«Porto con me, come povera dote, ciò che ho cercato di imparare e di vivere in questi ormai quarant’anni di vita religiosa francescana, che si riassume nella fraternità»: con queste parole il nuovo vescovo di Genova, mons. Marco Tasca, si è presentato ai fedeli della diocesi, subito dopo l’annuncio della nomina (8 maggio).
Nato nel 1957 a Piove di Sacco (Padova) entra nel 1968 nell’ordine dei Frati minori conventuali – una delle tre famiglie religiose maschili che si riferiscono al carisma di san Francesco, assieme ai minori e ai cappuccini – e diventa prete nel 1983. Licenziato in psicologia e teologia riveste ruoli direttivi nella provincia religiosa, insegnando catechetica nell’Istituto teologico “Sant’Antonio Dottore”. Ministro provinciale nel 2005, viene eletto ministro generale dal capitolo nel 2007. Ruolo che ha rivestito fino al 2019 per poi tornare da semplice religioso nella sua provincia di origine.
È possibile ritrovare tracce della sua esperienza francescana nella dozzina di lettere che da ministro generale ha scritto ai suoi frati. Senza pretendere in nessun modo che il contenuto del suo insegnamento possa essere trasferito direttamente nel lavoro pastorale di una diocesi, tuttavia è possibile riconoscere gli elementi ispirativi, le insistenze più ripetute, le forme più consuete che, in altra maniera, torneranno anche nel suo magistero pastorale. Le sintetizzerei attorno a nove parole.
Sine glossa
Peccato. Lo sguardo francescano sull’uomo è molto positivo, come sull’intera creazione. Ma l’uomo è l’unica creatura capace di non ascoltare la voce del Signore, di «crocifiggerlo col dilettarsi nei vizi e nei peccati» (Fonti francescane, 153-154). Nel linguaggio di Francesco «questa espressione significa ripiegarsi su di sé nell’illusione di essere autosufficienti, di auto realizzarsi al di fuori della comunione con Dio e con i fratelli». La sottovalutazione del peccato si ammanta di un eccesso d’ottimismo sulle capacità dell’uomo, ignorando che «il peccato esiste ed è tremendamente efficace nella vita dell’uomo». Solo questo sguardo realistico permette di apprezzare la forza della redenzione in Cristo che colma l’umanamente incolmabile. È questo che permette a ogni cammino umano, anche il più sbagliato, di essere oggetto di misericordia e di salvezza. Ciò che rende possibile guardare al mondo contemporaneo non col giudizio, ma con la misericordia, «di entrare in alleanza con l’uomo dei nostri giorni, vicino agli ultimi e ai peccatori».
Radicalità. Essa può essere efficacemente sintetizzata nel linguaggio di Francesco con l’espressione Vangelo «sine glossa», senza commento, o nell’espressione «vivere da cristiano». «Ritengo che il sapore di evangelica genuinità che promana dall’esperienza di Francesco sia da ricercare nel fatto che, come modello di radicalità, egli attinge alla fonte stessa della radicalità che è il vangelo». Lo stile di vita che da qui nasce ha preso il nome di «minorità». «Non una filosofia di vita, né uno sterile atteggiamento di facciata, ma una modalità concreta di seguire il divino maestro».
Dono della vita
Cristo al centro. «L’incontro con Cristo è l’esperienza fondamentale per ogni cristiano, mediata dalla fede che ne è l’elemento indispensabile … La nostra opzione con Cristo deve fondarsi su un’esperienza concreta di incontro con lui, e di qui alimentarsi e sostenersi. Un simile, fondamentale incontro non può essere surrogato in alcun modo: ciascuno di noi è chiamato a incontrare il Signore nelle strade della propria vita, a riconoscerlo viandante e trasformarlo in compagno di viaggio». «Non saranno nuove leggi giuridiche e nemmeno l’applicazione più rigida delle norme morali a produrre il cambiamento desiderato, ma la pratica convinta dell’intimità con Gesù che ci rende discepoli missionari, ovvero persone che, avendo sperimentato la forza sanante e liberante del Vangelo, ne diventano comunicatori».
Martirio. La tradizione francescana, anche recente, ha a che fare con l’esperienza del martirio. Sebbene scarsamente percepita nella sensibilità cristiana d’oggi è una delle caratteristiche maggiori dell’esperienza ecclesiale “cattolica”, cioè universale. Sono oltre 240 milioni i cristiani esposti alla persecuzione. I casi più noti fra i conventuali sono p. Massimiliano Kolbe, riconosciuto come martire della carità dopo la sua immolazione al posto di un compagno di prigionia a Auschwitz (1941), e due confratelli, Miguel Tomaszek e Sbigniew Strzalokoski, uccisi dal gruppo guerrigliero di Sendero luminoso in Perù nel 1991. Quando nel 2015 è stato approvato il decreto sul martirio, p. Tasca, scrive: «Ho provato una grande gioia e al contempo mi sono ricordato le parole di san Francesco di fronte alla reazione dei frati che magnificavano il luminoso martirio dei cinque protomartiri uccisi in Marocco il 16 gennaio 1220: “Ognuno si glori del proprio martirio e non di quello degli altri”. Sì, perché il martirio è il centro incandescente del cristianesimo, il luogo in cui l’amore a Dio e ai fratelli (anche carnefici) si dispiega in totalità. E si tratta di un roveto ardente al quale possiamo avvicinarci solo a piedi nudi, purificati da ogni vanità terrena».
Povertà. Per una Chiesa povera e per i poveri «va superata la lettura della povertà intesa solo come virtù personale, per recuperare il fondamentale aggancio cristologico e la sua esplicitazione ecclesiale, così come la sua carica di umanizzazione personale in vista della solidarietà con ogni fratello». Si può rendere anche con il termine sobrietà, «saper distogliere lo sguardo dal proprio interesse particolare per dilatare il cuore e il respiro a una dimensione più ampia e feconda».
Amare questa Chiesa
Missione. «Perché abbiamo in larga misura perso il dinamismo missionario e il coraggio di penetrare in terre nuove, non solo geografiche ma soprattutto umane e culturali? Perché sembra essere più forte la spinta a salvare il salvabile, rimanendo ancorati alle nostre piccole certezze, anziché lasciarci trasportare dal desiderio di prendere il largo e di gettare nuovamente le reti? Perché preferiamo spegnere i nostri sogni piuttosto che nutrirli di Vangelo e rischiare la profezia?». «La missione è una caratteristica costitutiva della Chiesa di Cristo e in quanto tale interessa ogni cristiano».
Appartenenza alla Chiesa. «Siamo chiamati a riproporre l’atteggiamento di incondizionato amore alla Chiesa. In concreto, visto che la Chiesa non è un’entità astratta né una mera teoria sulla quale dibattere, questo atteggiamento si manifesta – oltreché nell’obbedienza al magistero nelle sua varie forme – in una piena integrazione nel cammino delle diverse chiese particolari nelle quali ci troviamo a vivere e operare: non dobbiamo dimenticare che la vita religiosa è un carisma per la vita della Chiesa e fruttifica solo in seno al popolo di Dio».
Formazione. «La formazione è per sua propria natura permanente, giacché nessuno può dire in verità di essersi conformato pienamente definitivamente a Cristo – obiettivo ultimo della formazione – una volta per tutte. Pertanto la formazione è compito per tutta la vita, è un processo che non cessa mai. Limitare la formazione a una determinata stagione della vita equivarrebbe a rinunciare alla possibilità di crescere nella conformazione a Cristo».
Lavoro. «Che senso dare dunque al nostro lavoro, nel quale si trova anche l’espressione della nostra minorità, del nostro voto di povertà, della nostra scelta di abbracciare il “sine proprio”? Ecco che ancora una volta ci viene in soccorso la sobrietà come stile di vita che incarna il valore evangelico-francescano della povertà, intesa non tanto come penuria dei beni materiali ma come capacità di gestione degli stessi e come ricerca pratica di mezzi concreti di auto sostentamento». «Pertanto i nostri giovani dovranno essere educati al lavoro manuale, a forme di auto sostentamento, alla trasparenza nell’uso dei beni e del denaro».
Si potevano scegliere molte altre parole, come fraternità o regola, più pervasive nei testi e però più legate alla vita religiosa. Fra i temi il più curioso e originale è quello del cibo. Una intera lettera nel 2015 («Cibo che nutre») svolge il tema del mangiare e del mangiare assieme, in un sistematico riferimento ai poveri che non hanno di che vivere e all’eucaristia che rappresenta il pane della vita e il centro della fede. I brevi cenni indicati sono tuttavia sufficienti a prevedere un cambiamento non irrilevante nella sensibilità della Chiesa genovese.