperare il passato, che ha interpretato la tradizione sottolineando unilateralmente la continuità con il passato piuttosto che la sua capacità di dar luogo a sviluppi nuovi, proiettati verso il futuro.

Emblematica l’interpretazione del Concilio che è stata tutta giocata sul registro di questa continuità, sicuramente presente, ma non esclusiva, mettendo in secondo piano la discontinuità, che pure era la forza innovativa del Vaticano II.

L’ascolto del Logos, invece di rendere la Chiesa disponibile a percepire meglio e a interpretare sapientemente le voci che vengono dalla storia, ha rischiato così talvolta di trasformarsi in un ostacolo alla loro recezione.

Resta l’attualità del messaggio che questo pontefice ha lasciato a noi, in una società e in una Chiesa dove il rapporto tra fede e ragione è spesso travisato, privilegiando unilateralmente – e per ciò stesso deformando – l’una o l’altra e dando così luogo a forme inaccettabili di fideismo, se non di fanatismo, da un lato, e di razionalismo scientista (accompagnate da un sostanziale relativismo religioso ed etico), dall’altro.

Sta a noi raccogliere questo richiamo di Benedetto XVI e tradurlo adeguatamente nel nostro complesso momento storico.

  • Dal sito della Pastorale della cultura della diocesi di Palermo (www.tuttavia.eu), 5 gennaio 2023.

 

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