Papa Francesco, nel discorso tenuto il 21 dicembre scorso alla Curia romana in occasione degli auguri per il Natale, ha concluso le sue parole con un ricordo del card. Carlo Maria Martini e si è espresso così: «Il cardinale Martini, nell’ultima intervista a pochi giorni dalla sua morte, disse parole che devono farci interrogare: “La Chiesa è rimasta indietro di duecento anni. Come mai non si scuote? Abbiamo paura? Paura invece di coraggio? Comunque la fede è il fondamento della Chiesa. La fede, la fiducia, il coraggio (…) Solo l’amore vince la stanchezza”». A otto anni dalla morte del card. Carlo Maria Martini (15 febbraio 1927 – 31 agosto 2012), ci siamo rivolti al card. Francesco Coccopalmerio perché voglia offrirci un suo personale ricordo (domande a cura di Lorenzo Prezzi).
– Lei è stato per ben ventidue anni uno stretto collaboratore del card. Martini. Le chiedo per i nostri lettori di farne un breve ricordo.
Lo faccio con molto entusiasmo, anche se commemorare in modo veramente soddisfacente il venerato card. Martini è un’impresa impossibile. Come ricordare e valutare tutti gli svariati aspetti e della sua persona e del suo ministero? Come, per esempio, leggere e dominare la sua immensa produzione letteraria, spirituale e pastorale? E – si badi bene – il grande card. Martini si è di fatto rivelato non soltanto arcivescovo della grande diocesi di Milano, bensì anche pastore dal respiro a livello universale.
Affronterò, tuttavia, l’impossibile, limitando il mio discorso ad alcuni dei molteplici elementi, cioè ai tratti salienti, che più fortemente ho nella memoria e soprattutto nel cuore, rievocando in estrema sintesi i ben ventidue anni, nei quali sono stato – certo per una grazia del Signore – collaboratore del card. Martini.
Contemplativo
– Quale, dunque, è il primo dei tratti salienti che intende presentarci?
La dimensione contemplativa della vita. Questo fu il titolo della prima lettera pastorale del nuovo arcivescovo alla diocesi di Milano, in data 8 settembre 1980. Perché incomincio da qui nel mio ricordo di Martini? Non solo e non certamente perché questo documento fu in senso cronologico uno dei primi atti, ma anche e soprattutto perché, almeno in qualche modo, in questa lettera pastorale è contenuto il Martini che poi dipanerà se stesso negli innumerevoli adempimenti pastorali. È contenuto il Martini – diciamo così – completo, per quanto solo “in germe”.
– Perché questo?
Martini si identifica con la sua spiritualità, con il suo rapporto con il Signore Gesù, cioè – appunto – con la sua “dimensione contemplativa della vita”. È dal contemplativo Martini che viene il pastore Martini. Nessuno, infatti, dà ciò che non ha. Martini ha Gesù e Martini dona Gesù.
– Come fu accolto questo primo atto del nuovo arcivescovo di Milano?
Mi ricordo che la scelta del tema La dimensione contemplativa della vita fece una certa impressione, destò qualche meraviglia, e cioè uno spontaneo interrogativo, comprensibile in particolare nella attiva Milano e nel vivace presbiterio: Ma come? Il nuovo arcivescovo dovrebbe presentarci un piano pastorale, denso di iniziative e di opere e invece dice a tutti: “Fermiamoci, riflettiamo, soprattutto preghiamo, mettiamo il Signore Gesù al centro della nostra vita e lasciamo che sia lui a prendere possesso di noi”.
– Come si giustifica questa scelta pastorale?
Nella lettera pastorale da cui partiamo, l’autore mostra la sua profonda convinzione che è solo l’interiorità, è solo il rapporto della persona con il Signore Gesù, a determinare la capacità di azione. Di qui l’essenzialità della preghiera, e della preghiera contemplativa. E Martini valorizza in modo peculiare, tra le varie forme di preghiera contemplativa, quella dell’adorazione al Santissimo Sacramento. Cito un breve testo: «…è certamente da rivalorizzare la preghiera adorante connessa alla Comunione e davanti al Santissimo Sacramento» (n. V).
Dalla contemplazione, dunque, all’azione. Cito ancora un passaggio: «(con la preghiera contemplativa) il cuore si apre alla dimensione del Regno e alle sue realizzazioni ecumeniche e missionarie. In questo quadro generale della preghiera cristiana prendono il loro giusto posto i suoi vari aspetti: quello liturgico-sacramentale, quello personale e quello comunitario, quello del cuore e quello delle labbra, quello del silenzio teso all’ascolto e quello della vigilante applicazione di ciò che si è ascoltato al tessuto storico quotidiano. Non è dunque possibile cogliere il frutto specifico dell’eucaristia, che è la carità, senza camminare nella vita della fede e della speranza. Ma questo suppone un esercizio costante di silenzioso ascolto della Parola di Dio e di abbandono fiducioso al suo piano di salvezza» (n. III,3).
Maestro del Libro
– Quando si pensa a Martini e a una delle sue peculiarità, forse a quella più evidente, in qualche modo connessa con la dimensione contemplativa della vita, si pensa subito alla sua fede nella sacra Scrittura, alla sua passione per la sacra Scrittura e quindi a tutto l’impegno che egli ha profuso per inculcare nel popolo di Dio uguale fede e passione. Cosa può dirci di questo importante aspetto?
Una delle iniziative fin dall’inizio del suo ministero fu di proporre la lectio divina ai giovani in Duomo. Fu un avvenimento che colpì tutti: erano presenti migliaia di giovani, intenti non solo ad ascoltare, ma anche a prendere appunti, per non lasciarsi sfuggire nulla.
Quello che nell’insegnamento di Martini a riguardo della sacra Scrittura mi ha più colpito è soprattutto questo: Quando tu leggi o quando tu ascolti la sacra Scrittura, è Dio stesso, è Gesù stesso che ti sta parlando. Ecco la differenza tra la lectio della Bibbia e la normale lettura, per quanto ricca di frutti, di qualsiasi altro libro: nel primo caso, infatti, è Dio stesso che sta parlando con te, per cui usiamo la dizione, così straordinariamente pregnante, appunto di lectio divina.
E dall’insegnamento di Martini sulla centralità della sacra Scrittura sono venute nella Chiesa novità anche operative di eccezionale importanza pastorale. Basti pensare ai gruppi del Vangelo, o come in altro modo possano opportunamente denominarsi, in cui i fedeli praticano, comunitariamente e a frequenze ravvicinate, la lectio della sacra Scrittura. Basti pensare alla riscoperta del ruolo del lettore nella liturgia, specie in quella eucaristica, per cui chi proclama la parola di Dio nella liturgia ha acquisito la coscienza che proprio attraverso di lui parla Gesù stesso. Ma, soprattutto, il popolo di Dio ha riguadagnato una rinnovata e generale percezione che la sacra Scrittura c’è, che deve essere conosciuta e anche – ovviamente – frequentata, specialmente ascoltata nella liturgia, dove – come detto – parla Gesù stesso (Sacrosanctum concilium 7). Anche il fedele meno preparato sembra percepire tutto ciò.
Mi ricordo che una volta gli ho detto: «Eminenza, le sarò sempre grato, perché in questi anni lei mi ha permesso di riscoprire la Parola di Dio, la sua centralità nella vita e quindi mi ha abituato alla frequentazione della sacra Scrittura». Al che egli rispose, mi pare, pressappoco così: «Se avessi fatto a Milano anche solo questo e lo avessi fatto per te, avrei compiuto un buon ministero».
Pensante
– Un’altra iniziativa pastorale rimasta giustamente famosa è stata la cosiddetta “Cattedra dei non credenti”. Che cosa può dirci a riguardo questa iniziativa?
Nella prima lettera pastorale troviamo un’interessante affermazione a proposito dell’amore al silenzio e quindi della preghiera contemplativa: «l’uomo vecchio, che ha paura del silenzio, e l’uomo nuovo solitamente convivono, con proporzioni diverse, in ciascuno di noi» (n. II,1). La frase è rivelatrice. E, in effetti, Martini ha sempre sentito, proprio dentro di sé, la compresenza del vecchio e del nuovo, del cattivo e del buono, del credente e del non credente. E non ha soffocato – per dire così – quest’ultimo. Ma lo ha rispettato, lo ha lasciato vivere, gli ha permesso di parlare. E il non credente ha potuto così presentare le sue ragioni. A cui il credente ha dovuto dare risposte. E così si è allenato e quindi si è rinforzato. Ha sviluppato, infatti, le sue potenzialità di riflessione.
Questa struttura del suo intimo, della sua spiritualità, l’arcivescovo l’ha – diciamo così – fatta uscire da sé, le ha dato un corpo, l’ha comunicata agli altri. E ha creato quella iniziativa, che ha fatto impressione, ha fatto scalpore. Voglio appunto parlare della Cattedra dei non credenti. Dove – si noti bene – non si parla di risposta data ai non credenti, ma si indica l’insegnamento dato dai non credenti. È il non credente che viene messo in cattedra. Nel senso che il non credente, che è in ognuno di noi oppure intorno a noi, deve poter dare le ragioni della sua posizione. Martini diceva: «Ho paura non di chi non crede, bensì di chi non pensa». E, un po’ provocatoriamente: «Non voglio persone credenti, ma voglio persone pensanti».
Dialogante
– Oggi, volentieri, si parla di dialogo, a tutti i livelli. La “Cattedra dei non credenti” è, senza dubbio, un esempio eloquente di dialogo. Cosa pensa al riguardo?
Il dialogo presuppone – come ovvio – due movimenti: il parlare e l’ascoltare. Più facile è il parlare, più difficile è l’ascoltare, non in quanto ascolto fisico, bensì in quanto ascolto vero, cioè non formale, quindi veramente interessato a conoscere il messaggio dell’altro, la sua identità, i suoi valori. Ora, la posizione di Martini di mettere addirittura in cattedra coloro che non credono è un’espressione emblematica, direi un’espressione limite, di questo ascolto vero, cioè non formale, quindi veramente interessato a conoscere il pensiero dell’altro.
– Facile l’obiezione: Ma, allora, questo interesse al pensiero del non credente proprio in quanto interesse, non significa forse che io metto in dubbio la mia identità di fedele? Se ho necessità di conoscere il pensiero dell’altro, cioè precisamente del non credente, non significa forse che la mia fede vacilla, che non mi basta più, che non ne sono certo, che vado in cerca di altre verità?
La risposta di Martini sarebbe questa: da una parte, sono credente e sono sicuro della mia fede e perciò non voglio rinunciare alla mia fede; dall’altra, so che in tutti, anche nel non credente, ci sono doni di intuizione, ci sono doni di conoscenza e questo può arricchire anche la mia fede.
Risposta, questa, che ci dà del cardinale Martini un altro chiaro elemento della sua squisita signorilità: quella del rispetto, anzi della stima, per ogni persona e per ogni posizione, rispetto e stima che – come ovvio – sono una delle radici del dialogo. Ma anche al di là del dialogo sono accettazione della persona, sono amore per la persona, sono valorizzazione della persona, e di ogni persona. Viene subito in mente quello che il profeta Isaia mette sulla bocca di Dio nei confronti del popolo di Israele, e quindi di ogni persona: «Tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima e io ti amo» (Is 43,4). Così è stato anche lo stile di Martini. Ha detto a tutti le stesse parole del profeta: Tu sei prezioso, sei degno di stima, per questo io ti cerco, per questo io ti ascolto, per questo dialogo con te.
Cordiale
– Mi ricordo che in una certa occasione lei ha affermato, parafrasando un famoso detto di Don Bosco sull’educazione: l’ecumenismo è cosa del cuore. Quale era la posizione di Martini relativamente all’ecumenismo?
Sono pienamente convinto che l’ecumenismo, o è una passione o non è niente, o ti prende il cuore, e allora ti impegni veramente, o ti lascia insensibile, e allora resti inattivo.
Il card. Martini considerava l’ecumenismo cosa del cuore, ne aveva passione. E così il lavorare e il pregare per il raggiungimento della comunione piena tra tutte le Chiese cristiane era per lui un’ansia apostolica.
Quello del cardinale è stato – senza dubbio – un ecumenismo di efficienza, di progetti, di realizzazioni. Non si può qui dire tutto. Pensiamo alle strutture diocesane, in qualche modo nuove o comunque potenziate, come l’Ufficio di curia e insieme la Commissione diocesana per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso, pensiamo all’iniziativa di convegni, ai rappresentanti di Chiese cristiane sia visitati che ricevuti, all’amicizia con varie personalità, per esempio a quella con il patriarca di Costantinopoli, Bartolomeo I, o con il patriarca di Mosca, Alexey II, amicizie che ci permisero poi di fare memorabili visite, come quella a Halki e quella della delegazione a Kostroma. Un ecumenismo, dunque, certamente di efficienza.
Però, soprattutto, un ecumenismo – come possiamo dire? – di clima, di atmosfera, nel senso di amicizia, sostanziata, questa, di stima, di amore, di signorile rispetto per i fratelli cristiani non cattolici. Per opera dell’arcivescovo Martini si è respirata a Milano un’aria di calda amicizia tra le varie Chiese cristiane (ne sono presenti diciotto).
E da questo clima di casa è meravigliosamente nato, nel 1991, un autentico – diciamo – prodigio ecumenico: il Consiglio delle Chiese cristiane presenti nella città di Milano, una vera casa o famiglia per tutti i cristiani del territorio, luogo di incontro mensile, di confronto e di dialogo fraterno. E a questo proposito non possiamo non ricordare, con sempre rinnovato stupore, il pellegrinaggio in Terra Santa nell’anno 2004 di tutte le Chiese cristiane appartenenti al predetto Consiglio, con la partecipazione dell’allora arcivescovo, il card. Dionigi Tettamanzi.
Semita
– Tra i messaggi più preziosi che il card. Martini ci ha lasciato possiamo senz’altro considerare l’amore per il popolo di Israele. Ha potuto constatare questa qualità di Martini?
Ho potuto constatare in molte occasioni il rapporto del card. Martini con il popolo di Israele. Egli ci ha testimoniato il suo grande amore per il popolo di Israele con la sua parola e con il suo esempio. La sua testimonianza poggia su basi, scritturistiche e teologiche, chiare e sicure. Spontaneo è il riferimento a Rm 9-11, dove Paolo, al contrario di quanto appaia ad un’impressione immediata e superficiale, non conduce un discorso contrario al popolo ebraico, ma testimonia, da una parte, i suoi sentimenti di traboccante passione, di amore e di dolore ed esprime, dall’altra, la sua visione teologico-storica di piena valorizzazione e di completo riacquisto del popolo di Dio che è anche il suo popolo.
Ora, il card. Martini ha convintamente insistito su alcuni punti dottrinali, che ci sono ormai profondamente stampati nella mente e nel cuore. Il primo punto da cui discendono tutti gli altri: il popolo di Israele è il popolo dalle promesse divine mai revocate, «perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili!» (Rm 11,29).
Da ciò logicamente deriva la ormai chiara falsità della dottrina cosiddetta della sostituzione, secondo la quale la Chiesa, nuovo popolo di Dio, avrebbe sostituito Israele, precedente popolo di Dio. Nessuna sostituzione e, soprattutto, nessuna possibilità di tale sostituzione. Noi cristiani diciamo con convinzione, però con umiltà, che la Chiesa è il popolo di Dio o è il nuovo popolo di Dio. Ma rifiutiamo con pari convinzione di ritenere che il popolo di Israele non sia ormai più il popolo di Dio. Il popolo di Israele era un tempo, è attualmente e sarà sempre il popolo di Dio.
Se le cose stanno così, possiamo fondatamente affermare che esistono e continueranno a esistere due popoli di Dio. E, al contempo, possiamo chiederci come correttamente intendere la relazione tra i due popoli. Ce lo indica ancora Paolo: il popolo di Israele è l’olivo buono, è la radice santa, sulla quale, poi, è stato innestato l’olivo selvatico e cioè, appunto, il nuovo popolo di Dio.
Notiamo, però, con molta attenzione che quanto detto lo affermiamo noi cristiani. E, tuttavia, non possiamo pretendere che la stessa visione sia ugualmente accettata anche dal popolo di Israele. Comunque noi cristiani la presentiamo a loro con umiltà e chiediamo a loro di comprenderci e di accettarci.
Confidando in questa comprensione, è ora importante che i due popoli di Dio possano essere amici, possano conoscersi e amarsi, rispettarsi e accogliersi nella loro diversità, valorizzando, comunque, gli elementi comuni. Immediatamente illogico e inaccettabile appare ogni desiderio o, peggio, ogni tentativo di convertire gli ebrei alla fede cristiana. E ugualmente illogica e assolutamente inaccettabile appare l’abitudine, purtroppo diffusa, di qualificare il rapporto della religione cristiana con la religione ebraica come un rapporto con un’altra religione, alla pari del rapporto con la religione islamica o con altre religioni presenti nel mondo.
Possano, in definitiva, i due popoli di Dio camminare insieme, fianco a fianco o anche mano nella mano, verso un omega finale, che per gli ebrei sarà l’avvento del Messia e per i cristiani sarà il ritorno di Cristo. Saranno la stessa Persona? La risposta appare scontata, almeno per la fede cristiana. Tutto questo, e ancora di più e certamente meglio, ci ha insegnato il card. Martini aprendoci la mente e il cuore verso i fratelli maggiori, verso i fratelli ebrei.
Fratello
– Questo rapporto tra il card. Martini e il popolo di Israele si è poi tradotto in alcune iniziative concrete?
Certamente, perché dai tempi di Martini le relazioni tra cristiani ed ebrei sono enormemente fiorite, in modo particolare a Milano. Non possiamo dimenticare la benedizione reciproca che il rabbino Laras e il cardinale Mattini, da tempo grandi amici, si sono reciprocamente data qualche giorno prima della morte del cardinale a Gallarate, la preghiera della comunità ebraica sotto i portici della Curia il giorno dei suoi funerali. Ma, ancora prima, tra i tanti episodi di fratellanza, possiamo ricordare le varie volte in cui i cristiani di Milano sono stati invitati a pregare nella Sinagoga Centrale.
E diciamo che, in questo senso, si è verificato un miracolo: proprio per onorare la memoria del defunto card. Martini con la piantagione di una selva in Terra Santa, attuando un’idea del rabbino Laras, un’apposita delegazione di un centinaio di persone ha compiuto un pellegrinaggio in Israele. Il miracolo a cui accennavo è consistito in questo: forse per la prima volta, almeno nei tempi moderni, il pellegrinaggio era composto da ebrei insieme a cristiani, da rappresentanti dei due popoli. Hanno viaggiato insieme e hanno pregato insieme. Hanno viaggiato insieme, e ricordo che sui due pullman a nostra disposizione in Gerusalemme era scritto così: “Ebrei e cristiani viaggiano insieme”. E, soprattutto, i rappresentanti dei due popoli hanno pregato insieme: un giorno al Muro del Pianto con la recita e a volte con il canto dei salmi chiamati “della salita” e un venerdì sera, in sinagoga, per celebrare l’apertura dello Shabbat.
– Ci intrattenga ancora su qualche aspetto, magari più personale, nel ricordo del card. Martini.
Sì, potrei parlare di tanti altri aspetti, particolarmente significativi o anche emozionanti del caro cardinale, come il suo desiderio, solo in parte realizzato, di stabilirsi definitivamente a Gerusalemme, o l’esperienza della dolorosa malattia, soprattutto per la perdita della voce, e ciò proprio a lui che aveva fatto del parlare la sua principale missione o, infine la denuncia lungimirante e non priva di coraggio di certi difetti nella Chiesa con la proposta di significativi cambiamenti, il che gli aveva procurato non poche reazioni, sinceramente fonti di sofferenza. E qui possiamo ricordare il suo motto episcopale: Pro veritate adversa diligere (“Per amore della verità amare le contrarietà”).
Potrei dire una parola relativa al sinodo diocesano, il 47° di questa serie, in cui sono stato, in quanto vescovo ausiliare ed esperto in diritto canonico, uno dei principali collaboratori. Potrei parlare dei rapporti di Martini con la comunità civile e dei famosi discorsi alla città nella vigilia della solennità di sant’Ambrogio. Potrei ricordare il suo impegno nel dialogo con i rappresentanti delle altre religioni, specie con l’islamismo. Però tutto questo richiederebbe molto tempo.
Amico
– Ma, alla fine, qualcosa di ancora più personale?
Voglio, sì, aggiungere un pensiero e, soprattutto, un gradito ricordo al sentimento dell’amicizia nel card. Martini. Qualcuno a volte rilevava un certo qual riserbo nelle sue relazioni personali: È un po’ freddo, sta un po’ sulle sue… È vero: il card. Martini non era facilmente espansivo. Nonostante questa apparenza, aveva un cuore caldo, pieno di affetto, forse un po’ tormentato, segno, questo, della sua complessa sensibilità. Aveva un cuore di amicizia. Bastava vedere come ti guardava. Sembrava dirti così: Sei importante per me.
Questa amicizia, l’ha dimostrata a tante persone. Specialmente ai suoi preti. A partire dagli alunni del seminario. Voleva conoscere in modo diretto coloro ai quali avrebbe presto imposto le mani per consacrarli preti. Ricordiamo tutti il periodo di convivenza che, nel palazzo arcivescovile, egli offriva ai diaconi prossimi all’ordinazione sacerdotale. E sappiamo quanti preti hanno trovato in lui il rifugio in situazioni di crisi.
Posso dire lo stesso anche per quello che mi riguarda. Posso testimoniare che l’arcivescovo mi ha voluto bene, mi è stato amico. Specie nei momenti difficili. Mi sono potuto fidare. Gli ho confidato tutto. E lui mi ha accolto. E mi ha dato forza. Ricordo che, a Roma, andavamo a volte a cena insieme in un ristorante che si trova presso il Santuario del Divino Amore. E anche lui si confidava con me. Non mi è possibile dimenticare quella volta (eravamo in macchina, io guidavo e lui sedeva accanto a me) che mi disse: «Vedi, io sono una persona fragile, sia fisicamente, sia psicologicamente». Io non seppi cosa precisamente obiettare, ma mi venne di dire: «Se lei, eminenza, è quello che dice, cosa saranno gli altri?». Però, quella confidenza era un segno chiaro della sua umiltà e sincerità.
– E una parola conclusiva?
Come potrei concludere dicendo una parola globale sul grande e venerato card. Carlo Maria Mattini? Cerco di farlo, anche se lo trovo molto difficile. Mi aiuto con un’immagine. Ricordate che i santi sono raffigurati, almeno normalmente, con un cerchio di luce intorno al capo, cerchio di luce che si chiama aureola? Cosa significa questo segno? A me pare che significhi qualcosa di misterioso e bello che si trova dentro il santo e traluce al di fuori di lui. Non qualcosa che viene dal di fuori, bensì qualcosa che proviene dall’interno. Una medesima luce – lo avrete a volte notato – c’è anche negli occhi o c’è nel sorriso di una persona.
Ora, a me pare che anche nel card. Martini vi fosse questa luce, che proveniva dal suo interno e ci testimoniava qualcosa di prezioso. Era qualcosa di grande, qualcosa di molto bello. Ed era qualcosa di misterioso. Io ci vedo ora – nel ricordo che ho di lui – come se percepisse il mistero, il mistero di Gesù e del paradiso, e ne rimanesse affascinato e, al contempo, intimorito, contento e problematizzato, un po’ incantato e un po’ impaurito. Mi chiedo se l’insieme di questi sentimenti si può chiamare timore di Dio. Forse sì. O se si può richiamare la beatitudine dei miti. Forse sì. E allora, forse, riesci a capire perché i miti erediteranno la terra, nel senso traslato dei cuori degli uomini. Credo che per Martini sia stato proprio così.
E ti viene in mente anche l’umiltà. La condizione per cui la Madonna è da tutti ammirata e viene detta beata da tutte le genti di tutti i tempi. E questo vale certamente anche per tutti coloro che, di generazione in generazione, temono il Signore, quindi anche per il card. Martini. Forse tutto questo ci rende la persona di Martini e il ricordo commosso di lui così pieno di misteriosa dolcezza. Ed è probabilmente questo sentimento che tanti fedeli sentono per lui ed è per questo motivo che sono così numerosi coloro che ogni giorno vanno a pregare, nel Duomo di Milano, sulla sua tomba.