L’attualità di Dignitatis humanae

di:
courtney murray

Il teologo gesuita John Courtney Murray

C’è un documento della Chiesa che dovrebbe essere consegnato agli ambasciatori di ogni nazione: Dignitatis humanae. Peter Hunermann sosteneva che «questa dichiarazione è un documento decisivo per la storia dell’intera umanità», in quanto fondamentale per la convivenza pacifica tra i popoli e per il futuro del mondo. Pietro Pavan, uno dei suoi principali estensori, aggiungeva che «il diritto alla libertà religiosa è un amore, un dovere e un diritto».

L’attualità di questo diritto è confermato dal fatto che anche la Commissione teologica internazionale ha dedicato, nel 2019, uno studio al tema: La libertà religiosa per il bene di tutti. Approccio teologico alle sfide contemporanee. Il 20 aprile 2023, l’Istituto Acton, in collaborazione con la Pontificia Università Gregoriana, ha organizzato un incontro dal titolo: Insieme per la libertà: le fedi abramitiche dialogano sulla dimensione antropologica e teologica.

La dichiarazione conciliare Dignitatis humanae rimane, a cinquant’anni dal Concilio, la magna carta, il documento madre di ogni eventuale discussione sul diritto alla libertà religiosa. Protagonista indiscusso di questo testo è stato il teologo statunitense John Courtney Murray, che si meritò poi, per questi suoi sforzi, una copertina su Time.[1]

Per comprendere il diritto alla libertà religiosa[2] non è senza vantaggio procedere a un’analisi delle fonti della dichiarazione Dignitatis humanae, mettendo in evidenza le figure che vi hanno lavorato, le questioni che hanno dovuto affrontare, e come sono riusciti a risolvere i vari nodi teologici che si sono trovati ad affrontare.

Sulle fonti di Dignitatis humanae

Per quanto riguarda le fonti della dichiarazione, bisogna ricordare in primo luogo il quadro storico: era da poco terminata la seconda guerra mondiale, e i cristiani, cattolici e non, subivano pesanti persecuzioni nei paesi dove prevaleva l’ideologia comunista. Nell’intraprendere un esame di questo tema, la Chiesa conciliare non poteva ignorare l’articolo 18 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1948, in cui veniva sancito come quello alla libertà religiosa fosse un diritto inalienabile di ogni essere umano. Né poteva trascurare il fatto che, poco dopo la fine della seconda guerra mondiale, anche i documenti del Consiglio ecumenico delle Chiese avevano affrontato la questione, esprimendosi in favore del diritto alla libertà religiosa.

Più in generale, sul piano filosofico, una consapevolezza matura di quali fossero le implicazioni di questo diritto l’avevano apportata prima il giusnaturalismo e poi il personalismo, soprattutto attraverso i saggi su questo tema di Louis Janssens, che era un esperto di dottrina sociale della Chiesa.

A livello teologico, sono invece risultati risolutivi gli insegnamenti magisteriali di Leone XIII e di Pio XII e finanche la svolta antropologica di Karl Rahner. In epoca conciliare, inoltre, aveva preparato il terreno alla dichiarazione l’enciclica di Giovanni XXIII Pacem in terris. Come si accennava, comunque, determinanti e decisive furono le argomentazioni costituzionaliste di matrice statunitense avanzate dal gesuita Courtney Murray.

I protagonisti del testo

I nomi di coloro che hanno lavorato a questa dichiarazione sono vari e vi hanno contribuito in tempi diversi. Fondamentale è stato il già menzionato Carlo Colombo che, durante gli anni conciliari, ha fatto un po’ da tramite tra i lavori dell’assise e il papa.

Non si può non menzionare il contributo di Pietro Pavan, che già aveva lavorato all’enciclica Pacem in terris. Un ruolo carismatico lo svolse anche il cardinale Richard James Cushing il quale, in sede conciliare, dando per acquisita la libertà della Chiesa, affermò che la comunità cattolica avrebbe dovuto agire da protagonista in sede politica e istituzionale per avanzare il diritto universale alla libertà religiosa, proprio perché «questo diritto lo aveva sempre rivendicato per sé stessa, e ora era chiamata a rivendicarlo anche per le altre religioni».

Un apporto costruttivo, sebbene la sua incidenza sia stata più significativa per Nostra aetate, lo ha dato anche il biblista e gesuita tedesco Agostino Bea, che era a capo del Segretariato per l’unità dei cristiani, a cui era stato affidato il compito di coordinare l’elaborazione dei due testi.

Altro nome da non trascurare, sebbene non abbia lavorato direttamente al testo, è Jacques Maritain. Come laico, non aveva partecipato alle attività conciliari, tuttavia, a conferma di quanto il suo pensiero sia tra le righe del documento, Paolo VI inviò nella sua residenza di Toulouse, nel dicembre del 1964, poco prima delle votazioni finali, il suo segretario personale Pasquale Macchi e l’amico comune Jean Guitton, per chiedergli se apprezzava quanto elaborato in sede conciliare. Maritain non poteva non condividere quanto espresso nella bozza del documento, il cui pensiero sociale era nel mirino dei padri del Concilio più conservatori.

Già nel 1927, con la pubblicazione del volume Il primato dello spirituale, Maritain aveva infatti auspicato il superamento dell’Action Française, che era un movimento politico favorevole a uno Stato forte e militarista che concepiva la Chiesa come un indispensabile strumento di ordine sociale. All’opposto, il filosofo francese difendeva invece l’idea di un ordine temporale, desacralizzato, democratico e pluralistico, sostenendo che il problema della libertà religiosa riguardava lo Stato, non la Chiesa.

A suo avviso, il ruolo dello Stato doveva essere modesto e permettere la libertà religiosa. Proprio per queste sue convinzioni, che ripeté nel 1936 in Umanesimo integrale, Maritain convisse per anni con il rischio che le autorità condannassero le sue idee. In particolare, le sue idee politiche erano vagliate criticamente da Alfredo Ottaviani, che all’epoca era pro segretario della Congregazione del Santo Uffizio e sarebbe poi diventato il capo dei tradizionalisti del Vaticano II.

Anche se non materialmente presente, Maritain fece sentire la sua voce in Concilio attraverso il cardinale svizzero, suo amico personale, Charles Journet, che riportò in aula le sue idee. Se il testo ha avuto molti voti a favore, comunque, lo si deve anche al cardinale patriarca di Venezia Giovanni Urbani che, condividendo la linea Colombo-Pavan-Murray, influenzò molti vescovi italiani.

Tra i nomi citati, che furono la forza motrice di questa dichiarazione, la figura che svolse un ruolo più attivo, a livello operativo, fu senz’altro John Courtney Murray. Nato a New York nel 1904, dopo il dottorato all’Università Gregoriana divenne professore al collegio Woodstock, nel Maryland.

Fu autore di importanti articoli sul tema della libertà religiosa. In particolare va segnalato quello del 30 novembre 1963 nella rivista dei gesuiti statunitensi America dal titolo: «On Religious Liberty» che, tradotto in diverse lingue, finì con l’influenzare molti padri conciliari. Murray enfatizzava i principi fondanti la Carta costituzionale americana (primo emendamento), ma soprattutto sottolineava l’incompetenza dell’autorità politica in materia religiosa. Su queste premesse, auspicava che il Vaticano II facesse proprio il principio distintivo tra ordine secolare e religioso.

Le problematiche da affrontare

Le questioni e i problemi che i padri conciliari si sono trovati a dover fronteggiare furono molteplici. Essenzialmente, essi hanno dovuto cercare degli argomenti fondativi in ragione dei quali l’ordinamento civile doveva riconoscere il diritto alla libertà religiosa, sebbene negli stessi ambiti conciliari non fossero pochi i teologi che si opponevano persino all’idea stessa che il Vaticano II dovesse mettere in agenda questo tema.

Gli argomenti che andavano a favore del riconoscimento del diritto alla libertà religiosa erano diversi:

  • in primo luogo l’integrità della persona umana, giacché non si può separare la libertà interiore dalla sua manifestazione pubblica.
  • Un secondo argomento, connesso al precedente, si basava sul fatto che ogni uomo è chiamato a ricercare la verità, e tale ricerca richiede necessariamente una formazione di tipo sociale e uno spazio di dialogo pubblico.
  • Un terzo argomento che giocava a favore era la convinzione che l’homo religiosus, a prescindere da quale sia la sua fede confessionale, è sempre un uomo sociale, ragion per cui sarebbe sconveniente disunire la sua ricerca interiore dal culto pubblico.
  • Una quarta argomentazione che spingeva verso questo diritto, era la sua connessione con il concetto di bene comune, ovvero il suo legame con la salvaguardia della pace e della giustizia, valori che non sono possibili senza un previo riconoscimento della libertà religiosa.
  • Un quinto e ulteriore argomento che andava nella direzione di questo diritto, derivava dal riconoscimento che la persona non deve mai agire contro il giudizio della propria coscienza, perché, in ultima istanza, questo vorrebbe dire agire contro Dio.

A questi argomenti si aggiunge la riflessione su alcune tematiche che negli anni Cinquanta erano assai dibattute. Una di esse era la questione della tolleranza, anche in virtù del volume Histoire de la tolérance au siècle de la réforme pubblicato nel 1955 dal sacerdote e studioso francese Joseph Lecler. Tale saggio era sul tavolo di lavoro della prima sottocommissione radunatasi a Friburgo, anche se poi la categoria argomentativa della tolleranza venne sbrigativamente licenziata. Lo stesso Lecler, in un articolo del 1953, si era occupato anche della cruciale distinzione tra tesi e ipotesi.

Tra le altre cose, i padri favorevoli al riconoscimento del diritto alla libertà religiosa erano chiamati a superare anche questa dicotomia che, all’epoca, segnava il modo di intendere il rapporto tra lo Stato e la religione. Ancora al tempo del Concilio, infatti, era prevalente nella Chiesa la convinzione («tesi») che i governanti ‒ in uno Stato a maggioranza cattolica ‒, dovevano intervenire per difendere le verità del cattolicesimo, mentre coloro che non erano cattolici potevano essere tollerati in via di «ipotesi», per ragioni di bene comune. L’«ipotesi», in altre parole, era considerata una soluzione eminentemente pratica, priva cioè del valore ontologico della «tesi».

Dietro l’intenzione di alcuni padri tradizionalisti di mantenere questa dicotomia, c’era la volontà di conservare la logica dei concordati e la salvaguardia della confessionalità dello Stato.[3]

Per arrivare a giustificare, o a fondare, il diritto alla libertà religiosa, i Padri dovevano quindi superare numerosi ostacoli e di diversa natura. Un primo ordine di problemi riguardava la difficoltà nel rinvenire nella Bibbia esplicite legittimazioni teologiche. A livello pastorale c’era poi il timore che la libertà religiosa e di coscienza portassero al relativismo e al laicismo, e quindi alla distruzione dell’identità politico-religiosa cristiana.[4]

Sul piano più prettamente politico, bisognava decidere quale dovesse essere il rapporto tra lo Stato e la Chiesa. All’epoca c’erano gli esempi della separazione pura tipica del liberalismo anglosassone, ma anche quel modello della separazione ostile che era emerso in alcuni governi nazionali proprio come reazione ad una troppo stretta precedente unione tra Stato e Chiesa.

Sul piano storico, ma anche su quello dogmatico, era necessario superare anche la così detta questione storica, ovvero la difesa dell’immutabilità della tradizione e con essa l’autorevolezza degli insegnamenti magisteriali. Al riguardo, è necessario ricordare l’enciclica Quanta cura del 1864, che conteneva il Sillabo con la lista degli errori della modernità da condannare. Tra di essi c’erano anche la libertà di religione e di coscienza, e bisognava spiegare come mai il Concilio intendeva dare legittimazione ad un diritto respinto dal magistero papale un secolo prima.

Le soluzioni teologiche

Argomenti a favore, istanze contrare e problematiche da superare hanno reso il dibattito conciliare assai acceso. Tra i documenti del Vaticano II, quello sulla libertà religiosa è quello che ha avuto la genesi più complessa, più lunga e più dibattuta. I padri, facendo uno sforzo concettuale di non piccolo pregio intellettuale, hanno però individuato delle soluzioni funzionali al riconoscimento di questo diritto.

A livello biblico non c’erano passi espliciti che potessero fondare il diritto alla libertà religiosa, tuttavia il comportamento di Gesù, che non ha mai forzato nessuno, rappresentava un modello paradigmatico di riferimento. Prescindendo dall’aggancio alla sacra Scrittura, un primo percorso risolutivo venne individuato nella valorizzazione della coscienza.

Tra i padri emerse il convincimento che la coscienza certa, cioè non offuscata da condizionamenti di varia natura, andava rispettata sempre e comunque. Basilare per arrivare alla maturazione di tale sviluppo, fu poi la pubblicazione, proprio durante il periodo conciliare, della Pacem in terris, nella quale si riconosceva «il diritto ad onorare Dio secondo il dettame della retta coscienza» (cf. n. 8), e dove, nei punti 83 e 84, si distingueva tra errore ed errante, raccogliendo una differenziazione già presente in Rosmini.

Altro passaggio risolutivo compiuto dai padri fu il definitivo superamento del concetto di tolleranza. Ad essi, divenne infatti chiaro che il concetto di tolleranza è ambiguo e limitativo, in quanto si tollera un male, mentre le religioni, in nessun caso, devono essere considerate tali.

Per quanto concerne il pericolo del relativismo e del laicismo desacralizzante, una soluzione la fornì in aula Emiel-Jozef De Smedt nella sua relazione introduttiva alla Declaratio prior, uno dei testi preliminari a quello finale. In essa, distinguendo tra libertà e liberalismo, sostenne che la Chiesa combatteva in definitiva per la dignità della persona umana e per la sua vera libertà.

Rispetto invece alla questione dei così detti «diritti della verità», dopo una serie di interventi in aula divenne palese che non è mai la verità in quanto tale ad avere diritti, ma solo le persone.

Il superamento della questione politica, e in particolare lo scavalcamento della tendenza a privilegiare la chiave tesi-ipotesi, venne invece raggiunta facendo ricorso alle encicliche di Leone XIII. Come scrisse John Courtney Murray, «al fine di comprendere lo sviluppo della dottrina sulla libertà religiosa, bisogna prima prendere coscienza del corpus politicum leoninum». Papa Pecci, infatti, aveva corretto le rigidità in materia sociale di Pio IX, distinguendo in modo chiaro la Chiesa (popolo di Dio) dalla società civile (popolo temporale e terreno). Su queste premesse si giunse a sottolineare l’incompetenza dello Stato in materia religiosa.

Era questa la tesi esposta da Murray in un lungo articolo pubblicato su Theological studies, che egli si curò di inviare prima a tutti i vescovi degli Stati Uniti e poi di tradurre in francese. All’interno del testo, ebbe premura di precisare che la libertà era da intendersi come diritto inerente la persona umana, non soltanto come individuo, ma anche come espressione di un corpo sociale.

Nel suo lungo articolo, inoltre, l’esperto statunitense ribadì la propria convinzione che lo Stato era incompetente a pronunciare giudizi in campo religioso, e fosse pertanto da scartare l’idea che i poteri pubblici potessero porre dei limiti condizionanti al diritto alla libertà religiosa.

Il modello della separazione parziale

Dopo le riflessioni che portarono al superamento definitivo dello schema tesi-ipotesi, il modello di rapporto tra Stato e Chiesa che emerse come opportuno e migliore fu quello della «separazione parziale», in quanto espressivo di una sorta di sintesi conciliante tra l’unione assoluta e la separazione assoluta. Per difendere questa prospettiva politica, Murray fece ricorso alla distinzione, già agostiniana, tra le «due città», che reinterpretava, più in generale, quella evangelica tra Cesare e Dio.

Murray portò anche l’esempio, molto concreto, di Alfred E. Smith che, nel 1928, fu il primo candidato cattolico alla presidenza degli Stati Uniti, anche se poi non venne eletto. Smith pubblicò un saggio dal titolo Credo di un cattolico americano a cui fu costretto dai protestanti, quando, mettendo a confronto l’insegnamento pontificio e la Costituzione americana, dimostrarono che la dottrina sociale della Chiesa sosteneva delle posizioni che si opponevano a quest’ultima. Anche se cattolico convinto, Smith, distaccandosi dall’atteggiamento ecclesiale del tempo, affermò di credere nella libertà di coscienza e nell’assoluta separazione tra Chiesa e Stato.

Per arrivare al riconoscimento del diritto alla libertà religiosa, comunque, la problematica più difficile da risolvere, è stata, da vari punti di vista, quella inerente la questione storica. Da un lato, infatti, i membri conservatori del Concilio continuavano a difendere il valore dell’immutabilità della dottrina, mentre i padri progressisti, valorizzando alcuni pronunciamenti di Pio XI e di Pio XI che avevano sullo sfondo il totalitarismo, sostenevano che un cambiamento era possibile.

Un sostegno al superamento della questione lo diede la teologia di John Henry Newman e la sua dottrina dell’evoluzione del dogma, sebbene sia più opportuno parlare, come fa anche papa Francesco ispirandosi a Vincenzo di Lerino, di sviluppo della dottrina. Su questo punto, in aula conciliare, fu decisivo l’intervento del cardinal Gabriel-Maria Garrone, il quale giustificò appunto la possibilità di uno sviluppo storico della dottrina spiegando che non c’era contraddizione nelle diverse prese di posizione della Chiesa di fronte al problema della libertà religiosa, perché la contraddizione emerge solo quando si affronta un problema sotto un identico profilo, e non era questo il caso del diritto alla libertà religiosa.

Un apporto alla genesi di Dignitatis humanae lo diede anche la svolta antropologica. Infatti, intesa come apertura trascendentale intrinseca alla natura umana, essa si integrava perfettamente con la soluzione personalistica. Entrambe fecero maturare il convincimento che il diritto alla libertà religiosa rappresenta un diritto naturale della persona umana in quanto tale. Tesi, quest’ultima, che in aula venne difesa sia da Colombo che da Alfred Ancel.

La libertà costitutiva dell’umano

Questo, in sintesi, è il percorso compiuto dalla Chiesa conciliare per arrivare al riconoscimento del diritto alla libertà religiosa, dal primo incontro che la commissione ebbe nei locali vescovili di Friburgo, nel dicembre del 1960, alla promulgazione finale del 7 dicembre 1965.

Il concetto fondamentale che troviamo espresso in Dignitatis humanae consiste appunto nel solenne riconoscimento che il diritto alla libertà religiosa – fondato sulla dignità della persona – rappresenta un diritto civile che l’ordinamento giuridico delle società deve riconoscere (cf. DH2a).

Arrivare a tale legittimazione è stato uno degli sforzi teologici più epici e complessi che la Chiesa abbia mai compiuto nella sua storia. Molti padri ne furono scandalizzati e si rifiutarono di votarlo. Lo scisma del vescovo Lefebvre, solo per documentare un esempio concreto, nasce anche e soprattutto da questa dichiarazione.

Nel confronto tra progressisti e conservatori prevalsero alla fine i primi, sulla falsariga del sopravvenuto convincimento che la libertà non è una qualità a fianco di altre, bensì il costitutivo essenziale della persona. Per essere persone occorre essere liberi e solo la fede di persone autenticamente libere è reale, dignitosa e credibile.


[1] Studiando tra le carte dell’archivio Carlo Colombo di Milano, ho scoperto, scorrendo il rapporto epistolare tra lui e Paolo VI che, a raccomandare il coinvolgimento del gesuita all’interno della commissione che lavorava a questa dichiarazione, fu proprio il vescovo milanese.

[2] Nel passare in rassegna la dichiarazione conciliare Dignitatis humanae, mi rifaccio ad un saggio – Il diritto alla libertà religiosa. Alle fonti di Dignitatis humanae (LUP 2014) – frutto di un finanziamento della Conferenza episcopale italiana del 2012, che istituì un team di lavoro finalizzato all’approfondimento dei documenti del Vaticano II. L’obiettivo di quel gruppo di ricerca era quello di stilare non un semplice commento ai testi del concilio, bensì di scavarne le origini, indagarne la genesi, studiarne le radici remote.

[3] Uno dei più strenui difensori della chiave tesi-ipotesi fu, non a caso, proprio Alfredo Ottaviani che, all’Università Lateranense, il 2 marzo 1953, tenne una relazione durissima, poi pubblicata con il titolo Dovere dello Stato cattolico verso la religione, nella quale, pur senza fare nomi, attaccò tutti quegli intellettuali cattolici che mettevano in discussione l’ideale di uno Stato confessionale cattolico.

[4] Basti pensare che negli anni conciliari ci fu addirittura chi, come il cardinale Ernesto Ruffini di Palermo, parlò di «diritti della verità», in virtù del principio che «la libertà religiosa non può essere separata dalla verità, sulla base del postulato che solo Dio, somma verità, è perfettamente libero. Essendo la verità una e indivisa anche la vera religione non può che essere una e ad essa sola spetta il diritto alla libertà».

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