Negli anni della mia gioventù, non ho conosciuto personalmente Toni Negri e l’operaismo non mi seduceva. Ero un ventenne nel 1968, di famiglia cattolica, e mi ero avvicinato all’anarchia, insieme ad altri fraterni amici e amiche, che condividevano la stessa voglia di ribellarsi, di reagire.
La distanza dal Partito Comunista si concretizzò immediatamente a partire dall’inimicizia dei comunisti, che, preoccupati solamente del loro stalinista monopolio politico, non capivano, con una inadeguatezza ontologica che si rivelò definitiva negli anni successivi, cosa stava cambiando nel mondo, nella classe operaia e nella società italiana. Ricordo, però, che i vecchi partigiani comunisti ci accoglievano e dialogavano con noi.
Sapevamo di Mario Tronti, Oreste Scalzone, Franco Piperno e Toni Negri, Potere Operaio e Autonomia, ma, fin dall’inizio del nostro approccio giovanile alla politica e al sogno rivoluzionario, eravamo critici radicali del leninismo-trozkismo e dei regimi comunisti di matrice stalinista, rappresentati da stati autoritari e repressori. Amavamo Nestor Makno e i marinai di Danzica, i soviet e l’internazionalismo vero.
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Chi furono i nostri maestri? Per alcuni Bakunin, per uno di noi Kropotkin, e poi Cafiero e Malatesta, il giovane Marx, il Circolo Molinari dei vecchi anarchici mantovani, il nostro Circolo “Gaetano Bresci” e poi il Situazionismo di Guy Debord, seguito da una ulteriore mutazione dello stesso gruppo: il Circolo “Paul Lafargue”, un tempo a Milano vicino a Lotta Continua, la scuola di Francoforte e una pietra preziosa in Walter Benjamin.
Nel 1987, inviato dal vescovo Caporello, da fidei donum, in Brasile, nel Maranhão, dopo il martirio di don Maurizio Maraglio, a partire soprattutto dal pensiero di Enrique Dussel, ho iniziato a visitare e a rivisitare autori marxisti, e tra questi anche Toni Negri; più tardi, a partire dal 2010, anche pensatori dell’Università Nomade – Brasile, inizialmente legati al pensiero negriano, quali Giuseppe Cocco, Bruno Cava Rodrigues, Barbara Szaniecki.
C’è stata anche e, soprattutto, la compagnia importante di teologi come Jon Sobrino e José Comblin. E la compagnia di profezie esistenziali di Helder Câmara, Pedro Casaldàliga, Margherita Alves, Tomás Balduino, Chico Mendes, Claudio Bergamaschi, Josimo Tavares, Dorothy Stang.
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Privilegiato per l’immersione nella vita, spiritualità e culture dei contadini tradizionali in lotta per conquistare la terra e cambiare il mondo, in quei primi anni, ho potuto convivere con una sorprendente grande coralità di masse, con leaders carismatici nativi, pensatori e comandanti militari popolari senza partiti, senza sindacati traditori, senza influenze da parte dei colonizzatori bianchi. Un ciclo di lotte sorprendente, che oggi, infelicemente, appare ridotto e forse irripetibile.
I poveri mi hanno obbligato a processi dolorosi di cambiamento dei registri cattolici, a cui mi ero in parte abituato, e a chiedermi come Gesù benedice ed è fraternamente presente nelle lotte. Ho scoperto che la Parola di Dio, ascoltata a partire dai poveri e nel conflitto – cito Carlos Mesters, Sandro Gallazzi – è luce che illumina i cammini della storia di liberazione dai poteri del tempio, del palazzo e del mercato.
Sono i poteri che il Vangelo ci aiuta a scoprire presenti anche nel nostro intimo e che aspettano cura e conversione. Lottare per la giustizia è fondamentale e legittimo, se, però, anche noi, individualmente, lottiamo ogni giorno per essere giusti. E giusti, secondo la Grazia. Non secondo la Legge.
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Leggo, dunque, la trilogia di Toni Negri e Michael Hardt con uno sguardo latino-americano, con un approccio teologico alla storia, ispirato delle insurrezioni indigene e contadine contro il sistema che continua ad aggredire e a distruggere territori e comunità.
Davanti alla sua morte, non scrivo il classico necrologio, ma non resistendo alla presunzione – e di questo chiedo venia – vorrei poter dire di quanto non sono propriamente d’accordo con lui. Negri è immenso nella sua capacità di assimilare e riflettere su aspetti fondamentali della nostra civiltà occidentale. Cerca modi concettuali nuovi per capire le sfide proposte dai cambiamenti profondi del capitalismo e della tradizione socialista che ha tentato di affrontarlo. Una bibliografia immensa! Certamente non ho capito tutto e forse non ho capito bene, ma rispetto profondamente la sua persona e la sua biografia drammatica, tessuta di ostracismi e di condanne ingiuste.
Fatta questa doverosa premessa, oserei, nonostante tutto, contrapporre alla realtà e al concetto negriano di «moltitudini», che viene presentato come il motore rizomatico[1] della storia, il protagonismo delle minoranze, del pusillus grex, il resto di Israele, le minoranze abramitiche.
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La prima considerazione è che le lotte delle moltitudini che interpellano Negri sembrano frutto di un’ottica prevalentemente eurocentrica, in cui appaiono come esemplari la battaglia de Seattle, nel 1999, le proteste contro il G8 a Genova nel 2001, i World Social Forum di Porto Alegre e di Bombay, mentre rimangono nell’ombra le insorgenze e le lotte di matrice etnica, come la lotta del Chiapas, che segnano indelebilmente le resistenze latinoamericane. Come se tutto ciò non facesse parte irrinunciabile dell’apparire delle moltitudini e delle organizzazioni molecolari in rete.
Più tardi troveranno spazio nel novero negriano le insurrezioni del 2010-2011 nate in Tunisia e in Egitto, che hanno dato il via ad un ciclo: quando milioni di persone del Nord Africa e del Medio Oriente e, poi, in Spagna, Grecia e negli Stati Uniti e, poi ancora, in Turchia, Brasile e Hong Kong, hanno protestato duramente contro i sistemi antidemocratici e contro le guerre, senza però ottenere risultati che possano impedire politiche autoritarie e belliciste.
Le moltitudini mi si presentano sempre indecifrabili, a servizio di una storia cieca e indifferente, senza intenzioni, senza un cuore, senza un progetto, senza spiritualità: solo un essere contro, una rabbia accumulata che esplode, desideri frustrati, negazione che si ferma al grido, alla battaglia campale, ma non indaga la possibilità di confrontare i veri nemici e di abbattere i muri veri.
A volte, sono moltitudini accompagnate da settori intellettuali che cercano di pensare, ma ho l’impressione che si tratta di pensieri che non riescono a sciogliere i nodi della prassi. Difficile capire, per me, come si possa pensare in reti che gestiscono ciò che è comune – il comunismo – in questo groviglio, o riuscire a intravedere un servizio al bene comune: moltitudine che pare non sapere come cambiare vita e come cambiare il mondo.
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Rivolte che, come in Brasile nel giugno del 2013, sono represse violentemente dalla polizia dello stato governato dal Partito dei Lavoratori, dalla sinistra lulo-dilmista, che, per vocazione storica, avrebbero dovuto difenderli e rappresentarli. Questa sinistra, in nome della governabilità elettorale e guidata dalla presunzione, che si sta rivelando sempre più equivocata, di essere l’unica forza politica abilitata ad affrontare la nuova estrema-destra, definisce il movimento di giugno come un congiunto di azioni terroristiche, un complotto fascista, arrivando, in deliri antiimperialisti, a speculare sulla possibile influenza e appoggio della CIA alle manifestazioni. Così, alla fine, contribuisce a rafforzare la base popolare bolsonarista e favorisce il potere degli aspiranti dittatori, appoggiati dalle forze armate.
Moltitudini che dovrebbero essere come l’emergere dell’acqua limpida di fiumi carsici nascosti, ma attivi, ma che, pessimisticamente, mi sembrano eserciti di schiavi, prigionieri di un sistema, perfettamente introiettato e naturalizzato.
Inoltre, a completare il disastro, abbiamo una sinistra, ormai globalizzata nel suo tradimento imperdonabile dei valori ancora importanti delle tradizioni rivoluzionarie: temi universali come la giustizia, la fraternità e la lotta antisistemica contro il capitalismo.
Moltitudini, che raramente intendono affrontare teologicamente e spiritualmente le teologie diaboliche dei fondamentalismi e tradizionalismi nostrani e non capiscono che, senza il nano dell’automa di Benjamin[2] non è possibile affrontare la reazione dei «Dio-Patria-Famiglia» e nemmeno, ovviamente le aggressioni, con ispirazioni teologiche analoghe, dell’Ortodossia Panrussa e della Jihad islamica, in piede di guerra contro l’Occidente «pervertito e corrotto».
Moltitudini, quindi, come sintomo ontologico di una immanenza, che usurpa e cancella qualunque teologia e teleologia, che recupera gli umani come inconsapevoli macchine desideranti, come somma di singolarità differenziate che, però, non può affrontare le sfide-chiave della crisi dell’Occidente: cambiamenti climatici, migrazioni, guerre, fame, inalterabilità della matrice energetica, transumanismo e bioingegneria, dittatura digitale. Moltitudine incosciente, che non possiede le leve per cominciare a cambiare il mondo.
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E non è forse una ingenuità pensare che il rizomatico capitale, che controlla i nuovi e complessi sistemi di produzione possa cedere pacificamente i fondamenti della sua ricchezza e del suo potere politico alle pressioni di cangianti moltitudini?
Insomma, la moltitudine mi sembra un soggetto che non è un soggetto. E non riesce a sostituire la classe, come somma di soggetti rivoluzionari, che oggi, insieme alla classe operaia, è quasi scomparsa come coscienza e come concetto. Moltitudine, che sembra resistere bene al controllo, alla disciplina, all’organizzazione del capitale, al foucaultiano biopotere, ma al prezzo di annullare ogni trascendenza.
Ci imbattiamo poi quasi in una riedizione della mistica hippie: l’esodo della moltitudine dai territori, dalla subordinazione e disciplina dell’impero. Non si tratterebbe forse di una enfatizzazione perniciosa dei desideri di ego, che fingono di non vedere il dolore e il sangue sparso quotidianamente da milioni di vittime dei protocolli di sterminio del capitalismo?
È un esodo senza Messia e senza messianismi, senza terra promessa, senza sole dell’avvenire, senza kairós, prigioniero di un indefinito tempo cronologico.
Credo, insomma, che, guidati dal Vangelo, siamo chiamati a ribadire la nostra posizione teologica nel dibattito sulla teologia della storia, fuggendo, ovviamente, da ogni integralismo e fanatismo.
Alla profezia di Toni Negri oppongo un’altra profezia: la lettura e la presenza nella storia inspirate dall’Evento-Cristo. E, al posto delle moltitudini, le minoranze che lottano per il sumak kawsay, la pienezza della Vita nella lingua andina quechua, e per la Yvy marã e’ỹ, la Terra senza male nell’idioma Guaranì: terra senza ingiustizie, senza fame e senza guerre. Sono teologie che hanno resistito all’invasione e alla colonizzazione iberica e che pensano il mondo prima del diritto e oltre il diritto romano e liberale.
Al posto delle moltitudini i piccoli greggi, minoranze guidate dalla fede in Gesù, dalla presenza dei Santi e delle Sante degli Orixás, degli Encantados e Encantadas dei popoli originari, dei Quilombolas, delle comunità tradizionali contadine. Un’alleanza spirituale di trascendenze che suonano la stessa melodia della Vita e che non obbediscono alle logiche della conquista del potere e hanno perduto la paura della morte.
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Ricordo, con nostalgia, la scelta di rivoluzionari come Emiliano Zapata e Pancho Villa, che dopo aver vinto l’ultima battaglia della rivoluzione (1914), entrano a Città del Messico, occupano il palazzo del governo, si lasciano fotografare per lasciare l’ultima memoria e poi tornano a casa loro, per continuare la lotta contro il latifondo. Zapata è il maestro dell’insorgenza di Chiapas, negazione dello stato in nome di autonomie territoriali animate dagli ancestrali.
Per me l’unico prezioso tesoro che ereditiamo dall’Occidente è il Regno presente e nascosto, rivelato da Gesù. La chiave salvifica e interpretativa della storia dell’umanità e dell’universo che ci è donata dall’infinita impotenza del Dio crocefisso. Gesù si riveste di umanità vera fin dalla nascita, nella vita nascosta di Nazareth – i trent’anni che sedussero Charles de Foucauld -, nella vita pubblica in cui affronta, per amore e con amore, i padroni del tempio e del palazzo. Fino al Calvario. Fino all’Inferno.
Una battaglia accanto ai poveri, ai derelitti, a coloro che son considerati impuri e peccatori, pastori e pescatori, ladri, esattori delle tasse, prostitute. Sono questi scarti dell’umanità i protagonisti di un Regno, che non necessita della dialettica materialista per realizzarsi, perché è qui, tra noi, come dono, vocazione e compito, presente tutte le volte che ci lasciamo abbracciare dalla Parola di Gesù, il Risorto. Oggi. Adesso.
Non è accettabile delegare all’ambito del tempo cronologico la responsabilità della soluzione degli enigmi della storia. È da tempo maturata la possibilità di abbandonare definitivamente le illusioni del materialismo dialettico, perché qualsiasi rivoluzione, anche quella che finalmente potrebbe essere un successo, non è riuscita e non riuscirà a riscattare l’immensità delle sofferenze e dei dolori seminati lungo la storia. Una rivoluzione vera, che fino ad oggi non è stata mai realizzata, potrà beneficiare nuove generazioni. Ma il passato immodificabile sarà sempre guardato con orrore dall’Angelo Nuovo di Benjamin[3].
Sono queste amorose minoranze dei piccolini e delle piccoline di Gesù che trasformano il mondo. Sono minoranze martiriali, sempre incomprese, odiate e perseguitate, ma piccolo gregge, resto fedele, che non ha più paura della sconfitta e della morte, perché risorge con Gesù di Nazareth. Perché gli è stato donato il segreto della Vita.
[1] Quando parliamo di ‘rizomi’ e ‘macchine desideranti’ ci riferiamo ad una rivoluzione del pensiero contemporaneo che appare con il libro del 1972 L’Anti-Edipo. Capitalismo e Schizofrenia di Gilles Deleuze e Felix Guattari, che traduce il clima del 1968 e inspira le lotte degli anni 70.
[2] “Si dice che ci fosse un automa costruito in modo tale da rispondere, ad ogni mossa di un giocatore di scacchi, con una contromossa che gli assicurava la vittoria. Un fantoccio in veste da turco, con una pipa in bocca, sedeva di fronte alla scacchiera, poggiata su un’ampia tavola. Un sistema di specchi suscitava l’illusione che questa tavola fosse trasparente da tutte le parti. In realtà c’era accoccolato un nano gobbo, che era un asso nel gioco degli scacchi e che guidava per mezzo di fili la mano del burattino. Qualcosa di simile a questo apparecchio si può immaginare nella filosofia. Vincere deve sempre il fantoccio chiamato “materialismo storico”. Esso puo’ farcela senz’altro con chiunque se prende al suo servizio la teologia, che oggi, com’e’ noto, è piccola e brutta, e che non deve farsi scorgere da nessuno.” (Walter Benjamin, Angelus novus. Saggi e frammenti, Einaudi, Torino 1962).
[3] “C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta.” (Walter Benjamin, Angelus novus. Saggi e frammenti, Einaudi, Torino 1962).