Il 19 febbraio è morta a Washington suor Dianna Ortiz. Se il suo nome e la sua storia sono oggi probabilmente solo un vago ricordo in Europa, negli Stati Uniti rappresentano invece la memoria vivente della connivenza del governo americano con le dittature latino-americane nel corso delle amministrazioni Reagan, Bush e Carter.
Giovane suora della Congregazione delle Orsoline di Mount St. Joseph, nel 1987 si reca nelle regioni rurali del Guatemala per insegnare ai bambini delle popolazioni indigene locali.
Una donna e una Chiesa per i poveri
Come annota l’indagine della Commissione inter-americana per i diritti umani, nel report sul suo caso pubblicato nel 1996 e rivisto nel 1997, “il governo del Guatemala ha messo in atto metodi continui di repressione contro rappresentanti della Chiesa e altre persone che lavorano per i poveri e gli indigeni (…). La Commissione è giunta alla conclusione che gruppi rurali indigeni, e coloro che lavorano con loro, sono spesso ingiustamente trattati dal governo come nemici del governo stesso o complici del movimento rivoluzionario armato”.
Poco tempo dopo il suo arrivo in Guatemala, suor Ortiz inizia a ricevere una serie di lettere minatorie che la invitano a lasciare immediatamente il paese. Le indagini della Commissione arriveranno poi a stabilire che la suora era stata messa quasi immediatamente sotto sorveglianza da membri e agenzie governative guatemalteche.
Nonostante queste minacce, e il clima pesante che circondava il lavoro delle orsoline nella regione in cui viveva, suor Dianna continua a svolgere il suo ministero educativo e solidarizza con gli altri insegnanti del paese in manifestazioni pubbliche.
Il 2 novembre 1989, mentre si trovava nella capitale del paese per un ritiro di riflessione e discernimento con altre consorelle sulla situazione che stavano vivendo, suor Dianna viene rapita da agenti governativi e condotta in un edificio militare – dove fu torturata e violentata ripetutamente dai rapitori per 24 ore di seguito. Il medico che la visita l’8 novembre, non appena rientrata negli Stati Uniti, conterà oltre 100 bruciature di sigarette inflitte sulla sua schiena.
“Il trattamento disumano sofferto da suor Ortiz per mano degli agenti governativi ricade nella definizione di tortura (…). Le torture inflitte a Dianna Ortiz possono essere considerate come quelle che mirano a obliterare la personalità della vittima (…). Suor Ortiz ha descritto la sua esperienza come la distruzione della sua personalità e ha spiegato come gli effetti delle torture subite le hanno impedito di riprendere una vita normale e svolgere anche semplici attività quotidiane” (Report della Commissione).
Nulla dietro di me
Suor Dianna, per anni, non ha ricordato nulla della sua vita prima del rapimento, come se le torture e le violenze sessuali subite avessero fatto calare una cortina invalicabile sulla sua storia: sugli affetti più cari e sulla sua stessa fede.
Una consorella, in occasione della sua morte, ha ricordato come al suo ritorno nella Casa madre della congregazione, dopo un primo periodo di cure e terapia, molte suore si sentirono al principio ferite dal fatto che suor Dianna non le riconosceva e non ricordava nulla di loro. “Con molta saggezza, la nostra comunità si rivolse a un dottore specializzato nel trattamento di vittime che avevano subito traumi di questo genere. Ci spiegò che dovevamo divenire consapevoli del fatto che i torturatori avevano violato e violentato non solo Dianna ma anche la nostra comunità. Dovete camminare insieme a lei su questa strada – ci disse il dottore –, cosa che abbiamo fatto” (Suor Michele Morek).
Ricordano gli anni di lavoro insieme, prima nella Commissione per i diritti umani in Guatemala e poi alla stesura di un libro scritto a due mani, Patricia Davis ha affermato che il rapporto con suor Dianna è stato come “un viaggio nel suo trauma e nell’orrore che ha dovuto attraversare, ma anche nella sua forza e nella sua fede. Dopo le torture c’è una completa devastazione della fede e questo lento processo di guarigione attraverso le persone che l’amavano. E poi c’è il suo giungere a realizzare che la guarigione è Dio”.
Suor Dianna riuscì a fuggire dalle mani dei torturatori mentre veniva condotta verso un altro luogo da una persona, da lei identificata come qualcuno di madrelingua statunitense, che aveva evidentemente autorità di comando sul gruppo di agenti governativi che l’avevano rapita.
Per tutti quelli che rimangono senza giustizia
Nel suo tentativo di ricevere giustizia per quanto subito, sia in Guatemala sia negli Stati Uniti, suor Dianna iniziò una serie di attività per la ricerca della verità: non solo per lei, ma per tutte le persone rapite e scomparse in Guatemala per mano dei vari governi locali nel corso di più di trent’anni di guerra civile.
Venendo ostacolata e diffamata da entrambi i governi: quello guatemalteco, che negava ogni coinvolgimento in ciò che alcuni dei suoi più alti rappresentanti arrivarono a definire un “presunto rapimento”; quello americano, preoccupato invece di tenere sotto traccia i molti rapporti con le dittature latino-americane e la sua implicazione diretta in operazioni di rapimento, tortura e uccisione di persone considerate pericolose o non gradite – come suor Dianna, appunto.
A oggi, nessuno degli agenti governativi guatemaltechi e statunitensi coinvolti nel rapimento e nelle torture di suor Ortiz è stato condotto davanti a un tribunale. Se il Report della Commissione intra-americana per i diritti umani ha quantomeno riconosciuto la pertinenza della richiesta di giustizia e di verità mossa da suor Ortiz davanti al governo del Guatemala, dato che “gli atti compiuti contro suor Dianna Ortiz sono stati commessi da agenti del governo del Guatemala che operavano nel quadro delle loro mansioni ufficiali”, sul versante giudiziario statunitense non è avvenuto nulla.
Eppure, suor Dianna rimane impressa nella memoria pubblica americana come quella donna, minuta ed esile, che fu una figura chiave nel costringere il governo di Washington a rendere pubblici i documenti che mostravano il coinvolgimento americano nella violazione dei diritti umani in Guatemala.
Seguiamola per un momento nella ricostruzione di questo lato del suo dramma e della sua lotta, fatta nel corso di un intervista rilasciata alla direttrice del Robert F. Kennedy Human Rights. “L’incubo che ho vissuto non era nulla di straordinario. Nel 1989, sotto il primo governo civile guatemalteco in decenni, furono rapite quasi duecento persone. A differenza di me, esse scomparirono per sempre nel nulla. Il solo elemento non comune della mia vicenda fu quello della mia sopravvivenza, forse perché ero una cittadina statunitense (…).
Come tale, avevo un altro punto a mio favore: potevo poi rivelare, in condizioni di relativa sicurezza, i dettagli di quanto mi era accaduto nel corso di quelle 24 ore. Uno di questi dettagli: un americano era il capo dei miei torturatori (…). Solo poche settimane dopo il mio rapimento, e prima di ogni vera investigazione, l’ambasciatore statunitense in Guatemala insinuò che io fossi un’agitatrice politica e che avessi inscenato il mio rapimento per favorire un taglio dell’aiuto militare americano al Guatemala (…).
Alla presenza dell’ambasciatore Thomas Stroock, Lew Anselem, rappresentante dell’ambasciata statunitense per i diritti umani, disse a una delegazione di religiosi e religiose che si era fatta carico del mio caso che ‘era stufo di queste suore lesbiche che vengono qui in Guatemala’. La storia venne ripetuta con disparate variazioni in seguito (…).
La verità può danneggiare gli Stati Uniti
In quegli anni, gli Stati Uniti lavoravano a braccetto con i militari del Guatemala per raggiungere l’obiettivo segreto proprio della politica americana in quella regione: sconfiggere la guerriglia guatemalteca. E il mio caso era una cattiva pubblicità per i militari; e poiché avevo menzionato che il capo dei miei rapitori era americano, era allora anche una cattiva pubblicità per il governo statunitense (…).
Nelle parole dell’ambasciatore, il mio caso ‘poteva danneggiare gli interessi degli Stati Uniti’ (…). In una lettera, nella quale chiedeva ai rappresentanti del Dipartimento di Stato di non incontrarmi per raccogliere la mia testimonianza, l’ambasciatore scriveva: ‘Se il Dipartimento la incontra, poi esso si troverà sottoposto a pressioni provenienti da tutta una sorta di persone e gruppi che chiederanno al Dipartimento di agire in maniera conseguente alla informazioni che lei è in grado di fornire’ (…).
Nel 1996 per cinque settimane feci una veglia davanti alla Casa Bianca, chiedendo la declassificazione di tutti i documenti governativi statunitensi pertinenti le violazioni dei diritti umani in Guatemala a partire dal 1954.
Alcuni giorni dopo l’inizio mi fu concesso un incontro con la First Lady Hillary Clinton. La signora Clinton ammise ciò che nessun altro rappresentante del governo americano aveva avuto il coraggio di riconoscere nei miei sette anni di ricerca della verità dietro il mio rapimento e le torture subite in Guatemala: disse che era possibile che l’americano a capo del miei torturatori guatemaltechi fosse ‘un dipendente che attualmente o nel passato lavorava presso un’agenzia degli Stati Uniti’.
Ho posto termine alla mia veglia solo dopo che il Dipartimento di Stato aveva declassificato migliaia di documenti. Essi non contenevano però nessuna informazione sul capo americano e non identificavano i miei torturatori. Ma contengono in ogni caso innumerevoli informazioni di interesse. Ad esempio, che numerosi dipendenti di varie agenzie governative collaboravano con le forze di sicurezza guatemalteche al tempo del mio rapimento; e che l’ambasciatore in Guatemala in carica a quel tempo aveva ammesso che l’ambasciata aveva avuto dei contatti con membri degli squadroni della morte”.
Le memorie che non riesco a non portare con me
Impegnata nella lotta per la verità, non solo della sua vicenda ma anche di quella ignota di centinaia di migliaia di persone torturate e uccise in Guatemala, il racconto di suor Dianna incrocia l’abisso personale della sua vicenda con la pragmatica disumana del governo statunitense. Una testimonianza a cui si deve l’onore dell’ascolto in memoria della sua morte.
“Voglio liberarmi di queste memorie. Voglio essere una persona che si fida, confidente, avventurosa, serena, come ero nel 1987 quando andai nelle regioni rurali del Guatemala occidentale (…). Ma il 2 novembre 1989 la Dianna che ho appena descritto ha cessato di esistere. Ti racconto questa storia perché riflette le sofferenze di centinaia di migliaia di persone in Guatemala (…). La maggioranza delle vittime erano, come me, dei civili presi di mira dalle forze di sicurezza guatemalteche (…).
Mi condussero in una stanza buia, dove potevo udire le grida di uomini e donne che venivano torturati. Quando rientrarono mi accusarono di essere un membro della guerriglia e iniziarono a interrogarmi. Ogni volta che rispondevo, bruciavano la mia schiena o il mio petto con un mozzicone di sigaretta. Dopo mi hanno violentato in gruppo più volte.
Poi mi portarono in un’altra stanza e mi lasciarono sola con un’altra prigioniera. Ci presentammo l’un l’altra, dicendo i nostri nomi e abbracciandoci. ‘Dianna – mi disse in spagnolo – cercheranno di distruggerti. Sii forte’.
Quando tornarono avevano una telecamera e una macchina fotografica. Il poliziotto mi mise in mano un machete. Pensando che lo volessero usare contro di me, giunta a un punto delle torture in cui volevo solo morire, non opposi resistenza. Ma il poliziotto mise le sue mani sul manico del machete sovrapponendole alle mie, e mi costrinse a pugnalare la donna più volte, e poi ancora. Quello che ricordo è il flotto di sangue, zampillante come una fontana, e le mie grida che si perdevano nelle urla della donna (…).
I tentativi di ottenere informazioni attraverso indagini governative americane non hanno condotto da nessuna parte. Il Dipartimento di giustizia mi ha interrogata per più di quaranta ore, nel corso delle quali gli avvocati governativi mi accusarono di mentire. Vennero interrogati i miei amici e famigliari, facendo trapelare che io ero la colpevole, quella sotto indagine, e non i rappresentanti del governo che nel mio caso agirono erroneamente (…).
Ho distrutto una vita per sopravvivere
Per timore che il Dipartimento di giustizia potesse far trapelare informazioni che avevo dato loro se avessi fatto pressioni per rendere pubblica l’indagine, decisi di rendere pubblica io stessa un’informazione secretata: come esito delle multiple violenze di gruppo che avevo subito mi trovai incinta.
Incapace di portare in me quello che i miei torturatori avevano generato, che potevo vedere solo come una mostruosità, il prodotto degli uomini che mi avevano violentata, mi rivolsi a qualcuno per essere assistita e distrussi quella vita. Sono fiera di questa decisione? No. Ma se dovessi fare di nuovo quella scelta, credo che deciderei come feci allora. Sentivo di non avere scelta (…).
Fino a oggi non posso dimenticare quelli che hanno sofferto con me e che sono morti in prigioni clandestine. Nonostante tutte le umiliazioni che hanno comportato le dure risposte che ho dovuto dare, sto dalla parte del popolo guatemalteco: chiedo il diritto di un futuro basato sulla verità e sulla giustizia. Ho una responsabilità, verso il popolo del Guatemala e verso ogni persona del mondo, di richiedere l’obbligo di rispondere delle proprie azioni (…)” (Dianna Ortiz).
Il Dio palpabile
Suor Dianna lascia un vuoto nella sua congregazione e nella storia del cattolicesimo americano: “Sentiremo davvero la mancanza dello spirito di preghiera e della dedizione totale nell’aiutare gli altri che furono quelli di suor Dianna” – ha ricordato suor Amelia Stenger, superiora generale delle Orsoline.
Raccontando l’esperienza della celebrazione dell’unzione degli infermi, alcuni giorni prima della morte di suor Dianna Ortiz, il francescano Joe Nagle ha detto: “Dio era presente quasi in maniera palpabile grazie allo spirito di questa persona cara che ora ci ha lasciati” – non senza averci raccontato la sua storia, affinché possa arrivare il giorno in cui nessuno al mondo debba più raccontarne di simili.