Il 16 ottobre si sono dimessi in blocco i componenti del Consiglio per le relazioni con l’islam. Per gli accademici, i rappresentanti delle comunità islamiche italiane e gli esponenti di altre religioni e confessioni, l’organismo, legato al ministero degli interni, è ormai pletorico e privo di strumenti operativi. «Con ogni evidenza (è) giudicato (dal ministero degli interni e dal governo) non rilevante per la definizione di orientamenti e politiche nei confronti dell’islam italiano e, più in generale, delle varie comunità di fede».
I due milioni di islamici, per grandissima parte immigrati, saranno più esposti alle possibili derive fondamentaliste, al ricorso strumentale alla politica identitaria e all’assenso verso un comunitarismo isolazionista.
Dopo quasi vent’anni di attività l’organismo è stato convocato dall’attuale ministro, Matteo Piantedosi, il 13 luglio 2023. Poi, più nulla. Rimangono sospesi alcuni progetti come la collaborazione con l’Anci (Associazione nazionale comuni italiani) per la questione dei cimiteri e delle aree per le moschee (circa 1.000 in Italia). Nessuna iniziativa è stata avviata e calendarizzata. Il riconoscimento giudico di alcune organizzazioni musulmane non ha avuto la prosecuzione sperata. Le reiterate sollecitazioni da parte di alcuni consiglieri (che non percepiscono compensi) non hanno ottenuta udienza.
Senza enfatizzare un impegno che rimane lento e complesso, l’attuale situazione di stallo esprime un cambio di indirizzo da parte dell’attuale governo e la volontà di non perseguire un “islam italiano”, un adeguamento della tradizione islamica ai principi di riferimento costituzionali dell’Italia.
I risultati
Così si esprime Daniele Garrone, presidente della Federazione delle Chiese evangeliche in Italia: «Siamo profondamente delusi per l’epilogo che sembra prospettarsi per questo importante strumento di dialogo […], perdere il Consiglio per le relazioni con l’islam vuol dire erodere un significativo spazio di democrazia. Il pluralismo religioso e il pluralismo multiculturale sono realtà italiane e globali».
Alla solidarietà con i fedeli musulmani si affianca l’invito alla politica perché riprenda «il suo ruolo di garante per movimenti e associazioni e per la cittadinanza. La libertà religiosa è un diritto fondamentale che non può essere trascurato ed eroso».
La lentezza dei dialoghi era già stata sottolineata da Avvenire nel marzo scorso.
I risultati di un confronto che dura dal 2005 e attraversa vari governi (centro sinistra e centrodestra) non sono da sottovalutare: lotta al radicalismo fondamentalista, percorsi di formazione per gli imam, uso dell’italiano nei sermoni, dialogo interreligioso e interculturale sui territori, accesso dei non musulmani ai luoghi di preghiera, comportamenti conformi alle indicazioni sanitarie durante la pandemia.
E ancora: il riconoscimento e la conoscenza reciproca fra le diverse associazioni islamiche, il loro confronto con le altre Chiese e confessioni, la collaborazione delle università con il ministero, la sollecitazione per una legge sulla libertà di religione (non ancora voluta dal parlamento).
Per un quadro più organico rimando alle interviste al prof. Alessandro Ferrari (SettimanaNews, qui) e, per quanto riguarda il dialogo con la Chiesa italiana, alle parole di mons. Mariano Crociata (SettimanaNews, qui).
La Carta e il Patto
Nei due decenni di lavoro del consiglio (con i nomi di consulta, comitato e poi consiglio), a parte l’avvio con il ministro Giuseppe Pisanu (2005), i momenti di maggiore interesse sono stati: il decreto ministeriale (Giuliano Amato) sulla Carta dei valori della cittadinanza e dell’integrazione (2007), il rinnovo e l’ampliamento dell’organismo alle altre religioni col ministro Andrea Riccardi (2011-2013) e l’approvazione del Patto per l’islam italiano nel 2017 (SettimanaNews, qui).
La Carta dei valori ha rappresentato un primo e discusso risultato del confronto fra ministero e rappresentanti dell’islam, coadiuvati da esperti giuristi. È strutturata in sette sezioni: Italia, comunità di persone e di valori; dignità della persona, diritti e doveri; diritti sociali, lavoro e salute; diritti sociali, scuola, istruzione, informazione; famiglia, nuove generazioni; laicità e libertà religiosa; l’impegno internazionale dell’Italia.
In occasione della Carta si è prodotta, però, una spaccatura rilevante fra le associazioni islamiche perché l’Ucoii (Unione delle comunità islamiche in Italia) e le altre sigle del mondo musulmano si sono divise. Frattura motivata dalla proposta di alcune associazioni di avviare una “Federazione dell’islam italiano” sulla base della Carta e di alcuni riferimenti comuni come la laicità dello stato, l’uguaglianza uomo-donna, la trasparenza dei finanziamenti, la formazione degli imam ecc. in funzione di ottenere l’“intesa”.
L’Ucoii esce a questo punto dalla consulta e il dialogo si blocca. Riparte per l’azione di Andrea Riccardi (ministro per la cooperazione internazionale e l’integrazione) che affianca ai rappresentanti dell’islam altri di diverse fedi e confessioni (protestanti, ortodossi…), togliendo l’eccezionalità della questione islamica e recuperando al dialogo istituzionale l’Ucoii.
Il terzo momento è l’approvazione del Patto nazionale per un islam italiano (febbraio 2017) che porta la firma del ministro Marco Minniti e di dieci associazioni islamiche. Queste ultime si impegnano a contrastare la radicalizzazione del fondamentalismo, a darsi una forma giuridica coerente con la normativa in materia di libertà religiosa, all’apertura dei luoghi di culto, alla gestione trasparente delle finanze, alla predicazione in lingua italiana.
Dal punto di vista del ministero degli interni si intende: contribuire alla formazione degli imam, favorire un quadro normativo coerente con il modello europeo per “mettere a norma” l’associazionismo musulmano, promuovere tavoli interreligiosi a livello locale.
Il Patto rappresenta un incoraggiamento e un riconoscimento della confessionalizzazione dell’islam in Italia e cioè della sua progressiva trasformazione in “religione” secondo i canoni del diritto italiano di libertà religiosa, senza obbligare all’uniformità le associazioni islamiche presenti sul territorio. Il tutto in vista anche di una possibile “intesa” con l’islam.
Meno diritto più politica
Le attuali dimissioni del Consiglio alimentano un interrogativo sulla continuazione del cammino finora percorso. Due gli smottamenti riconoscibili nell’attuale situazione.
Il primo è lo spostamento di autorità sul fenomeno dal ministro degli interni alla presidenza del consiglio. Si constata una riduzione del ruolo del ministero a favore di commissioni in capo alla presidenza del consiglio. Il ché può comportare ritardi, fraintendimenti e forse blocchi.
Il secondo è l’accelerazione sul versante politico piuttosto che sul lavoro tecnico e giuridico. In altri termini, la questione islam è uno strumento di lotta politica più che un problema di libertà religiosa, di integrazione sociale e di efficacia amministrativa.
Alla destra è più congeniale avere una “riserva” da spendere nella polemica partitica che perseguire una legislazione di riconoscimento e di integrazione. Anche se il Consiglio ha lavorato bene anche con ministri del centrodestra. In simili questioni contano anche gli spostamenti delle persone come l’uscita dalla Direzione dei culti del prefetto Fabrizio Gallo.
La marginalizzazione delle competenze tecniche e accademiche produrrà l’effetto di oscurare l’opportunità di una legge sulla libertà religiosa atta a garantire alcuni strumenti essenziali a tutte le forme religiose, senza intaccare il quadro concordatario che regola i rapporti dello stato con la Santa Sede e il cattolicesimo italiano e in coerenza con le vincolanti indicazioni costituzionali. E, inoltre, spingerà ogni associazione islamica e le “nuove religioni” a perseguire il cammino dell’intesa, molto più esposto alle variabili politiche del momento.