English version below.
Lo scrittore e sinologo cattolico Simon Leys[1] ha cercato di concentrarsi sempre sulla verità, sull’essenza, come ha scritto nella sua raccolta di saggi “La sala dell’inutilità”.
Spiegava che il compito dell’artista cinese non era quello di riprodurre oggetti della realtà, non era quello di riprodurre gli effetti e le illusioni della visione, non era nemmeno quello di creare qualcosa di bello. Questi sono tutti approcci propri della cultura e dell’arte occidentale. Il compito dell’artista cinese era quello di catturare l’essenza di un luogo, di una situazione, di un momento, e di comunicare questa essenza nel modo più efficace. Si trattava di cercare di essere se stessi nel modo più vero.
Nel saggio “Etica ed estetica” cita il calligrafo Liu Xizai: “Nella calligrafia non è difficile piacere; ciò che è difficile non è cercare di piacere. Il desiderio di piacere rende la scrittura banale; la sua assenza la rende ingenua e vera”. E per chiarire ulteriormente il punto, cita Stendhal, che scrive: “Credo che per essere grandi in qualcosa, bisogna essere sé stessi”, e Wittgenstein, che commenta Tolstoj: “C’è un vero uomo che ha il diritto di parlare”.
Ciò che rendeva Leys più notevole era la sua profondità, il suo continuo sforzo di cercare di andare al fondo delle cose, di capirle e di renderle con la grande semplicità propria delle persone che le hanno realmente affrontate.
Con Leys il mondo ha perso un occhio unico sulle cose, un occhio di onestà intellettuale e di profondità, che dovrebbe essere la caratteristica di ogni intellettuale.
Prendendo spunto da lui, voglio dire che non so quasi nulla di teologia o di Sacre Scritture, eppure c’è qualcosa nel concetto di un Dio che rinuncia a sé stesso per diventare cibo per l’anima di tutti gli uomini che è sconvolgente e incredibilmente bello. C’è qualcosa nella storia, nell’organizzazione e nella vastità della Chiesa che è scioccante. Forse i veri teologi possono trovare qualcosa che valga una riflessione su questo.
Sentire il divino
Sentiamo il divino, è una sensazione innegabile e per secoli questa sensazione ha trovato una mediazione con la ragione, che ha cercato di spiegare il divino in termini ragionevoli, in occidente. La relazione si è rotto con la modernità e l’illuminismo per l’apporto di un concetto cinese, il non agire, wuwei. Il wuwei viene da una tradizione diversa.
Nel terzo secolo a.C. Zhuangzi prova che la ragione è inaffidabile e “non funziona”. La risposta fu allora non di inseguire la razionalità, ma di razionalizzare la realtà, modificarla, gli uomini si devono arrendere al ciclo delle cose (non agire wuwei) e l’ordine divino è portato da un re-semidio che informa la realtà. Se c’è un errore la realtà deve essere modificata o il re-semidio deve essere sostituito. La divinità è nel mantenimento dell’ordine sociale e naturale.
In Occidente invece Platone aveva vinto il dibattito e la regione poteva avvicinarsi progressivamente alla verità perfetta che comunque restava irraggiungibile. Si aveva una ragione perfettibile, fallace, ma affidabile nella sua proiezione verso la verità-dio che resta al di là, metafisico.
Il concetto di non agire e fede nel flusso delle cose, arriva in Occidente dal 17°, 18° secolo senza il costrutto politico imperiale e diventa fede atea nella realtà, dio viene espulso dalla ragione e ragionevolezza. Il divino diventa un qualcosa di irrazionale.
Oggi però i limiti della modernità e dopo Popper e Fayerabend il delineare una scienza perfettibile riaprono lo spazio a una fede ragionevole e razionale dove l’idea di un dio che si da in sacrificio per l’uomo, si fa mangiare dagli uomini, appare bello, ragionevole per rompere le sofferenze della vita.
Dio e uomo
Il rapporto tra uomo e Dio è cercato dall’uomo che sente un divino intorno a sé e tenta di dargli forma comprensibile per lui in quel momento storico. Ma questo divino sfugge a una definizione, comprensione completa e avanza, cambia con il cambiare della storia, e dell’evoluzione delle conoscenze umane. Così all’uomo può sembrare che, per quanti sforzi faccia, non riesce a negare il divino né a comprenderlo in maniera chiara, quindi appare che il rapporto tra dio e uomo è nelle mani di Dio non dell’uomo.
Qui si aprono due fronti uno strutturale, di cosa sia la forma della religione, e l’altro forse del rapporto personale con il divino
Religione
Cosa è la religione? Elaborare una favola e una serie di pratiche rituali intorno a una sensazione di divino che percepiamo al fine di dare una qualche forma al divino, una forma che corrisponda a quello che capiamo. Non c’è nella vita nulla di più vero di ciò, a meno di scientemente negare il divino che sentiamo in ogni istante.
Quindi la ricerca della verità è la ricerca di capire questo divino che c’è intorno. Quindi dio non è contrario alla scienza, la scienza ci avvicina a dio, ci aiuta a capire il divino meglio, al passo coi tempi.
La scienza è una retorica con delle regole molto precise, come la definiscono filosofi della scienza come Feyerabend o Pera, ma è pur sempre una retorica. Essa si concentra intorno alla ricerca di una verità per alcuni settori del sapere. Ma così è la religione, l’elaborazione di una “storia” secondo una retorica concordata. Le regole sono diverse, soprattutto la religione non è “matematizzabile” come le scienze esatte, ma anche la matematica è una “retorica”, una complessa ritualità che ha riscontri nel reale tangibile.
La religione non ha riscontri nel reale tangibile, ci ritroviamo effetti sulla sensibilità personale e e sociale e ha quindi effetti reali nella società umana, positivi, se usata per il bene, negativi se usata per male, misti in pratica sempre.
Pensare in questi termini forse aiuta a superare la separazione fra teologia e scienza nata a cominciare dal tardo Rinascimento, in corrispondenza con la scoperta dell’America, l’inizio della rivoluzione industriale e l’influenza della cultura cinese, senza un dio personale, in Europa.
Inoltre fra le religioni il cristianesimo è l’unica che invece di presentare il mito di un dio che chiede sacrifici, o un divino a cui ci si deve arrendere disperati, offre l’idea di un dio che non mangia ma si fa mangiare, e in questo nostro cibarsi del divino diventiamo più vicini a dio. È un mito molto bello.
In questo poi la Chiesa cattolica è la più grande organizzazione cristiana, è unitaria, ed è relativamente elastica e tollerante. Quindi praticamente offre uno spazio di “salvezza” “migliore”, più “conveniente” e più “opportuno” di altre religioni.
Queste sono ragioni razionali per essere cattolici. Ma non sono ragionevoli, perché la fede è altro dalla matematica ricerca della logica o delle opportunità. E anche se questa tesina ristabilisse un contatto fra religione e scienza, perso con la fede ateista dell’illuminismo, la fede è sentimento verso gli altri e verso la divinità ed è quindi diversa a seconda di ciascuna di noi.
Ma la tesina forse nemmeno è inutile perché ambisce a riagganciare la religione con la scienza, riporta una unità dei saperi e una unica ricerca della verità. Vorrebbe dire che tutto il nostro sforzo di capire e incidere sulla realtà è legato al divino che percepiamo anche se impossibile da misurare, come i sentimenti, come l’amore o l’odio “irrazionale” ma ragionevolissimi.
Il sentire qui è importante. In italiano si usa questo verbo per qualcosa che per esempio l’inglese divide in tre parole – hear (sentire suoni), feel (sentire come sensazione corporea) sense (avvertire come sensazione immateriale) Di questi il sentire legato all’udito è l’unico chiaramente misurabile. Il fatto che l’Italiano usi la stessa parole per tre cose diverse ma contigue che scivolano verso l’immateriale “sense”, mostra l’importanza dell’udito, e cioè della musica, nell’avvicinarci a uno spazio immateriale e ambiguo.
Dei cinque sensi la vista, il tatto e il gusto hanno tutti a che fare con la realtà. Ci dicono cosa c’è oltre il nostro corpo, ci danno i limiti del corpo e ci fanno conoscere cosa c’è di esterno in maniera concreta, reale, precisa. Sappiamo una cosa dove è, la distanza dall’occhio, dalle dita, dalla lingua. Il naso, l’olfatto è un senso di confine. È legato alla fisicità del gusto, di quello che va in bocca e tocchiamo con lingua e denti ma anche ci riporta a uno spazio vago, indefinito che si fa sentire l’ambiente che ci circonda, la persona che ci è di fronte. Il l’olfatto però è debole rispetto alla forza dell’udito che ci riporta a uno spazio vago ma preciso. Il sentire, l’udito, è più immateriale, è incerto, ci fa sentire qualcosa che c’è ma non si sa bene dove.
Questo elemento era già stato sottolineato nell’antichità greca.
When they talk about ‘music’ (mousikē), Plato and his contemporaries often have in mind a broader set of art forms than the ones we associate with music today. In this broad sense, mousikē denoted “a seamless complex of instrumental music, poetic word, and co-ordinated physical movement” (Murray & Wilson 2004: 7). Plato sometimes also uses the term in a narrower sense to indicate melodic and rhythmic elements that we would consider today as properly musical (for a brief discussion of the broad and narrow sense of mousikē in Plato, see Schofield 2010: 230–231).
Plato believes that music may contribute to the education of the youth, and more generally to the correct functioning of society, but also holds that it may pose dangers. Underlying Plato’s concerns about the musical education of citizens is the wider assumption that changes in musical taste must be avoided or at least closely scrutinized, as they will produce changes in society (Republic, 4.424b–d, Laws 2.660a-b). In the Laws, Plato goes so far as to describe the changes in musical taste that followed the Persian wars as the trigger for subsequent rejection of authority and societal unrest (Laws, 700a-701b).[2]
L’ambiguità della musica yue 樂era ben chiara nell’antica Cina. La musica era una delle pratiche essenziali per i confuciani, insieme ai rituali. Serviva a creare i “gentiluomini” i Junzi, una parola che nella sua origine pittografica indica coloro che danno ordini, che comandano.
Ma la musica era anche la nemica dell’ordine rigido, come lo vedevano invece i Mohisti, nemici dei confuciani, che dedicavano proprio all’opposizione alla musica Fei Yue capitoli cruciali della loro dottrina. La musica era infatti, come spiega Angus C. Graham[3], anche comprensibile come divertimento sfrenato — oggi lo stesso carattere scritto viene pronunciato yue se si intende “musica”, le se si intende divertimento.
Quindi era la musica delle cerimonie delle tragedie, delle cerimonie statali, oppure la musica sfrenata dei baccanali. La stessa differenza forse la troviamo oggi con la percezione di musiche diverse, quella “confortante” della classica e quella “indemoniata” del rock.
In qualche modo la differenza di percezione di diversi tipi di musica poi può essere storica. Wagner o Mahler potevano essere nei loro tempi “demoniaci” “sovversivi” oggi sono “confortanti”. Ma al là della valutazione storica, si percepisce la musica che tocca elementi inesplicabili al di sotto di ogni nostra capacità di coscienza. Suoni e ritmi sono ipnotici, ci mettono in contatto con un divino che sentiamo con l’udito e oltre l’udito. Ma categorizzando la musica sembra volere capire e dividere il divino in categorie storiche accettabili.
Rapporto con il divino
L’uomo così tenta nella storia sempre di riprendersi una parte di questo rapporto ma immancabilmente gli sfugge. E quando pensa di non farcela, spesso, crea mediatori tra sé e dio. L’uomo ha bisogno di uomini più grandi della media, dei maghi, dei semi dei, che possano mediare con il Dio.
In Cina questo rapporto è stato per secoli nelle mani dell’imperatore, figlio del Cielo, cioè di Dio, benedetto dalla grazia divina nell’ indovinare, trovare la strada, il Tao, in cui le cose avvengono senza sforzo, in maniera spontanea, con il non agire, il wuwei. Qui c’è anche una divisione profonda tra la tradizione occidentale e quella cinese. In Occidente è Platone che vince lo scontro intellettuale ed afferma il potere dell’intelletto a controllare, dominare il mondo.
Dopo di lui, e dopo il suo seguace Aristotele, la fede in questo potere intellettuale non verrà mai più messa davvero in discussione almeno fino al XVII secolo con l’avvento del concetto delle conseguenze in-intenzionali come fattore positivo della società.
Questi sono quasi 2000 anni di dominio incontrollato della ragione se non perfetta perfettibile comunque dominante rispetto all’impero del caos. Le conseguenze in-intenzionali, accidente quotidiano cantato nelle tragedie greche, Edipo che sposa la madre per esempio, diventano successivamente incidenti casuali di percorso che possono e devono essere fissati da una ragione che può tutto e deve tutto per porre argine altrimenti alla irrazionalità, al capriccio degli dei, al caos[4]. Questo può avvenire attraverso una conoscenza sempre più estesa che proietta l’uomo più vicino alla perfetta conoscenza divina. Se Edipo avesse saputo che l’uomo era sua madre, non l’avrebbe sposata. Il problema quindi è semplicemente la mancanza di una conoscenza esatta.
La ragione “irragionevole” della Cina
In Cina invece lo scontro intellettuale viene vinto da un filosofo che usa la ragione per dimostrarne non i suoi poteri ma i suoi limiti, Zhuangzi[5]. Il non agire, il wuwei, è l’orizzonte vero, autentico entro cui capire l’agire umano.
Ma questo non significa la resa all’inazione o l’apertura alla società libera. La proposta di Zhuangzi in realtà non si traduce in una proposta politica alternativa allo stato dei tempi, ma offre semplicemente l’idea di una fuga dalla società, la proposta di vivere da eremiti. Così alla fine questa fuga conferma che l’unico modo di governare, di stare insieme è quello dei tempi, fondato sulla centralità di un sovrano-sacerdote王wang che nel carattere da l’idea di un uomo che collega i tre spazi, celeste, umano e naturale. Zhuangzi dimostra a suo tempo che la conoscenza è un’illusione, è irraggiungibile, quindi il campo d’azione per migliorare non è perfezionare la conoscenza ma cambiare la società secondo i nostri desideri.
La ragione non può dominare il mondo, ma la politica del tempo che si incentra comunque sulla personalità di un semidio, 王wang, un governante con un rapporto speciale tra il divino, la società umana, e la natura materiale, deve comunque portare ordine al caos. Se questo ordine non può essere portato, raggiunto con la ragione, deve essere raggiunto con altri mezzi basato sull’accettazione del wuwei, della incapacità della ragione di fondare uno stato. Quindi l’alternativa è tra ragione totalitaria che trasforma la realtà e accettazione supina del caos.
La mediazione tra questi due spazi estremi è nell’adattamento del comportamento: agli uomini si impongono rituali che modellano ogni tratto dell’agire e del pensare fin quando comportamenti appresi diventano “naturali”, il camminare con grazia, per esempio.
La base della mediazione si trova in una educazione rigidissima che riesce a trasformare profondamente l’uomo e fa diventare naturali pensieri e azioni che in realtà sono frutto di educazione e condizionamento. Ma questa educazione è estremamente faticosa e dispendiosa, quindi può essere usata solo per una fascia sottile di popolazione destinata a guidare e governare la società. Per il resto della popolazione invece ci sono sistemi di punizione brutali e non solo individuali ma collettive. La differenziazione si trova nel pensiero anche pre-confuciano secondo cui la classe superiore si governa con i rituali, li, gli inferiori invece devono essere governati con le punizioni, xing.
Si impongono strettissimi controlli sociali e di comportamento individuale a tutta la massa della popolazione. Le leggi diventano norme di comportamento a cui bisogna aderire pena non solo la punizione individuale ma di tutto il gruppo colpevole in caso di errore del singolo perché non si è responsabilizzato e non ha prevenuto e corretto all’origine l’errore. Così la responsabilità dall’individuo passa al gruppo. In questa dialettica innovativa, ma tirannica per la persona, non ci deve essere spazio per alcuna deviazione.
Nella pratica poi alcune deviazioni sono tollerate purché avvengano entro una certa banda limitata di comportamenti. La razionalità non è applicata alla individuazione di una serie di comportamenti che costringono e spingono l’uomo verso un certo tipo di adeguamento sociale che aiuta il governo. La legge è sempre indicativa di quello che bisogna fare. È il contrario della legge romana che indica quello che non si deve fare, e punisce la trasgressione ma lascia libertà su tutto il resto. In Cina è il contrario: si dice quello che bisogna fare e la legge punisce tutto quello che è fuori dallo spazio del permesso dalla legge.
Ciò riguarda tutto, non lascia nulla al caso, il comportamento dell’uomo si deve inserire in un comportamento sociale, che si inserisce in un ordine naturale e poi anche divino.
La via, il Tao, del re-wang quindi diventa quella di governare questi rapporti con il minimo sforzo. Ciò è possibile perché ogni singolo movimento umano e naturale e sociale è stato codificato con pazienza scrupolosa, perché lo Stato e non solo è totalizzante verso l’uomo ma anche verso la società e la natura. L’errore va prevenuto, l’uomo, la società, la natura va organizzata per evitare l’errore, l’errore non va corretto dopo che è avvenuto.
Ciò non è possibile in Occidente perché la ragione che pure da Platone in poi ha vinto, viene riconosciuta come fallace. La fallacia fa parte del processo di perfezionamento della ragione. In Cina la ragione può solo mettere ordine nella società, che è tenuta in equilibrio precario grazie alla benevolenza del Cielo, concessa dal giusto comportamento dei wang.
Quindi in occidente il problema non è come arrivare al successo ma come correggere l’errore una volta commesso. In Cina, quando si commette un errore, o si corregge la società o cade l’imperatore.
Da qui abbiamo i due re di Sparta che governano a turno, i due consoli di Roma che ugualmente governano a turno, i due imperatori che si dividono l’impero in occidente e oriente. Al contrario la concentrazione di potere nelle mani del tyrannòs/demokratikòs greco o poi il rex, il dictator o imperator romano sono temporanei. Anche quando diventano una norma, con le dinastie bizantine vivono con un contrappeso, in quel caso l’influenza moderatrice ideale del patriarca, della Chiesa.
Il wuwei occidentale
Quando nel XVII secolo arriva in Europa il concetto di non agire wuwei cinese esso non è associato al contesto storico e sociale della Cina dei secoli precedenti, è isolato e si inserisce così in una dinamica diversa che da frutti politici sociali e intellettuali diversi – contribuisce alla nascita della modernità come la conosciamo oggi.
D’altro canto però solo in contesti laterali della civiltà cinese, originalmente non sotto il Figlio del Cielo della capitale, in Giappone, Corea, Taiwan, si è affermata una nuova sintesi culturale che ha adattato con successo il sistema razionalistico occidentale con l’organizzazione sinica.
Il posto della divinità nei due sistemi è diverso. Con una razionalità vincente ma fallace il divino è fuori, esterno, metafisico. Con una razionalità sconfitta ma vendicativa che si impone di trasformare uomini, società e natura, il divino è nel sistema, nel successo o insuccesso del progetto cultural-politico.
In questo senso, l’impressione è che con il successo dell’inizio della modernizzazione e l’inizio di una crescita di tecnologia, qualità e lunghezza di vita senza precedenti, l’umano ha creduto di essere divino e il divino è stato forzatamente espulso dallo spazio della ragione, con l’affermazione dell’ateismo, la tesi fideistica che dio non esiste, parallela e uguale alla fede cieca de “il mio dio esiste”.
Ma ora che i mille limiti della crescita moderna appaiono evidenti, cresce un nuovo spazio per un divino diverso da quello delle tradizioni antiche. Questa necessità nuova di divino appare in linea con la tradizione cristiana del dio che si offre come cibo di rinascita e vita e eterna. L’intuizione profetica di Papa Francesco è quello di essersi gettato su questo spazio nuovo e proiettato la Chiesa in un futuro, quasi come Paolo fece con il messaggio dei primi apostoli. Solo che intorno a questo occorre ricostruire un nuovo spazio culturale e scientifico per oggi ma soprattutto per domani, vista l’estrema volatilità del momento storico.
Né d’altro canto si può strappare il rapporto con il passato che da linfa e sostanza alla crescita attuale. Si tratta quindi di misurare una azione di equilibrio tra necessità di cambiare e necessità di conservare.
[1] http://www.atimes.com/atimes/China/CHIN-01-220814.html SINOGRAPH Simon Leys: An appreciation
[2] https://plato.stanford.edu/entries/hist-westphilmusic-to-1800/
[3] See chapter on Mozi in The Disputers of the Tao, 1999.
[4] Devo queste idee a discussioni con Lorenzo Infantino.
[5] See also the chapter on Zhuangzi in The Disputers of the Tao, 1999.
Notes on Taoist theology for Pope Francis
Catholic Writer and Sinologist Simon Leys, tried always concentrating [1] on the truth, the essence, as he wrote in his collection of essays “The Hall of Uselessness”.
He explained that the task of the Chinese artist was not to reproduce objects of reality, it was not to reproduce the effects and illusions of the vision, it was not even to create something beautiful. These were all approaches proper to Western culture and art. The task of the Chinese artist was to capture the essence of a spot, a situation, a moment, and to communicate this essence in the most effective way. This was to try to be oneself in the truest way.
In the essay “Ethics and Esthetics” he quotes calligrapher Liu Xizai as saying, “In calligraphy, it is not pleasing that is difficult; what is difficult is not seeking to please. The desire to please makes the writing trite; its absence renders it ingenuous and true.” And to further clarify the point, he quotes Stendhal, writing, “I believe that to be great at anything at all, you must be yourself,” and Wittgenstein, commenting on Tolstoy, “There is a real man who has a right to speak.”
What made Leys most remarkable was his depth, his continuous effort to try to get to the bottom of things, to understand them, and to render them with the great simplicity proper of the people who really worked through them.
With Leys the world has lost a unique eye onto things, an eye of intellectual honesty and depth, something that should be the hallmark of any intellectual.
Taking a page from him, I want to say that I know next to nothing about theology or the holy scriptures, still there is something in the concept of a god who gives himself up to become food for the soul of all people that is unsettling and incredibly beautiful. There is something in the history, the organization and the vastity of the Church that is mind boggling. Perhaps true theologians can find something worth is a truly honest reflection on this.
Sensing the Divine
We feel the divine, it is an undeniable feeling, and for centuries this feeling was mediated by reason, which tried to explain the divine in reasonable terms, in the West. The relationship was broken with modernity and the Enlightenment by the contribution of a Chinese concept, the non-acting, wuwei. The wuwei comes from a different tradition.
In the third century B.C. Zhuangzi proved that reason is unreliable and “does not work.” The answer then was not to chase rationality, but to rationalize reality, change it, humans must surrender to the cycle of things (not act wuwei) and the divine order is brought about by a king-demigod that informs reality. If there is an error, reality must be changed or the re-demigod must be replaced. Divinity is in the maintenance of social and natural order.
In the West, on the other hand, Plato had won the debate and the region could progressively move closer to perfect truth, which nevertheless remained unattainable. One had perfectible, fallacious reason, but reliable in its projection toward the truth-god that remains beyond, it is metaphysical.
The concept of non-action and faith in the flow of things, comes to the West from the 17th, 18th century without the imperial political construct and becomes atheistic faith in reality, god is expelled from reason and reasonableness. The divine becomes something irrational.
Today, however, the limits of modernity and after Popper and Fayerabend the delineation of a perfectible science reopen the space for a reasonable and rational faith where the idea of a god who gives himself as a sacrifice for man, gets eaten by men, appears beautiful, reasonable to break the sufferings of life.
God and man
The relationship between man and God is sought by man who senses a divine around him and attempts to give it a form comprehensible to him at that historical moment. But the divine eludes definition, complete understanding, and it advances, changes as history changes and human knowledge evolves. Thus it may appear to man that no matter how hard he tries, he cannot deny the divine or understand it clearly, so it seems that the relationship between God and man is in God’s hands, not man’s.
Two fronts open up here, one structural, what the form of religion is, and the other perhaps of the personal relationship with the divine.
Religion
What is religion? It is elaborating a fable and a series of ritual practices around a sense of the divine that we perceive in order to give some form to this divine, a form that corresponds to what we understand. There is nothing more true in life than that, unless we knowingly deny the divine we feel in every moment.
So the search for truth is the search to understand this divine around us. God is not opposed to science. Science brings us closer to God, and helps us understand the divine better, in step with the times.
Science is a rhetoric with very precise rules, as philosophers of science like Popper, Feyerabend or Pera call it, but it is still a “rhetoric”. It centers around the search for a truth for certain areas of knowledge. But religion is also the elaboration of a “story” according to an agreed rhetoric. The rules are different, especially because religion is not “mathematizable” like the exact sciences, but mathematics is also a “rhetoric,” a complex ritual that has feedback in the tangible or real.
Religion does not have feedback in the tangible and real. But we find it has effects on personal and social sensibility and thus real effects in human society: positive if used for good, negative if used for evil, and mixed in practice always.
Thinking in these terms perhaps helps to overcome the separation between theology and science that arose beginning in the late Renaissance, corresponding with the discovery of America, the beginning of the Industrial Revolution, and the influence of Chinese culture, without a personal god, in Europe.
Moreover, among religions, Christianity is the only one that instead of presenting the myth of a god who demands sacrifice, or a divine to whom we must surrender in despair, offers the idea of a god who does not eat but is eaten, and in our feeding on the divine we become closer to god. It is a very beautiful myth.
In this the Catholic Church is the largest Christian organization. It is unified, and it is relatively elastic and tolerant, so it practically offers a “better,” more “convenient” and “expedient” space for “salvation” than other religions.
These are rational reasons for being Catholic. But they are not reasonable, because faith is not just the mathematical pursuit of logic or expediency. And even if this thesis reestablished contact between religion and science, lost with the atheistic faith of the Enlightenment, faith is feeling toward others and toward divinity and is therefore different for each of us.
But the paper is perhaps not useless because it aspires to reconnect religion with science, bring back a unity of knowledge and a single search for truth. It would mean that all our effort to understand and affect reality is linked to the divine that we perceive even if it is impossible to measure, like feelings, like “irrational” but very reasonable love or hate.
Feeling here is important. In Italian, we use the verb sentire for something that English divides into three words: hear (to hear sounds), feel (to feel as a bodily sensation), and sense (to sense as an immaterial sensation). Of these, the hearing-related feeling is the only one that is clearly measurable. The fact that Italian uses the same word for three different but contiguous things that slide toward the intangible “sense” shows the importance of hearing, namely music, in bringing us closer to an intangible and ambiguous space.
Of the five senses, sight, touch, and taste all have to do with reality. They tell us what is beyond our body, give us the limits of the body, and let us know what is outside in a concrete, real, precise way.
We know where something is, the distance to the eye, to the fingers, to the tongue. The nose, the sense of smell, is a boundary sense. It is related to the physicality of taste, of what goes into the mouth. We touch with our tongue and teeth but it also brings us back to a vague, undefined space that is made to feel the environment around us, the person in front of us. The sense of smell, however, is weak compared to the strength of hearing that brings us back to a vague but precise space. Feeling, hearing, is more intangible, it is uncertain, and it makes us feel something that is there but we are not sure where.
This element was already emphasized in Greek antiquity.
When they talk about ‘music’ (mousikē), Plato and his contemporaries often have in mind a broader set of art forms than the ones we associate with music today. In this broad sense, mousikē denoted “a seamless complex of instrumental music, poetic word, and co-ordinated physical movement” (Murray & Wilson 2004: 7). Plato sometimes also uses the term in a narrower sense to indicate melodic and rhythmic elements that we would consider today as properly musical (for a brief discussion of the broad and narrow sense of mousikē in Plato, see Schofield 2010: 230–231).
Plato believes that music may contribute to the education of the youth, and more generally to the correct functioning of society, but also holds that it may pose dangers. Underlying Plato’s concerns about the musical education of citizens is the wider assumption that changes in musical taste must be avoided or at least closely scrutinized, as they will produce changes in society (Republic, 4.424b–d, Laws 2.660a-b). In the Laws, Plato goes so far as to describe the changes in musical taste that followed the Persian wars as the trigger for subsequent rejection of authority and societal unrest (Laws, 700a-701b).[1]
The ambiguity of music yue 樂 was well understood in ancient China. Music was one of the essential practices for Confucians, along with rituals. It served to create the “gentlemen,” the junzi, a word that in its pictographic origin means those who give orders, who command.
But music was also the enemy of strict order, as seen instead by the Mohists, hostile to the Confucians, who devoted crucial chapters of their doctrine precisely to opposing music Fei Yue. Music was in fact, as Angus C. Graham wrote,[2] also understandable as unbridled entertainment. Today the same written character is pronounced yue if “music” is meant, and le if amusement is meant.
It was the ceremonial music of tragedies and state ceremonies, or the unbridled music of bacchanals. We find the same difference perhaps today with the perception of different music, the “comforting” music of classical and the “unmitigated” music of rock.
In some ways the difference in perception of different kinds of music then may be historical. Wagner or Mahler might have been in their times “demonic” or “subversive,” but today they are “comforting.” Beyond historical evaluation, one perceives music that touches inexplicable elements below all our capacity for consciousness. Sounds and rhythms are hypnotic, putting us in touch with a divine that we hear/feel/sense with the hearing and beyond the hearing. But categorizing music seems to mean wanting to understand and divide the divine into acceptable historical categories.
Relationship to the divine
In history man thus always attempts to take back some part of this relationship but invariably it eludes him. And when he thinks he cannot, he often creates mediators between himself and God. Man needs larger-than-average men, magicians, and demigods who can mediate with the god.
In China this relationship has for centuries been in the hands of the emperor, the son of Heaven. That is, it is in the hands of God, blessed by divine grace in guessing, finding the way, the Tao, in which things happen effortlessly, spontaneously, with non-action, the wuwei. Here there is also a deep division between the Western and Chinese traditions. In the West, it is Plato who wins the intellectual clash and affirms the power of the intellect to control and dominate the world[2].
After him, and after his follower Aristotle, the belief in this intellectual power was never really challenged again at least until the 17th century with the advent of the concept of unintended consequences as a positive factor in society.
These are nearly 2,000 years of the unchecked dominance of reason, which if not perfect, was still dominant over the empire of chaos. Unintended consequences—an everyday accident sung about in Greek tragedies, Oedipus marrying his mother, for example—subsequently become random accidents that can and must be fixed by a reason that can and must otherwise curb irrationality, the whim of the gods, chaos.[3] This can be done by an ever extending knowledge that projects man closer to the perfect divine knowledge. Had Oedipus known that man was his mother he would not have married her. The problem then is simply the lack of exact knowledge.
China’s “un-reasonable” reason
In China, on the other hand, the intellectual clash is won by a philosopher who uses reason to demonstrate not its powers but its limits, Zhuangzi.[4] Non-action, wuwei, is the true, authentic horizon within which to understand human action.
But this does not mean surrendering to inaction or openness to free society. Zhuangzi’s proposal does not actually result in an alternative political proposal for the state of the times, but simply offers the idea of an escape from society, the proposal to live as a hermit. Thus in the end this escape confirms that the only way to govern, to be together, is that of the times, based on the centrality of a ruler-priest, 王 wang, a character which gives the idea of a man who connects the three spaces: heavenly, human, and natural. Zhuangzi proves in his time that knowledge is a delusion, is unattainable, then the field of action to improve is not perfecting knowledge but changing society according to our wishes.
Reason cannot rule the world, but the politics of the time—which nonetheless hinge on the personality of a demigod, 王 wang, a ruler with a special relationship between the divine, human society, and material nature—must nevertheless bring order to the chaos. If this order cannot be brought and achieved by reason, it must be achieved by other means based on the acceptance of wuwei, of the inability of reason to establish a state. So the alternative is between totalitarian reason shaping reality and supine acceptance of chaos.
The mediation between these two extreme spaces is in the adaptation of behavior: rituals are imposed on men that shape every trait of acting and thinking until learned behaviors become “natural”—walking gracefully, for example, which doesn’t come naturally but it’s obtained through tireless practice.
The basis of mediation is found in a very rigid education that succeeds in profoundly transforming men and makes thoughts and actions that are actually the result of education and conditioning become natural. Still this education is extremely laborious and expensive, so it can only be used for a thin segment of the population destined to lead and govern society. For the rest of the population, on the other hand, there are brutal and not just individual but collective systems of punishment. Differentiation is found in even the pre-Confucian thought that the upper class is to be governed by rituals, li, and the lower classes on the other hand are to be governed by punishments, xing.
Very tight social and individual behavior controls are imposed on the entire mass of the population. Laws become norms of behavior that must be adhered to on pain of not only individual punishment but of the whole guilty group in the event of the individual’s error because he did not take responsibility to prevent or correct the error at the origin. Thus responsibility passes from the individual to the group. In this innovative but tyrannical dialectic for the individual, there must be no room for any deviation.
In practice, some deviations are tolerated as long as they occur within a certain limited band of behavior. Rationality is not applied to the identification of a set of behaviors that compel and push man toward a certain kind of social adjustment that helps government. Law is always indicative of what needs to be done. It is the opposite of Roman law that indicates what not to do, and punishes transgression but leaves freedom on everything else. In China, it is the opposite: you are told what you must do and the law punishes everything outside the space of permission by the law.
This affects everything, leaving nothing to chance; man’s behavior must fit into a social behavior, which fits into a natural and then also a divine order.
The way, the Tao, of the wang then becomes to govern these relationships with minimal effort. This is possible because every single human, natural, and social movement has been codified with painstaking patience, because the state—and not only the state—is totalizing toward man but also toward society and nature. Error should be prevented; man, society, and nature should be organized to prevent error; and error should not be corrected after it has happened.
This is not possible in the West because reason, which from Plato onward won, is recognized as fallacious. Fallacy is part of the reason’s process to perfection. In China reason can only set in order society which is held in precarious balance thanks to goodwill of Heaven, granted by the wang’s right behavior.
The problem in the West is not how to arrive at success but how to correct the error once it has been made. In China when error is made either society must be corrected or the emperor must fall.
Hence we have the two kings of Sparta ruling in turn, the two consuls of Rome equally ruling in turn, and the two emperors dividing the empire into West and East. In contrast, the concentration of power in the hands of the Greek tyrannòs/demokratikòs or the Roman rex, dictator, or imperator are temporary. Even when they become a norm, as with the Byzantine dynasties, they live with a counterweight. In that case, it was the ideal moderating influence of the patriarch of the Church.
Western Wuwei
When in the 17th century the Chinese concept of wuwei (non-action) arrived in Europe, it was not associated with the historical and social context of China in the previous centuries. It was isolated and thus became part of a different dynamic that from the social, political, and intellectual fruits contributes to the birth of modernity as we know it today.
On the other hand, however, it was only in lateral contexts of Chinese civilization, originally not under the capital’s Son of Heaven—in Japan, Korea, and Taiwan—that a new cultural synthesis emerged that successfully adapted the Western rationalistic system with the Sinic organization.
The place of divinity in the two systems is different. With a defeated but fallacious rationality the divine is outside, external, metaphysical. With a defeated but vindictive rationality that sets out to transform men, society, and nature, the divine is in the system, in the success or failure of the cultural-political project.
In this sense, the impression is that with the success of the beginning of modernization and the onset of unprecedented growth in technology, quality, and length of life, the human has believed itself to be divine, and the divine has been forcibly expelled from the space of reason with the establishment of atheism, the deistic thesis that god does not exist, parallel and equal to the blind faith that “my god exists.”
But now that the myriad limits of modern growth appear evident, a new space for a divine that is different from that of ancient traditions is growing. This new need for the divine appears in line with the Christian tradition of the god who offers himself as the food of rebirth and life and the eternal. The prophetic insight of Pope Francis is to have thrown himself into this new space and projected the Church into the future, almost as Paul did with the message of the early apostles. Around this a new cultural and scientific space needs to be rebuilt for today but especially for tomorrow, given the extreme volatility of the historical moment.
Nor on the other hand can we tear away the relationship with the past that gives sap and substance to current growth. It is therefore a matter of balancing the need to change and the need to preserve.
[1] https://plato.stanford.edu/entries/hist-westphilmusic-to-1800/
[2] See chapter on Mozi in The Disputers of the Tao, 1999.
[3] I owe these ideas to discussions with Lorenzo Infantino.
[4] See also the chapter on Zhuangzi in The Disputers of the Tao, 1999.
[1] http://www.atimes.com/atimes/China/CHIN-01-220814.html SINOGRAPH Simon Leys: An appreciation
[2] I owe the following discussion always to Graham and its studies on Zhuangzi and the Mohists, see The Disputers of the Tao, 1999
Di Pier Luigi Zanatta:
Complimenti vivissimi, caro Francesco, per la tua tesina ricca di punti condivisibili. Oso persino pensare di avere un po’ ispirato la digressione sulla musica. Nonostante le mie limitate conoscenze filosofiche, dunque, mi piacerebbe riprendere e ampliare il discorso su questo e su altri punti, lasciando comunque ferma la tua ammirevole intuizione del nuovo e grande spazio che si apre ora alla proiezione culturale del cattolicesimo grazie a papa Francesco.
Alla musica ho dedicato parecchio del mio pensionamento e mi viene fatto di notare come le sue origini prosodiche nell’Occidente indeuropeo siano strettamente legate a una scansione del tempo sempre più focalizzata e rigorosa, cui la Chiesa cattolica e anche altre chiese cristiane hanno dato un fondamentale contributo.
Ma definire e sviluppare la pulsazione del tempo in un sistema tonale significa anche accogliere sostanzialmente un’accezione del Samsara induista. Platone doveva esserne consapevole quando sottolineava l’impellenza di evitare derive, di restare logicamente e socialmente all’interno di un sistema coerente e fecondo ma sostanzialmente chiuso (tanto che da Aristotele all’Illuminismo — complice la teologia — si continuerà a lavorare sempre all’i terno di questo sistema).
Dal canto suo, sul piano religioso, il cristianesimo è il figlio più straordinario, individualistico e declinabile del monoteismo indeuropeo e dell’universalismo romano. Il cristianesimo è scandalosamente bello ma, come prova il suo irrilevante appello in India, resta sempre nell’ambito del Samsara. La messa resta un sacrificio (ite missa est, cioè l’offerta sacrificale è stata mandata in Cielo), esatto da un Dio comunque inesorabile e insaziabile (tranne che in una speranza di resurrezione finale che rimane estremamente vaga pur essendo la sola alternativa all’ombra del nulla).
Quale presenza storica, per giunta, il Dio cristiano è quanto mai complice del Samsara: nel momento in cui il fedele lo mangia (e curiosamente lo beve sotto forma alcolica) sa che morirà con lui, al pari dei suoi figli e dei figli dei figli, in un destino certo più lineare dell’induismo ma sempre condannato alla sofferenza fra la vita e la morte (è forse grazie a tale linearità che i cristiani finiscono per accettare il samsara ripudiato invece dal buddhismo).
Confuciana, taoista o moista, la cultura cinese invece si pone al di fuori di questo ordine di cose ed è per questo che ha messo e continua periodicamente a mettere in crisi i valori occidentali, tanto direttamente quanto indirettamente (e anche attraverso le sue variazioni periferiche estremorientale più o meno compromissorie).
Al contempo però è vero che, se l’Occidente sta sperimentando tutti i limiti (politici, sociali e tecnologici) all’azione, l’Oriente sta sperimentando quelli (altrettanto angosciosi) alla non-azione, tanto sotto uno Xi Jinping quanto sotto un Fumio Kishida.
Non è forse un caso che parallelamente il tempo musicale stia vivendo da alcuni decenni un crescente esaurimento delle sue possibilità creative. Le arti “semplici” come musica, pittura e scultura non ci bastano più, ma ci restano quelle più complesse dell’architettura o del cinema. Simile impasse per le ricette politiche, sociali ed economiche più semplici: soltanto quelle più complesse e meno facilmente digeribili possono rivelarsi adeguate ai tempi.
E forse questo è vero anche per la religione e particolarmente per i nuovi spazi e gli equilibri complessi che il cattolicesimo sta cercando di esplorare. Un’avventura difficile ma entusiasmante per papa Francesco, che sta ben dimostrando di sentirsi alla soglia di una nuova era, come avvenne per il santo di cui porta innovativamente il nome. Coraggio a lui e a te e speriamo di riuscire a vederci a maggio in Cina.
Pier Luigi