Birmingham, con il suo milione e centomila abitanti, è la seconda città più popolosa del Regno Unito. Dopo essere stata, tra Settecento e Ottocento, il polo propulsivo della rivoluzione industriale, è oggi uno dei centri economici più importanti del paese, soprattutto per il grande sviluppo del settore terziario. In tre ore di aereo, poco più, poco meno, la si raggiunge da qualsiasi grande città italiana; come dire, dietro l’angolo di casa.
È da una moschea di Birmingham, e non da una lontana e isolata città afghana o iraniana, che, con tono pacatamente didascalico e perfetta padronanza della lingua inglese, qualche settimana fa, durante il sermone del venerdì, un imam ha spiegato come – according to the Sharia – si debba correttamente procedere alla lapidazione di una donna adultera.
Il sermone, registrato e fatto girare su YouTube, ha suscitato ferme e indignate reazioni; le autorità britanniche hanno imposto il ritiro del video e il blocco immediato di un consistente finanziamento a fondo perduto che il governo aveva recentemente stanziato a favore del centro islamico.
L’indignazione non basta
Comprensibile lo shock, comprensibile l’indignazione. Ma l’indignazione non basta, soprattutto se è proprio la nostra reazione scandalizzata a permetterci di sentirci a posto con la coscienza e a impedirci di vedere i rischi che corriamo quando ci accomodiamo nella comfort zone dei nostri diritti certi e dati per scontati.
Corriamo il rischio di pensare che le parole dell’imam di Birmingham siano parole di una cultura diversa e primitiva, che la nostra evoluta civiltà occidentale si è subito dimostrata pronta a circoscrivere, isolare e condannare.
Corriamo il rischio di sentirci al sicuro e di ritenere che questo fatto, di fondo e fino in fondo, non ci riguardi, come se i diritti conquistati dalle donne in Occidente – una porzione così ridotta di umanità… – potessero e dovessero bastarci, come se ciò che lede la dignità di qualsiasi altra bambina, ragazza, donna o anziana nel mondo non fosse intrinsecamente lesivo anche della nostra stessa dignità di donne (e uomini) occidentali.
Corriamo il rischio di smarrire la consapevolezza storica e non ricordare più il tempo – l’altro ieri soltanto – in cui anche il progredito Occidente condannava alla morte, fisica o sociale, le donne accusate di adulterio; il tempo delle lettere scarlatte con la A di “Adultera” ricamate sul corsetto, a pubblico ludibrio; il tempo della Vicenza cattolica di inizio Novecento, raccontato da Elisa Salerno nel suo libro Le tradite del 1937, quando le donne che concepivano un figlio fuori dal matrimonio erano tradite non solo dall’uomo che le aveva illuse con una promessa d’amore e poi le aveva buttate via, insieme al “figlio del peccato”, ma anche dalla famiglia e dalla società, che rifiutava di accoglierle e le lasciava sulla strada, senza offrire loro alcuna possibilità di riscatto; e, infine, anche dalla Chiesa stessa che, nei confronti di uomini e donne, agiva sempre secondo una doppia morale, giustificando gli uomini e caricando solo sulle donne ogni colpa sessuale.
Corriamo il rischio dell’inconsapevolezza acritica che radica la responsabilità delle aberranti parole dell’imam solo nel fondamentalismo religioso oscurantista, senza riflettere che la radice malata non è la religione in sé, ma il maschilismo.
Eccolo lì, dietro l’angolo di casa, il maschilismo becero e violento che usa il corpo delle donne come spazio di sopraffazione dell’alterità e di disumana affermazione di sé, il maschilismo che non disdegna di assumere le sembianze dell’integralismo religioso e, in nome di una presunta fedeltà alla lettera e alla tradizione, nega alle donne pari diritti e pari dignità. Eccolo lì, da Birmingham a Palermo e oltre, il maschilismo strisciante che sostanzia di sé i femminicidi, la pornografia, gli stupri, lo sfruttamento, la sottrazione di identità e la negazione di pari dignità e opportunità.
Dovremmo essere tuttə femministə
Eppure, a moltə sembra che nel nostro mondo non ci sia più bisogno di femminismo. Le ragioni per le quali il femminismo è nato non sussistono più, dicono, il patriarcato è una fase storica ormai superata, le donne hanno conquistato gli stessi diritti degli uomini, il maschilismo è una questione che non ci tocca.
La parola femminismo è guardata con sospetto, se non con scherno. Gli stereotipi si moltiplicano. Le femministe sono donne scarmigliate e scomposte che urlano slogan per strada, facendo gestacci e brandendo cartelli. Le femministe sono perennemente arrabbiate, odiano gli uomini, non hanno senso dell’umorismo, non usano il deodorante, non si depilano. Le femministe son sempre lì a rivendicare diritti o a montare problemi dove non ci sono…
Intanto, il maschilismo sfacciato si traveste da sessismo innocente, e smascherarlo diventa più difficile. Agisce in modo sottile, veicolando stereotipi che vengono interiorizzati così profondamente che riconoscerli e liberarsene risulta impossibile. Scriveva Chimamanda Ngozi Adichie, scrittrice nigeriana autrice di romanzi di successo, divenuta famosa in Europa una decina d’anni fa grazie ad un suo concentratissimo saggio dal titolo Dovremmo essere tutti femministi: «Se facciamo di continuo una cosa, diventa normale. Se vediamo di continuo una cosa, diventa normale. Se solo i maschi diventano capoclasse, a un certo punto finiamo per pensare, anche se inconsciamente, che il capoclasse debba essere per forza un maschio. Se continuiamo a vedere solo uomini a capo delle grandi aziende, comincia a sembrarci “naturale” che solo gli uomini possano guidare le grandi aziende».
Certo, ci vuole un enorme coraggio per osare lo scatto che permette di spezzare le catene mortifere della consuetudine. È lì, dietro l’angolo, la storia di Franca Viola, una ragazza di diciassette anni che, nella cattolicissima Italia degli anni Sessanta, e non in una remota e sconosciuta terra islamica, osò tenere alto il suo volto di «svergognata» e, sfidando le regole arcaiche dell’onore patriarcale, rifiutò la consuetudine, divenuta norma irrefragabile, del matrimonio riparatore.
Era il dicembre 1966 quando Franca Viola portò in tribunale l’uomo che l’aveva rapita e stuprata. Di lì a quindici anni, nel 1981, venne abrogato l’art. 544 del Codice penale che scagionava lo stupratore che sposava la propria vittima. Ci vollero altri quindici anni perché, nel 1996 – l’altro ieri, appunto –, la legge sancisse il passaggio epocale che definiva lo stupro non più reato contro la morale, ma reato contro la persona.
È ancora molto, troppo sottile, in termini di tempi e di maturazione di consapevolezza individuale e sociale, la profondità storica che fa da fondamento all’emancipazione delle donne e alla tanto sognata uguaglianza in diritti e in dignità. È troppo sottile perché si possa abbassare la guardia e pensare che maschilismo, androcentrismo, patriarcato, sessismo e femminismo siano parole divenute ormai, definitivamente, fuori-tempo e fuori-luogo.
COREIS condanna il sermone dell’imam di Birmingham
Secondo Chimamanda Ngozi Adichie dovrebbe esserci più gente a rivendicare la parola femminista. E la sua definizione di femminista è questa: «Un uomo o una donna che dice sì, esiste un problema con il genere così com’è concepito oggi e dobbiamo risolverlo, dobbiamo fare meglio. Tutti noi, donne e uomini, dobbiamo fare meglio».
Il Consiglio delle guide religiose della COREIS – Comunità Religiosa Islamica Italiana –, una delle principali associazioni di rappresentanza del culto islamico in Italia, ha condannato le affermazioni dell’imam e la sua brutale descrizione tecnica di una lapidazione femminile per adulterio, pubblicando sul suo sito, in data 3 settembre, alcune parole molto ferme: «È intollerabile la puerile giustificazione addotta dai responsabili di uno dei centri islamici di Birmingham che si tratti di una citazione estrapolata artificialmente dal contesto del sermone. Ciò che è davvero artificiale e artefatto del sermone in questione è la totale mancanza di senso di coerenza e di opportunità religiosa, la mancanza di sensibilità e consapevolezza del contesto e delle reali priorità spirituali dei fedeli nella storia e nella società contemporanea dell’Occidente.
L’errore di questo imam è quello di abusare della sua saccenza su alcuni dettagli tecnici della storia giuridica per travisare e istruire alcuni fedeli ad una interpretazione formalista e “punitiva” della religione a discapito e a danno dell’integrità di ogni essere umano. Così facendo egli snatura la vera identità e finalità di ogni dottrina religiosa e di ogni credente, uomo e donna, occultando il messaggio di prevenzione nella ricerca del bene, scioglimento dei nodi dell’anima, pacificazione interiore e armonia universale».
Con riferimento al caso specifico della richiesta di assoluzione per il marito violento sostenuta dal pm di Brescia e, più, in generale, alla violenza sulle donne legittimata da fattori culturali religiosi familiari, vale la pena ascoltare la puntata odierna di “Tutta la città ne parla”, in particolare le ineccepibili affermazioni della giudice penale Paola Di Nicola.
Anita Prati, pianeta Terra
(Se la violenza sulle donne è “culturale” – reperibile in podCast: https://www.raiplaysound.it/audio/2023/09/Tutta-la-citta-ne-parla-del-12092023-2fb98147-6cb7-4d88-9e40-d1d34d381ef3.html)
In Italia ,a Brescia i giudici hanno assolto un uomo del Bangladesh che maltrattava e picchiava la moglie, con la motivazione che i maltrattamenti non erano scelti in coscienza ma solo per cultura ed educazione. Nessuna femminista italiana si è sdegnata. Nel futuro iusulmani imporranno sempre di giù la loro “cultura ed educazione” nella sottomissione piu’ completa degli occidentali che ,per paradosso di tolleranza, non possono essere cosi’ intolleranti da proibire loroleliro usanze e cultura. Il cortocircuito logico ha già fatto andare in tilt le societa’ scandinave : se ho per principio di tollerare ogni cultura “diversa’ devo tollerare anche quella in cui si lapidano e maltrattano le donne. Se invece impongo gli standard occidentali sono intollerante verso le culture diverse. I giudici di Brescia mn fanno che portare alle estreme conseguenze logiche dei presupposti ideologi.
Il COREIS dichiara: “Ciò che è davvero artificiale e artefatto del sermone in questione è la totale mancanza di senso di coerenza e di opportunità religiosa, la mancanza di sensibilità e consapevolezza del contesto e delle reali priorità spirituali dei fedeli nella storia e nella società contemporanea dell’Occidente.”
Praticamente fare un sermone su come lapidare le adulterere, secondo il COREIS, è inopportuno e incoerente nel contesto occidentale ma non sbagliato in assoluto.
È questa sarebbe una condanna?
E l’autrice si permette di fare un parallelismo fra questa infamia e la posizione della donna in Italia?
Ma dove vive?
In che pianeta?
Non è sufficiente indignarsi e sospendere il contributo in denaro. Mi sembra corretto, codice alla mano, arrestare l’imam con l’accusa di istigazione all’omicidio, condannarlo con rapido processo penale, dare ampia notizia dell’intervento. Riaffermare, ancora una volta, che la donna è un essere “sacro” (tutti riceviamo la vita da una donna, anche agli imam) e va rispettato come tale.
Antonino Villani Conti, diacono a Reggio Calabria