La violenza non è estranea alla dimensione religiosa. Si va dalla sua condanna alla sua giustificazione.
Appartengo alla generazione cullatasi nella previsione dell’imminente estinzione di Dio (o della sua idea), ma Dio (o la sua idea) ha resistito alle previsioni. Gli ultimi trent’anni attestano infatti il potente ritorno del religioso in tante forme, inclusa quella intransigente. La violenza (fisica e non) in nome di Dio è una potenzialità sempre attuale. Di certo non riguarda soltanto l’islam, anche se è evidente il ruolo giocato a questo riguardo dall’islam.
Il cartello esibito durante una manifestazione di solidarietà con il popolo francese, dopo i terribili attacchi di Parigi del 13 novembre 2015, contiene un enigma. Non ho motivo di dubitare della sincerità delle due ragazze che lo reggono, immortalate in una foto ampiamente diffusa in quei giorni, quindi pubblica. Non dubito della loro sincerità, ma non cesso d’interrogarmi sul motivo dell’omissione della parte centrale della citazione coranica. Mancano (in arabo) sette parole molto importanti: «bi-ghayr nafs aw fasad fi al-ard».
Che cosa vogliono dire? Sono due eccezioni al principio enunciato, luminoso, suggestivo, ma con quelle sette parole non più assoluto e incondizionato, come lascia invece intendere il cartello. Perché, anzitutto, si ammette l’omicidio di chi ha ucciso, cioè la vendetta: vita contro vita. La seconda eccezione è più difficile da definire, letteralmente dice: «per altro che corruzione sulla terra». È dunque lecito spargere il sangue di chi sparge corruzione.
Ma di che corruzione si tratta? L’interpretazione più restrittiva punta il dito sul brigantaggio. Ma gli esegeti propongono altre possibilità: shirk, ad esempio, “miscredenza”, o bid’a, “eresia”, fino al comportamento di chi si oppone alla supremazia della Shari’a, poiché «non c’è corruzione più ripugnante che cercare di ostacolare la Legge di Dio». Così scriveva nel suo commentario al versetto Sayyid Qutb, leader storico dei Fratelli Musulmani, specificando che non necessariamente si tratta di un’opposizione armata.
Il caso proposto mostra, dunque, quanto sia decisiva l’attività interpretativa: uno stesso versetto può essere usato come messaggio di pacifismo assoluto e come chiamata alle armi.
Non è però solo faccenda di islam. Un certo uso dell’Antico Testamento ha ampiamente legittimato il ricorso alla violenza da parte delle Chiese durante i secoli, ma anche il Nuovo Testamento è stato volentieri “tirato per la giacchetta”: ad esempio la faccenda delle due spade di Pietro nel Vangelo di Luca 22,38, o il compelle intrare, ancora in Luca 14,23, utilizzato come prova della liceità dell’uso della forza “medicinale” contro gli eretici.
Insomma, la violenza non è estranea alla dimensione religiosa: questa controlla e limita la violenza, persino la condanna, ma anche la giustifica e la sacralizza, quando è “buona”, quindi la diffonde.
Parleremo di tutto questo (e altro) in un corso on-line dedicato al fondamentalismo religioso, che prende il via lunedì 12 aprile, provvisto dei crediti formativi MIUR. Ha un focus sul versante islamico, ma non sarà solo questione di islam (per informazioni e iscrizioni, qui)
Multidisciplinare l’approccio: quindi non solo islamologia, ma anche psicologia/psichiatria, sociologia, teologia.
Una cosa un po’ nuova, costruita non solo sui testi ma anche sull’osservazione della realtà e di problematiche specifiche, con le quali ci stiamo misurando in modo crescente da trent’anni a questa parte.