Che quello della pace – e, contestualmente, quello del dialogo, suo ideale gemello – non sia mai stato un argomento comodo nella vicenda ecclesiale, lo dimostra il sostanziale fallimento della spedizione in Oriente di Francesco d’Assisi, nel 1219: il quale non convinse né i crociati a desistere dall’assedio di Damietta né la Curia romana e i suoi stessi confratelli ad accettare la sua originaria stesura della Regola (che rimase appunto non bullata), caratterizzata fra l’altro da uno sguardo aperto e accogliente nei confronti dei musulmani.
Ecco perché il rifarsi ad Assisi per eventi quali il primo raduno delle religioni per la pace così voluto da Giovanni Paolo II (27/10/1986), o la celebrazione del suo trentennale da parte di papa Francesco in una data casualmente emblematica per la storia italiana (il 20 settembre, anniversario della breccia di Porta Pia che nel 1870 mise fine allo Stato della Chiesa e al potere politico del papa re), resta l’allusione più a un ideale che a una realtà; oggi più di ieri.
Sia detto, evidentemente, non per diminuire la portata di quanto è accaduto sotto gli occhi stupefatti del mondo nella cittadina umbra, ma, al contrario, a esaltarla («Siamo insieme per pregare, non per fare spettacolo», aveva detto la mattina Francesco, a scanso di equivoci).
Passaggio ad Assisi
Un momento, inoltre, che ha saputo evitare, va detto, il rischio annunciato di limitarsi a fare del «dialogo delle coccole» (W. Kasper). In primo luogo, grazie al suo naturale stile di dialogo (C. Theobald) e alla straordinaria carica umana del papa argentino: che ha declinato quello che da trent’anni è un preciso genere a sé dei pontificati, il passaggio ad Assisi, in maniera personale e convinta. Verrebbe da dire, per accumulo: recuperando la carica profetica tipica di Wojtyla, da una parte, ma non disdegnando il confronto – non facile – con la cultura contemporanea, che aveva rappresentato il segno distintivo del venticinquennale (27/10/2011), con Benedetto XVI in dialogo con Remo Bodei e Julia Kristeva, dall’altro.
Il sociologo
Questa volta è toccato al patriarca della sociologia, Zygmunt Bauman, fungere da interlocutore principe per Francesco. L’ha fatto da par suo, riempiendo di sostanza la parola un po’ affaticata dialogo: «…la nostra società è ormai irreversibilmente cosmopolita, multiculturale e multireligiosa. Il sociologo Ulrich Beck dice che viviamo in una condizione cosmopolita di interdipendenza e scambio a livello planetario ma non abbiamo neppure iniziato a svilupparne la consapevolezza. E gestiamo questo momento con gli strumenti dei nostri antenati… è una trappola, una sfida da affrontare. Noi non possiamo tornare indietro e sottrarci dal vivere insieme».
Il papa
Poi, evidentemente, Francesco ci ha messo molto di suo, collocando l’evento nel contesto di un tempo caratterizzato dalla quotidianità penosa del migrante rifugiato e dalla terza guerra mondiale a pezzi: «Una giornata di preghiera, penitenza e pianto per la pace», ha sintetizzato, richiamando, per caso, quattro termini inizianti con la P; poi ha concluso citando una quinta parola, di nuovo con la P, quella cruciale: «…siamo qui per sentire il grido del povero».
È già una risposta alla domanda che ci eravamo fatti nell’articolo di presentazione dell’evento assisiate, costringendo le religioni a tenere i piedi ben piantati per terra. E a fare i conti con le loro ambiguità, come ha ammesso con la parresìa che gli è propria anche il Patriarca ecumenico Bartholomeos, chiedendo ai numerosissimi leader religiosi presenti un esame di coscienza per capire «dove forse abbiamo sbagliato, o dove non siamo stati sufficientemente attenti, perché sono sorti i fondamentalismi che minacciano non solo il dialogo con gli altri, ma anche il dialogo all’interno di ognuno di noi, la nostra stessa coesistenza. Dobbiamo essere capaci di isolarli, di purificarli, alla luce delle nostre fedi, di trasformarli in ricchezza per tutti».
Lo spirito di Assisi
Qui risiede il nodo reale, ovviamente molto complesso da sbrogliare, rimandando i leader religiosi dal momento forte dell’evento alle dinamiche della loro realtà di ogni giorno.
Da questo punto di vista, il cosiddetto Spirito di Assisi non è più oggi solo una delle molteplici opzioni possibili nel carnet della Chiesa cattolica: ciò che nel 1986 era profezia della Chiesa al mondo, nel 2016 si è fatto autodifesa della Chiesa stessa da quello che la religione sembra essere diventata.
Nella consapevolezza che, oggi, le religioni, tutte, sia pure in diversa misura, non possono considerarsi soltanto la soluzione del problema, ma anche una porzione, e non secondaria, di esso («Solo la pace è santa, non la guerra!», ha sostenuto energicamente Bergoglio). Senza alcuno sconto, peraltro, nei confronti delle responsabilità della comunità internazionale, come emerge chiaramente nell’appello conclusivo: «Imploriamo i responsabili delle nazioni perché siano disinnescati i moventi delle guerre: l’avidità di potere e denaro, la cupidigia di chi commercia armi, gli interessi di parte, le vendette per il passato. Aumenti l’impegno concreto per rimuovere le cause soggiacenti ai conflitti: le situazioni di povertà, ingiustizia e disuguaglianza, lo sfruttamento e il disprezzo della vita umana».