Il carcere è un brodo di coltivazione della radicalizzazione ideologica o religiosa fino a ideare progetti di estremismo violento? Sì, non particolarmente più di altri contesti, ma secondo alcuni elementi caratteristici e rilevanti.
La religione ha un ruolo nei processi di radicalizzazione e nei progetti di de-radicalizzazione? Sì, anche se non necessariamente e direttamente.
Una conclusione semplicistica delle complesse risultanze del progetto FAIR[1] presentate a Roma a metà settembre. Il progetto ha mobilitato, tra ottobre 2017 e ottobre 2019, oltre 150 soggetti, prevalentemente esterni all’Amministrazione penitenziaria. «Per la prima volta in Italia guide spirituali e psicologi, garanti dei detenuti, volontari e operatori di servizi socio-assistenziali e del privato sociale, si sono confrontati con esperti, ricercatori e testimoni per valutare politiche e pratiche che provano ad integrare l’approccio resiliente a quello securitario, predominante tra le forze dell’ordine».[2] Si è provato a coinvolgere anche la Polizia penitenziaria, trovando – inatteso – uno stop da parte della DAP (Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria). Un’assenza di rilievo, perché gli agenti sono il soggetto che, più di tutti, si relaziona quotidianamente con la persona detenuta e meglio di tutti assiste all’evolversi delle storie personali e di gruppo.
Tre le linee operative: partecipazione all’azione del legislatore (come la proposta di legge Dambruoso-Manciulli);[3] formazione delle persone che, a titolo professionale o volontario, operano in carcere; iniziative sul campo, con le persone detenute (come, ad esempio, il progetto «Diritti, Doveri, Solidarietà» ideato e condotto da p. Ignazio De Francesco nella Casa circondariale di Bologna).
Tre anche le linee progettuali di intervento portanti: prevenzione – disimpegno – integrazione. Prevenzione dice la necessità di affrontare il fenomeno della radicalizzazione nella complessità del contesto. Il fenomeno non nasce nel vuoto, dalla devianza sociale di un singolo, tanto meno dalla sua “pazzia”, ma, come osserva Orla Lynch: «Il terrorismo e la violenza politica non possono essere studiati nel vuoto, e il contesto che porta alla violenza – comprese le attività antecedenti, l’azione delle agenzie di antiterrorismo e dei gruppi di opposizione – è molto rilevante». Sottolinea Horgan: «In realtà, non vi è alcuna buona ragione per supporre che i fattori motivazionali push-and-pull di un aspirante terrorista siano necessariamente molto diversi da quelli che agiscono su una persona che pensa di servire il proprio paese nelle forze armate».
Disimpegno indica la necessità di intercettare i processi di radicalizzazione in corso e la capacità di elaborare iniziative di intervento personalizzate. Proprio perché non vi sono automatismi di causa ed effetto, la scelta di votare la propria vita alla lotta violenta risponde a un modello relazionale almeno quanto a un’etica ideologica. La scelta radicalizzante si alimenta e alimenta la costruzione di un’immagine dell’altro come colpevole da punire e legittima l’azione violenta come necessaria opera di giustizia. Non sfugge l’assonanza con le logiche portanti dell’ordinamento giudiziario e penitenziario, né quanta forza possa avere, per sostenere o scoraggiare, il sistema religioso di riferimento. «Nel nostro sistema giudiziario … la “de-radicalizzazione” è in rari casi affrontata come trattamento; si preferisce piuttosto elevare il potenziale di deterrenza con strumenti che infliggono maggiore sofferenza e violazione dei diritti».
Integrazione dice la necessità lavorare insieme a progetti di futuro credibili e vivibili. Senza prospettive di integrazione possibile, la semplice repressione – seppure in singoli casi possa avere successo – perpetua e addirittura alimenta le logiche del fondamentalismo e della risposta violenta.
«Sebbene ci siano state, e ancora esistano, buone pratiche locali nei penitenziari del nostro Paese … lo stato delle politiche di prevenzione e contrasto all’estremismo violento presentano una situazione dove l’intuizione e la buona volontà dei singoli attori dell’Amministrazione penitenziaria o dalla società civile non riescono a scalare dal livello locale a quello nazionale per diventare una solida strategia italiana».
Il brodo è il vuoto
Il liquido amniotico nel quale la radicalizzazione fondamentalista e violenta trova gestazione è il vuoto. Vuoto del quale la vita nelle carceri italiane è… piena.
Vuoto anzitutto del tempo. Senza lavoro e a corto di attività sussidiarie, nelle carceri il tempo “vuoto” si offre a catalizzatore di frustrazioni, pensieri negativi se non vere e proprie paranoie, malessere che rimugina propositi di vendetta.
Vuoto di offerta culturale. Troppi elementi, anche soltanto linguistici (come un lessico infantilizzante), concorrono ad alimentare un artificioso senso di inferiorità, ricacciano in un’identità negativa o non degna di fiducia. L’offerta di cultura non arricchisce soltanto di contenuti, ma sviluppa un’identità personale più consapevole. La possibilità di ascoltare voci diverse, venire a conoscenza di apporti autorevoli da culture diverse toglie fiato alla radicalizzazione fondamentalista attorno a principi omogenei e dogmatici.
Vuoto di relazioni. Sia perché il carcere isola (con la pretesa paradossale di insegnare a vivere nella società), sia perché incoraggia l’affiliazione a gruppi omogenei e quasi sempre i medesimi di quelli di provenienza.
Vuoto di futuro. È disarmante l’“ingenuità” di un sistema penitenziario che vuole assolvere alla funzione primariamente rieducativa della pena (art. 27 della Costituzione) con un organico che registra l’89,36% del personale nelle fila della polizia penitenziaria e solo il 2,7% in qualità di educatori.
Vuoto di diritto. È il più allarmante. «Per quanto riguarda l’elaborazione di misure di sicurezza relative agli estremisti violenti, è importante che esse siano basate sullo Stato di diritto e sul rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Lo Stato di diritto e i diritti umani sono alla base della visione del mondo e del sistema democratico. Questa visione del mondo è messa in discussione dagli estremisti che alla fine vogliono sostituirla con il proprio sistema e le proprie regole. I gruppi estremisti cercheranno di attaccare i valori democratici esponendo situazioni in cui questi valori (Stato di diritto e diritti umani) sono violati. Questa esposizione ha l’obiettivo di delegittimare i fondamenti della società democratica. Di conseguenza, è importante proteggere questi valori a tutti i livelli». Consiglio d’Europa, Handbook for Prison and Probation Service, 2016).
Nel contesto europeo le forme di privazione della libertà si vanno estendendo fuori dalle mura del carcere. Privazioni di carattere amministrativo, mancanza di norme, non certezza del diritto, mancanza di vigilanza collaborano a far attecchire i processi di radicalizzazione.
Religione tra paura e diritto
Il dispiegarsi del progetto ha messo in evidenza come la religione venga pregiudizialmente compresa come sospetta concausa della radicalizzazione e vengano trascurate le potenzialità “rieducative” della religione, se proposta in maniera adeguata. «Gli operatori civili evidenziavano un gap di conoscenza tanto sull’islam che su come l’amministrazione penitenziaria gestisse il fenomeno in carcere. (…) Mancando la volontà politica di regolamentare tout court gli aspetti del culto islamico sia nella nostra società, che nella vita quotidiana all’interno delle carceri, il risultato è che troviamo buone pratiche come un’eccezione di pochi istituti penitenziari. Permane, cioè, prevalente la logica dell’Amministrazione penitenziaria secondo la quale i diritti basilari ai detenuti musulmani sono una concessione e non una precondizione senza la quale si rischia di fomentare un sentimento di odio e frustrazione verso le istituzioni. Si evidenzia così un paradosso, quello per cui nel sistema penitenziario all’islam non è riconosciuto lo stesso ruolo delle altre religioni: cioè una risorsa del detenuto per la riflessione sui propri errori e per la sua riconciliazione con se stesso e il mondo, un ruolo preventivo alla recidiva in generale».
Resta il dubbio di fondo sulla capacità – o addirittura la possibilità – dell’istituzione carcere di svolgere la propria funzione rieducativa / riabilitativa in vista del reinserimento. L’intervento sulla radicalizzazione è soltanto un caso. «Il dubbio riguarda la possibilità concreta di attuare un “trattamento” e una “rieducazione” nel contesto penitenziario, così come previsti dalla Costituzione italiana».
Luigi Ferrajoli sostiene che «il fine pedagogico o risocializzante … non è realizzabile. … Repressione ed educazione sono tra loro incompatibili, come lo sono la privazione della libertà e la libertà medesima che dell’educazione forma la sostanza e il presupposto».
Raccomandazioni
Le Raccomandazioni elaborate dai conduttori del progetto si esprimono su tre livelli.
1) Interventi di sistema. Le condizioni delle carceri (sovraffollamento, carenze di personale, violazione di fatto di alcuni diritti dei reclusi) concorrono a concimare un ambiente fertile alla radicalizzazione. «L’applicazione dello Stato di diritto è quindi il prerequisito fondamentale per promuovere nel sistema carcerario i fattori di protezione e resilienza verso i rischi di radicalizzazione violenta nei ristretti».
2) Interventi legislativi, come il rilancio in Parlamento della proposta di legge Dambruoso / Manciulli. «Riprendere il percorso per un giungere a un’intesa tra Stato italiano e le comunità islamiche, dai cui possano discendere protocolli tra queste ultime e il DAP per garantire i diritti alla pratica religiosa e per favorire il ruolo delle guide spirituali nella decostruzione dei valori presenti nelle narrative e nelle interpretazioni violente/estremiste/fondamentaliste delle diverse religioni».
3) Interventi nelle politiche. «Esacerbare, o meno, il problema che abbiamo affrontato passa … da una sola strada: quella dello Stato di diritto. Percorrerla, o meno, è una scelta politica in capo a governi, parlamenti, magistratura e amministrazione penitenziaria. Una scelta che riflette le idee che questi hanno di carcere e di terrorismo, con i relativi paradossi».
[1] Il termine inglese FAIR significa “giusto”. Qui è acronimo per Fighting Against Inmates’ Radicalization (Lotta contro la radicalizzazione delle persone detenute). Capofila del progetto è la Fondazione Nuovo Villaggio del Fanciullo (Ravenna). 10 partner europei e finanziamento della Commissione Europea.
[2] Le citazioni sono tratte dal rapporto Lo Stato di diritto e la prevenzione dell’estremismo violento: tra politiche e pratiche nei ristretti orizzonti italiani curato da Luca Guglielminetti. L’impianto e gli obiettivi del progetto erano stati descritti in un articolo dal titolo pressoché uguale pubblicato su Ristretti orizzoni News a firma dello stesso Guglielminetti e di Diletta Berardinelli.
[3] Progetto di legge A.C. 3558-A recante “Misure per la prevenzione della radicalizzazione e dell’estremismo jihadista” a prima firma on. Stefano Dambruoso, presentato alla Camera dei deputati il 26 gennaio 2016.