Toni Negri: professore di rivoluzione

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comunismo

«Il professore», così, celiando, chiamavamo Toni Negri tra di noi, giovani attivisti dell’altermondialismo montante. Conoscevo da tempo i suoi antichi testi incendiari, ma di persona l’ho incontrato solo quando, dall’esilio francese, tornò in Italia alla fine degli anni ’90 per scontare il resto della pena a cui era stato condannato in uno dei più celebri processi politici del nostro dopoguerra.

Cominciammo a scriverci quando rientrò nel carcere di Rebibbia – un fatto che mi indignò moltissimo – e iniziai ad andare a trovarlo quando lo misero in semilibertà, ottenuta anche grazie all’amicizia di don Luigi Di Liegro. Poi, quando, nei primi anni del nuovo millennio, fu finalmente libero e si spostò a Venezia, grazie al contemporaneo invito che ricevetti da Luca Casarini, lo seguii e, così, per qualche anno, lavorammo insieme, incontrandoci quasi tutte le settimane.

Era il periodo in cui pubblicò Impero insieme al filosofo statunitense Michael Hardt, un libro importante per lo sviluppo dei nuovi movimenti globali, che divenne uno dei bestseller politici più di successo di sempre.

Politica sovversiva

Come fanno tutti i professori, quando mi sedevo nello studio di casa sua, mi offriva il rituale calice di vino bianco e mi interrogava. L’interrogazione consisteva in un fuoco di fila di domande: ti incalzava e, infine, ti sfidava a esprimere un pensiero, a fare un briciolo di analisi, a dare un giudizio. Il voto? Lo dovevi ricavare dall’espressione del viso, una gran risata, un sorriso benevolo oppure un sibilo o una smorfia di rimprovero. E poi dalle mie parole, un breve commento o una lunga dissertazione con cui tirava le somme della conversazione. Ma cosa chiedeva il professore di questa strana materia che ci appassionava e che si sarebbe potuta chiamare Teoria e pratica della politica sovversiva?

«Come è andata la manifestazione, chi c’era dei collettivi, dei sindacati e dei partiti? che composizione sociale c’era in piazza? cosa è accaduto? – E all’assemblea, chi l’ha spuntata? – Che succede all’università? Ti lasciano libero? – Ma quella lotta, quello sciopero, laggiù, che ne sai? è interessante? si può vincere? – Cosa vedi e senti in giro per il mondo, per le città, nei quartieri? – Hai letto questo libro? che ne pensi? – Conosci per caso quel compagno, che ne dici? – E tu, come stai, come te la cavi, che bisogni hai?».

Le interrogazioni erano il preliminare del lavoro politico da fare insieme, collettivamente: produrre inchieste, riviste, seminari, think thank della nuova politica rivoluzionaria, elaborare strategie di lotta puntuali, bonificare e tracciare strade inedite nella giungla della metropoli postfordista, rifare al contrario tutto il percorso dello sfruttamento capitalista per trovare i punti d’attacco.

Ti insegnava, pazientemente, discutendo e praticando insieme, come organizzare ciascuno di quegli strumenti di conoscenza per farne modelli di intervento politico e di avanzamento nello studio. Erano lezioni colme di entusiasmo ed era facile volergli bene.

Contro la leggenda

Toni, contrariamente alla leggenda nera del «cattivo maestro» che lo ha perseguitato per quasi tutta la sua lunga esistenza, aveva infatti delle grandi e rare qualità come professore: la generosa disponibilità, l’umanissima simpatia e, specialmente, un’eccezionale capacità di ascolto, un’attenzione finissima ai fatti del mondo e un’infinita e davvero ingorda curiosità per quelli della vita comune.

E presto capii che tutti i suoi celebri libri, le sue analisi, scritte in quel suo tipico gergo esoterico, le sue ardite scommesse teoriche ed esistenziali, venivano da lì, cioè dall’assorbire e quindi tradurre in categorie politiche, filosofiche ed etiche ciò che ascoltava da noi, come un tempo aveva ascoltato gli operai del petrolchimico di Porto Marghera o quelli dell’automobile all’Alfa di Milano.

Restituiva, nei termini di discorso politico generale, inquadrato in una precisa filosofia della storia – che possedeva, benché non amasse affatto la definizione -, ciò che riteneva di aver appreso dalla vita della collettività, facendosi guidare da una genuina passione per l’eguaglianza e la giustizia sociale. Il solo fine di tutto questo: la fine dello sfruttamento, l’inizio del regno dell’abbondanza, il comunismo.

Se glielo chiedevi, a differenza di altri protagonisti della stagione degli anni ’60 e ’70, raccontava volentieri dei vecchi tempi e cominciava a narrarti la mitologia dell’apprendistato della lotta rivoluzionaria davanti ai cancelli delle fabbriche, come anche nelle osterie, nelle piazze e nei tribunali, nelle soffitte e nelle stanze da letto, nelle aule delle università e persino in spiaggia.

Perché questa era l’ossessione di Toni: scovare dovunque e comunque gli elementi del possibile rovesciamento nel rapporto di forza con il capitale. Raccontava di quegli anni con gaiezza: gli occhi piccoli e neri gli brillavano forte mentre recitava le res gestae dell’autonomia operaia; il suo viso si oscurava solo quando gli capitava di parlare del suo arresto il 7 aprile 1979 e del trattamento da criminale che continuava a ricevere in Italia a distanza di decenni da quei fatti, mentre nel resto del mondo risultava essere uno dei pensatori contemporanei più letti e stimati. Una contraddizione nella sua esistenza che lo addolorava e lo faceva infuriare.

Vita e lotta di classe

Comunque sia, in quel suo riportare qualsiasi passione ed elemento della vita alle regole supreme della lotta di classe, è vero pure che c’era in lui una sorta di cinismo che poteva risultare indigesto. Anche se bisognerebbe aggiungere, almeno così mi è parso di capire nel tempo, che il cinismo è in qualche modo consustanziale alla pratica politica in generale. Il tragico è che il cinismo porta inevitabilmente a infliggere e a ricevere ferite, tradimenti, oltraggi e, infine, non può che deludere. Forse anche a questo si deve una certa amarezza che risuona negli ultimi interventi pubblici di Negri.

Nei giorni in cui terminava il nostro rapporto, avemmo, ad esempio, una discussione molto accesa sull’amicizia. Laddove io sostenevo che l’amicizia doveva essere potenza e base del fare politica nella verità, lui opponeva che ero un illuso, che in politica l’amicizia non era affatto qualcosa di necessario e comunque, nel caso, doveva essere sacrificata sull’altare della necessità.

Probabilmente aveva ragione, se consideriamo la realtà della politica del mondo, ma resto convinto che, senza l’amicizia, senza volersi bene fino in fondo, si rischia seriamente di umiliare e di uccidere il meglio di ciò che siamo, dentro e fra di noi. È molto triste pensare a quanto di bello si è stati capaci di distruggere calpestando l’amicizia in nome delle logiche mondane della politica. Eppure, so con certezza che non è mai l’ultima parola, che lo Spirito è capace di sorprenderci e suturare le più grandi ferite.

Puro marxismo

Al di là di tutte le novità – post-qualcosa – susseguitesi irrequietamente nel suo pensiero e per le quali è oggi generalmente conosciuto, penso invece che, tanto nella teoria che nella prassi, Toni Negri sia stato uno degli ultimi intellettuali militanti puramente marxisti, nel senso di un marxismo sostanzialmente ortodosso e di un leninismo conseguente. Credeva con tutto sé stesso che lo sviluppo delle forze produttive e della cooperazione sociale, che egli considerava tutto sommato come lineare e progressivo, avrebbe necessariamente portato al comunismo.

Di ciò ne era convinto in modo assoluto, fideistico direi. Bisognava solamente trovare la formula giusta dell’organizzazione dei movimenti per forzare l’inerzia e le resistenze della storia. In questo senso, a causa di questa credenza, Toni Negri è stato un uomo fortemente radicato nel Moderno, nelle sue vittorie e nelle sue sconfitte. Ho infatti sempre avuto l’impressione che, a livello teorico, tutte le novità che aveva raccolto strada facendo, specie in Francia e negli USA, fossero, se non qualcosa di ornamentale, semplicemente l’insieme di cose, eventi, strumenti e soggetti che dovevano essere sottomessi alle dure leggi del materialismo storico, a quella che lui chiamava senza alcuna ironia scienza della rivoluzione.

Del suo complesso sistema di pensiero – la linea rossa Machiavelli-Spinoza-Marx, come l’ha descritta più volte nei suoi lavori – non ho mai digerito l’immanentismo radicale. Radicale perché quello del mondo si raddoppia nell’«immanentismo delle soggettività»: mi suonava stonato quel suo ripetere costantemente che «non c’è (niente) fuori» da questo mondo e che, quindi, non c’è trascendenza, non c’è nessun oltre, perché esiste solo materia che si trasforma e si fa sempre più intelligente grazie al lavoro vivo.

Rifiutava con determinazione e anche con una punta di disprezzo, forse espressione di un sacro timore interiore, tutto ciò che gli sembrava toccato dal trascendente, dal mistico, da ciò che è irriducibile al materialismo. Il suo libro su Giobbe, i suoi gioiosi riferimenti a Francesco d’Assisi e persino alla gloria della risurrezione, non devono trarre in inganno, perché vengono da lui tutti riportati dentro un ferreo ateismo militante, rivendicato orgogliosamente come tale.

Ricordo come fosse oggi, il nostro primo incontro nella sua abitazione romana, quando io timidamente gli feci parte della mia passione per Walter Benjamin, del suo messianismo e del tentativo di teologizzare la rivoluzione: ma lui mi riprese severamente, dicendomi testualmente che era un autore pericoloso e che avrei dovuto smettere di leggerlo. Non lo seguii in questo consiglio.

La forza dell’odio

L’altra cosa che non sono mai riuscito veramente a ritenere del suo insegnamento, nonostante ci abbia pure provato, è la centralità che Negri dava all’odio sia in quanto passione conoscitiva che come razionale motore dell’agire. Una volta gli chiesi cosa ne pensasse di un libro pubblicato da un suo vecchio compagno, in cui si narrava di alcuni episodi chiave delle lotte degli anni ’70 a Milano e che, a parecchi di noi giovani, era piaciuto molto. Lui si fece serio e mi disse che no, non gli era piaciuto affatto e anzi lo disapprovava perché «non c’era abbastanza odio».

Onestamente, rimasi senza parole. Personalmente ho sempre creduto, al contrario, di aver cominciato giovanissimo a frequentare i luoghi della lotta politica per amore, sulla spinta di una irragionevole fame e sete di giustizia e d’amore, e credo che ciò mi abbia sempre preservato dal coltivare un sentimento d’odio, per chiunque. Non è affatto vero, come diceva Spinoza, che l’indignazione deriva dall’odio per qualcuno che ha fatto del male ad un altro: mi indigno e mi ribello per amore del fratello offeso, oppresso, umiliato. Ma è proprio per la potenza dell’amore che posso persino arrivare, nella lotta stessa, ad amare anche colui che offende e opprime, ovvero il nemico.

Insomma, fu inevitabile che le nostre strade a un certo punto divergessero. L’ho rivisto un’ultima volta qualche tempo fa, incontrandolo per caso in un ristorante berlinese: mi salutò sorridendo con il pugno alzato.

Tuttavia, negli ultimi scritti e interviste di Negri – al di là delle note di dolore per la guerra e di rabbia per il fascismo avanzante – l’amore pare sovrastare e vincere sull’odio; risuonano, perciò, di una certa religiosità, che, pur se da lui apparentemente risolta sempre nei termini del materialismo militante, si tocca con la rivoluzionaria fede in Cristo Gesù, che io ed altri suoi vecchi allievi abbiamo ritrovato o ricevuto in dono lungo la via.

Malgrado tutto e tutti, caro Toni, indimenticabile professore di rivoluzione, il bene che ti ho voluto resta ben presente e vivo. Chissà se ti avrebbe teneramente sorpreso che alcuni di noi hanno pregato per te nell’ora della tua morte e che nello stesso istante – mi sono poi reso conto – abbiamo proprio tutti sperato che san Francesco fosse lì, sulla soglia di quel «fuori» che è più «dentro» di ogni cosa, ad accoglierti con i suoi e i tuoi poverelli, nella pace e nella gioia del cielo, per preparare ancora e sempre il Regno che viene.

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Un commento

  1. Basaani Marco 2 gennaio 2024

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