Le battaglie di suor Sylvie, delle Piccole Sorelle di Gesù, sono continue, quotidiane. Viso dolce, sguardo sereno, contemplativo, ma una grande forza interiore. Va a raccogliere mele con le donne musulmane del villaggio, per quasi nulla e quando c’è lavoro. Sennò, dalla piazza torna a casa con gli altri. Lavora in équipes miste e, allora, succede sempre qualcosa di particolare…
Una volta si è trovata da sola con tutti uomini. Dopo pranzo, voleva distendersi per terra qualche istante, ma esitava. Poi, svegliatasi, si era accorta che gli uomini erano tutti spariti, per non disturbarla. «In ogni uomo c’è sempre un servo e un figlio del re», ricorda un proverbio, a questo proposito. «Se parlate al servo, sarà il servo che vi risponderà. Se parlate al figlio del re… vi darà risposta il figlio del re!».
Anche se «molti vedono come appari, solo pochi sentono come sei». Scritta in arabo, italiano, spagnolo… in sei lingue, questa frase, nella sua inedita pedagogia, decora una sala del Centro linguistico della comunità francescana. Una comunità originale, inculturata e giovanile. Abita aggrappata alle vecchie mura di Meknès, in un’antica casa di rabbini, in pieno contesto musulmano. «Hai notato la stella di David alla porta?», mi fa frate Gustavo, mentre salgo in arrampicata…
Se, davanti casa, hai un viavai continuo di giovani, di donne e di bambini trovandoti in piena medina popolare, quassù tutto è diverso. Sei sul posto delle sentinelle, sopra la città. Una veduta incantevole e strategica: la stretta terrazza sulle mura ti invita, alle prime ore del giorno, a meditare, mentre il sole nasce ai tuoi piedi. Poi, a sole alto, ti fa osservare tutta una distesa di tetti, di poveri panni esposti e centinaia di paraboliche, ansia profonda in questo popolo di connettersi con il mondo.
Al pianoterra, nel labirinto delle salette, i giovani seguono gratuitamente i corsi di lingua: sono più di un migliaio. Il Centro francescano sforna continuamente giovani musulmani che vengono e vanno. Lo spirito francescano si sente nell’amicizia fraterna che i giovani stessi confessano di vivere solo qui: strano a dirsi, dei musulmani contagiati dallo spirito di Francesco, fratello universale. Si sente anche nella libertà di parola, sconosciuta altrove.
Si invitano qui specialisti musulmani, autori di libri, per presentare temi spinosi, problematiche originali, prospettive nuove. Per una popolazione giovane, educata da sempre al senso della tradizione da rispettare, una formidabile oasi di libertà.
«Finalmente, avete preso in casa una donna di servizio!», esclamavano ieri, sollevate anche loro, alcune donne musulmane a suor Maria: la vedono sempre tanto affaccendata. Parlano di Elisabeth, l’ultima giovane sorella arrivata dal Benin, di pelle nera, per cui il loro giudizio, cosa normale qui, va giù sicuro. «No, è la mia nuova sorella!», risponde quella, lasciandole sorprese.
E ciò risponde a quel carisma delle francescane, che Maddalena della Passione, la fondatrice, vivendo tra India e Francia, aveva voluto che risplendesse all’interno di ogni piccola comunità: l’internazionalità o, meglio, l’universalità.
Incontri, allora, una comunità di tre francescane con tre nazionialità differenti… ed è sufficiente per mettere in imbarazzo i vicini di casa, musulmani. «Ma sareste tutte sorelle?», domandano interdetti. Abituati, piuttosto, a coltivare il senso dell’omogeneità, del sentirsi fra simili, ciò cambia loro il mondo sotto i piedi. «Una vera testimonianza per gli altri», afferma suor Maria, aggiungendo subito con mezzo sorriso, «una croce e una gioia quotidiane per noi!».
Questo modo di amare l’altro, nella sua diversità, in modo gratuito, evangelico, lo incontri spesso. Come tempo fa, quando, suonando al campanello delle suore vicino al monastero, mi si apre invitandomi: «Vieni, vieni a vedere!». In un angolo del giardino una pianta con le foglie, in parte cadute, che morendo ostentano un giallo intenso, luminosissimo.
«Ma queste… siete voi!», mi viene da esclamare all’istante, contemplando questa meraviglia. Tutte anziane, queste quattro suore, con trenta o quarant’anni di missione in Marocco, una solidarietà con la gente incrollabile, un impegno sereno e senza misura, nessun rincalzo dall’Europa.
«Noi moriremo», sospiravano, giorni fa. «Ma questa gente non dimenticherà mai che dei cristiani li hanno amati. E che non erano cattivi, come hanno loro insegnato». Luminosa spiritualità dell’abbandono. Come nel loro giardino, queste splendide foglie giallo-oro.
Ammiro, così, suor Myriem, libanese. È direttrice di una grande scuola di Casablanca con un migliaio di ragazzi musulmani; era abituata a lavorare con i musulmani in Siria e Libano. Il programma svolto comprende il Corano e gli insegnanti sono tutti musulmani: è, in fondo, una scuola… cattolica, molto richiesta in città per serietà e impegno!
All’inizio della mattinata è lei che fa la preghiera: «Offriamo a Dio questa giornata, il nostro studio, i nostri piccoli impegni». In tempo di Ramadan «facciamo il digiuno delle parolacce, delle offese agli altri»… E questi ragazzi, con gli occhi chiusi, questa suora li fa pregare nella loro fede. Incredibile!
Oppure, ascoltavo padre Joseph di Oujda, settantenne, ai confini con l’Algeria, mentre mi ripete ossessivo: «Ma l’uomo ha il diritto di essere un uomo, l’Africa non ha il diritto di uscire di casa? Perché rinchiuderla così?!». Ce l’ha con l’Europa e con i suoi fantasmi ossessionanti di invasione, lui che ama gli spazi aperti! La sua chiesa, protetta, guardata a vista dalla polizia, è diventata un porto di mare, un’oasi umana.
Due giorni fa sono arrivati dal deserto ancora dei giovani subsahariani musulmani, una decina. Dormivano sul tappeto, in chiesa. «Sì, attorno all’altare, mi fa. Appena arrivano crollano per terra», aggiunge con tristezza, «sfiniti dalla fatica». Una coppia nigeriana vive già da un mese chiusa in sacrestia: ha perso il bambino, la salute, la speranza… Si prepara a tornare indietro. Altri vivono altrove, nella sua casa. E lui, alla sua età, è per tutti il buon samaritano di oggi.
Con i suoi tanti volti, questa Chiesa ama chiamarsi «sacramento dell’incontro». E lo è, per davvero!