Libro frutto di caparbietà e tenacia questo di Brunetto Salvarani. E di tanta e preziosa informazione raccolta e vissuta in anni di appassionato e personale impegno nel campo del dialogo cristiano-ebraico.
Una continua sfida aperta, questa, dell’incontro con l’universo ebraico, sospeso ancora oggi più alla buona volontà di poche persone che non ad una teologia matura, capace di illuminare i passi di un cammino che, come ai nostri giorni, non è mai al riparo da imprevedibili fatiche e battute d’arresto.
Se poi si guarda alla storia – come ci aiuta a fare l’autore –, si può cogliere la drammatica fatica di una presa di coscienza che matura solo nel primo dopoguerra, quando la mentalità delle logiche del disprezzo aveva dato la micidiale e macabra prova del potenziale di morte che poteva trascinare con sé.
Verrebbe quindi da dire che tale dialogo risulta impossibile. «Un dialogo che, sul piano religioso, il filosofo francese Dan Arbib definisce – paradossalmente ma non troppo – impossibile, ma nondimeno necessario, e teologicamente richiesto». (15)
Non solo. Dialogo «cruciale – scrive l’autore – anche per la mia identità di cristiano». (15) Una questione apparentemente soltanto di natura personale (“la mia fede”), in realtà è propriamente questione di Chiesa (la fede della Chiesa), tutta intera, della sua vita spirituale e della sua missione nel mondo, addirittura del suo futuro stesso, come scriveva il card. C.M. Martini. (cf. 63-64; 66; 26 n.6;)
Sulla stessa lunghezza d’onda il vescovo Erio Castellucci, per il quale la posta in gioco del dialogo non riguarda qualche ritocco qua e là della dottrina sulla Chiesa, bensì un suo ripensamento globale. (45)
Questo aspetto di fondo del dialogo cristiano-ebraico e la relativa ricaduta sull’autocomprensione ecclesiale, non è ancora diventato mentalità acquisita, come sottolinea a più riprese Brunetto Salvarani. La forza profetica di Martini e di quanti come lui è quella di aver colto che la questione del dialogo non è solo strategia di buon vicinato, ma è sfida interna alla Chiesa, al suo cammino futuro e alla sua identità.
Ne va, quindi, dell’identità personale del cristiano, ne va del dialogo della Chiesa con sé stessa in un cammino comune con Israele (cf. 142), ne va del futuro delle Chiese cristiane secondo la prospettiva dell’autore (33-34), ne va dell’accesso a una forma di verità che si propone, perciò, necessariamente, come segnata da un’irriducibile e irrinunciabile apertura all’alterità dell’altro.
Se questo è vero, verrebbe da dire che il resto che rimane ancora da fare non è più compito degli uomini e delle donne; essi, infatti, avrebbero già fatto tutto il necessario affinché Dio stesso sia messo nelle condizioni di agire, così come vuole la logica evangelica di tanti incontri di guarigione. Tuttavia, il “poco” che devono fare, non possono esimersi dal farlo. È un invito alla ricerca del dialogo in forma concreta – come lo è questo libro –, favorendolo in ogni modo possibile (cf. 19), perché questo, è un percorso difficile anche per Dio.
Il libro è ricco di date storiche importanti, che sono riferimenti indispensabili per i non addetti ai lavori. «L’avvio ufficiale di qualche serio indizio di dialogo risale a neppure ottant’anni fa: in genere, si adotta come riferimento la conferenza internazionale svoltasi dal 30 luglio al 5 agosto 1947 in quel di Seelisberg, in Svizzera nel Canton Uri, dove i settanta intellettuali ivi convenuti (cattolici, protestanti ed ebrei di diciannove Paesi diversi) su invito dell’associazione statunitense National Council of Christians and Jews si coalizzarono per verificare la possibilità di una cooperazione fattiva nella lotta contro l’antisemitismo». (54)
Il documento finale, ispirato dallo storico francese Jules Isaac, conosciuto come I dieci punti di Seelisberg, favorirà la nascita a Parigi nel 1948 dell’associazione dell’Amicizia ebraico-cristiana da cui prenderanno vita, a livello internazionale, numerose sezioni locali. «Nel 1961 l’associazione francese, insieme alle consorelle via via nate in Germania, Italia, Svizzera e Gran Bretagna, fonda l’International Consultative Committee, che diverrà nel ’74 l’International Council of Christians and Jews». (54)
Per il dialogo in Italia la data importante è il 17 gennaio, la Giornata del dialogo, avviata dai vescovi italiani nel lontano 1990, a ridosso della settimana di preghiera per l’unità dei cristiani e il 27 gennaio, la Giornata della memoria. Ma, prima ancora, vi è la seconda guerra mondiale (1939-1945), la nascita dello Stato israeliano nel 1948 e, infine, per la storia drammatica e spaventosa dei nostri giorni, quel 7 ottobre 2023 «che rimanda alla necessità di elaborare un paradigma inedito nel dialogo fra cristiani ed ebrei. Tutto da pensare, tutto da costruire, e sul quale occorrerà esercitarsi a fondo da parte di chi intenda dedicarvisi». (21)
Non vanno dimenticati i venti secoli che precedono l’evento del concilio Vaticano II con Nostra aetate e che cominciano, in qualche maniera, con la nascita delle prime comunità cristiane; un tempo lungo, che registra una costante difficoltà dei rapporti tra ebrei e cristiani e l’emergere di alcuni scogli teologici che hanno segnato profondamente il passo del futuro cammino comune.
Tra questi, il più persistente è la teoria sostituzionista, la quale risolveva il rapporto tra Israele e la Chiesa in termini di successione e del passaggio di eredità dell’uno nell’altra. Toccando principalmente il nesso di questo rapporto tra Israele e Chiesa, essa pone in primo piano la riflessione ecclesiologica (cf. 37-38).
Importanti al riguardo le parole di Giovanni Paolo II a Mainz il 17 novembre 1980 sull’alleanza mai revocata, sia perché i doni divini sono irrevocabili (Rm 11,29) sia perché la svolta di Nostra aetate permette alla realtà della rivelazione di liberare tesori rimasti ancora nascosti, al riparo da ogni possibile marcionismo di rigurgito, nascosto in formule come “vero Israele” usate in ambito ecclesiologico. Alla teologia spetta il compito di un ripensamento ancora più profondo, quello di un’ecclesiologia della relazione con Israele tenuto conto dell’attuale autocomprensione del popolo ebraico (cf. 45).
«Altri spunti in funzione del cammino da intraprendere verranno di nuovo dal magistero cattolico e, in particolare, dai Sussidi per una corretta interpretazione dell’ebraismo del 1985, […], che esortano la Chiesa a inserire a fondo nella propria autocoscienza la prospettiva escatologica, declinandola in relazione alle due principali categorie ecclesiologiche del Vaticano II: corpo di Cristo e popolo di Dio». (46)
La figura di Gesù, ebreo per sempre, e il vangelo come libro totalmente ebraico – secondo la condivisibile tesi dell’ebreo americano Daniel Boyarin, tra i massimi talmudisti mondiali – rimangono, ai fini del dialogo, il passaggio obbligato di un interesse di primo piano e, al contempo – scrive Salvarani –, «autentica pietra d’inciampo e unico reale nodo strategico, a conti fatti». (52)
Oggi, ancora, le profetiche aperture di Nostra aetate, in particolare il paragrafo 4, vanno rilanciate, magari a partire da ciò che lo stesso Concilio chiama popolo di Dio, espressione non così ben chiara.
La fecondità della svolta radicale di Nostra aetate (anche nella condanna di ogni forma di antisemitismo) rende possibile non soltanto la ridefinizione di linguaggi e pensieri del passato che attendevano una ritrovata chiarezza, ma apre possibilità nuove sul futuro del dialogo cristiano-ebraico e sulla stessa autocomprensione della Chiesa.
La permanenza del popolo d’Israele, categoria teologica imprescindibile, impone alla Chiesa un continuo e mai compiuto ripensamento di sé stessa, non fosse che per il conseguente carattere pellegrinante in vista della pienezza escatologica. «Suggestiva ipotesi ecclesiologica» e chance offerta dei tempi moderni: messa in soffitta ogni forma di sostituzionismo statico, i tempi moderni restituiscono al dialogo ciò che più gli appartiene, cioè il dinamismo di un tratto di strada insieme che è fecondo solo perché incerto e perciò credibile.
Nostra aetate non mostra alcun limite circa la concezione della radice ebraica del cristianesimo e sulla possibilità di ritrovarsi insieme alla fine dei tempi; non così coraggiosa circa l’oggi della storia evitando di considerare gli ebrei un popolo; inoltre, «la difficoltà di riconoscere la realtà attuale degli ebrei si traduce nella resistenza ad assumere una posizione chiara e forte sulla responsabilità della Chiesa per l’antisemitismo storico e per la Shoah». (67) Deprecazione invece che condanna ne è indizio chiaro.
Per Nostra aetate si rende infatti necessario un documento ulteriore, dal titolo Orientamenti e suggerimenti per l’applicazione della dichiarazione “Nostra aetate” (n. 4), datato 1° dicembre 1974. In effetti, la denominazione canonicamente inedita di “dichiarazione” ha permesso al concilio di trattare tematiche anche nuove, che avrebbero potuto incontrare resistenze in fase di consenso conciliare. Documenti che avrebbero, quindi, richiesto sussidi e orientamenti ulteriori, proprio come è stato il caso di Nostra aetate.
Si prosegue, nell’eccellente capitolo 4 del libro, con i due eventi che segnano la storia ebraica nel 900, Auschwitz e la nascita dello Stato d’Israele (1948).
Auschwitz non è un’eccezione patologica, ma «il genocidio ebraico, compiutosi nel cuore stesso di quella cultura europea e cristiana che era stata la culla della modernità, è e continuerà a essere la matrice fondamentale per la comprensione del nostro tempo storico». (Bruno Segre, cf. 105) Segna la storia ebraica e la coscienza cristiana come una cesura drammatica e impone sguardi nuovi per la teologia e il Magistero.
Quale drammatica cecità, la nostra! Non avevamo intravisto nulla, non abbiamo visto il nulla che sedeva nel cuore del nostro mondo moderno. Da parte ebraica, la teologia non sa rispondere. Da parte cristiana, siamo messi «in questione in primo luogo dal problema della responsabilità della Chiesa, perché – scrive l’autore – «non c’è dubbio che Auschwitz non sarebbe accaduto se non ci fossero stati i secoli precedenti dell’antigiudaismo cristiano; e poi, perciò, dalla necessità di chiedere perdono a Israele, e ancora, di convertirsi a Dio». (111) E, continua Salvarani, «c’è quindi la questione, per il cristiano, di realizzare una figura di cristianesimo che – dopo la Shoah – gli è concessa, in qualche modo imposta». (111) Non è cosa da poco.
Sono le pagine delle domande fondamentali sia da parte ebraica verso Dio sia per il cristianesimo che ha davanti a sé la possibilità – anzi no! l’obbligo – di un radicale ripensamento. La domanda che resta viva è: perché mai i nazisti decisero di cancellare gli ebrei dalla faccia della terra? (Cf. 111-112)
Sulla nascita dello Stato di Israele e, perciò, anche sulla città di Gerusalemme, Brunetto Salvarani si muove, ancor più che nel resto del libro, su registri diversi che vanno dalla storia alla letteratura, dalla teologia ai maestri del Talmud, a figure ispirate come il domenicano Bruno Hussar (1911-1996), fondatore nel 1972 del villaggio Neve Shalom–Waahat al-Salaam, nel quale è stata possibile e lo è tutt’ora la convivenza di famiglie di ebrei e di palestinesi.
Anche qui, come nel dialogo cristiano-ebraico, non sono le religioni a dialogare tra loro, operazione impossibile (cf. 115); ma è sempre un dialogo tra uomini e donne con altri uomini e donne, dialogo tra persone, dialogo tra popoli, ponendo la massima attenzione a non ridurre mai, per nessun motivo, l’alterità dell’altro a pura cosa, perché tale processo genera inevitabilmente violenza. Grandi maestri ebrei come David Hartman (132-136) e come Emmanuel Lévinas (121-122) hanno consegnato parole decisive al riguardo. Quale altra città, se non Gerusalemme, può essere icona non già di città dell’alto, ma dell’altro?
Alla fine del libro ritorna, quasi a chiusura d’inclusione, la data del 17 gennaio, con la quale l’autore aveva aperto il libro. Con amarezza Brunetto Salvarani ammette che questo appuntamento annuale non è diventato ancora senso comune, «restando un fenomeno di élite giocato in gran parte sulla buona volontà dei singoli, più o meno avvertiti» (156). Sarebbe stato bello, nonostante tutto, potersi fermare a questa data del 17 gennaio, perché, in realtà, i problemi sollevati dalla data successiva, il 7 ottobre 2023, renderebbero tutto il resto quasi un compito piacevole da svolgere.
Ora le cose si sono complicate. Resta chiara la coscienza che la posta in gioco del dialogo cristiano-ebraico è molto alta, che il lavoro da fare è notevole per mole e per qualità. Che ci si può anche scoraggiare. In fondo si è solo all’inizio, siamo più vicini al balbettio che non al dialogo. Qualche segno di speranza Brunetto Salvarani lo lascia intuire nelle ultime pagine, sotto il segno di un cambio di paradigma…
In ballo c’è una conversione profonda del cuore e un’ascesi dell’attesa. L’autore, dopo queste pagine nelle quali la qualità della scrittura rende scorrevole ogni tipo di ragionamento, dice le parole che sole hanno il potere di trasformare l’amara desolazione di una resa in una dolcissima nota di speranza: «Per questo, mi piace chiudere queste pagine che, da parte mia, voglio considerare in primo luogo una dichiarazione d’amore e la testimonianza di una passione». (163)
- BRUNETTO SALVARANI, Un percorso difficile anche per Dio. Sul futuro del dialogo cristiano-ebraico, Prefazione del vescovo di Pinerolo, Derio Olivero, Effatà Editrice, Cantalupa, Torino 2024, pp. 176, € 18,00, ISBN 9788869295140.
Mi pare che la conversione della Chiesa sia di là da cominciare, quando le si continua ad adossare tutte le colpe di questo mondo. Indubbiamente ciò avviene perché il teologo vede solo il protagonismo della compagine ecclesiale e non considera invece il resto degli apporti culturali. Egli parte dal suo punto di vista e non coglie quello degli altri, autori, pure essi, della storia mondiale.